Saperi

Le mode della pancia piena

Esiste anche un’agricoltura vegana, o vegetaliana. Da non confondere con l’alimentazione vegetariana, però. E poi c’è anche un altro neologismo in corso: il flexitariano. Non mancano nemmeno le pubblicità macabre, per carità. C'è poco da stupirsi: un agricoltore vegetaliano, di fronte a un cinghiale che stanziava nei suoi campi, lo avrebbe apostrofato così: “ puoi passare, puoi mangiare, ma non buttarmi per aria tutto…”. Siamo, insomma, nell’era degli interdetti. È la moda del momento, finché dura. Intanto, però, si mettono i bastoni tra le ruote a tutta l’agricoltura produttiva, con gran danno per tutti

Alberto Guidorzi

Le mode della pancia piena

Ho già avuto modo di scrivere sulle incongruenze dell’agricoltura biologica e biodinamica, ora vorrei parlarvi dell’agricoltura vegano o vegetaliana che dovrebbe stare alla base dell’alimentazione vegetaliana o vegana, da non confondersi assolutamente con l’alimentazione vegetariana che è più una dieta che uno stile di vita. Le due versioni sono altamente contrastanti. Inoltre si è formato un altro neologismo: il “flexitariano” cioè colui che sceglie di diminuire di molto la carne per motivi di salute, al fine di distinguerlo da chi lo fa per militantesimo.

Vediamo quindi di spiegare bene cosa sia il veganismo. Esso è un modo di vita consistente nel non consumare nessun prodotto o servizio proveniente dagli animali o dal loro sfruttamento. L’adozione di questo modo di vivere deriva generalmente da una ideologia che propone una ridefinizione normativa di ciò che dovrebbe essere la relazione degli umani verso gli animali. Questa ideologia può prendere la forma dell’antispecismo, un movimento secondo il quale la stessa considerazione morale dovrebbe essere accordata alle diverse specie animali. Più in generale il veganismo può inscriversi in un’azione per la difesa dei diritti degli animali.
Vi è un movimento che propugna di costituzionalizzare i diritti degli animali.

Scendendo più nello specifico, ecco gli interdetti che ne derivano: nessun consumo di prodotti carnei o prodotti da animali (latticini, uova, miele…), nessun utilizzo di prodotti, strumenti, accessori, abiti (niente scarpe di cuoio), chincaglieria d’origine animale o fabbricata a partire da componenti animali, messa al bando di tutti i prodotti testati su animali, nessun animale domestico è detenibile, non si può partecipare a spettacoli che comprendono l’uso di animali (circhi e anche spettacoli ippici o comunque corse di animali) e tanto meno spettacoli che si concludono con la morte dell’animale o che comunque comporti una certa qual loro sofferenza. Dunque in inverno niente abiti di lana (a meno che le pecore non siano consenzienti…) o piumini.

Tutti gli interdetti citati sopra sono facilmente individuabili, ma poi vi sono quelli occulti che un vegano, se vuole essere tale, deve preoccuparsi di farsi svelare. Ad esempio, esistono dodici alimenti comuni derivati da vegetali che a rigore sono interdetti ai vegani se non dopo verifica perché nella loro preparazione o negli ingredienti potrebbero comportare l’uso di derivati animali.
Cito solo ad esempio lo zucchero raffinato di canna o bietola che sia; per un vegano la raffinazione in sé non è interdetta, ma lo zucchero lo diventa in quanto potrebbe essere stato usato carbone animale per purificarlo. Tralascio gli altri undici, ma resto disponibile a citarli e spiegarne il perché. Ad esempio pubblicità veramente macabre di questo genere sono facilmente ritrovabili sulla propaganda vegana.

Siccome però i prodotti alimentari, comunque prodotti, hanno un rapporto diretto con l’agricoltura, ecco che il modo di fare agricoltura per un vegano ha anche qui i suoi interdetti. Diciamo subito che: l’uso del letame derivato da allevamenti è proibito, che cerca di favorire gli animali selvatici e nuocere loro il meno possibile. Infatti, destinano una fetta non indifferente della loro superficie aziendale alla creazione di zone rifugio e alla piantumazione di siepi allo scopo di favorirne la sopravvivenza.

Paola Maugeri, convinta vegana, dice che: “ di fronte ad un topo in casa lo inviterebbe gentilmente ad uscire… una zanzara non la uccide certo”. In una intervista ad un agricoltore vegetaliano si legge che di fronte ad un cinghiale nei suoi campi lo avrebbe apostrofato così: “ puoi passare, puoi mangiare, ma non buttarmi per aria tutto….”. Un buon consiglio per gli agricoltori del nostro Appennino!
Vi immaginate tori da 10 q o stalloni Percheron vaganti per la pianura padana? O credono che gli animali lasciati liberi rimangano perennemente vitellini e puledrini da vezzeggiare? Ammettono anche che si tratti di un’agricoltura che produce poco (20 q/ha di frumento), ma ribattono che essa ha la caratteristica della continuità, cosa che non ha l’agricoltura convenzionale perché desertificherà il pianeta.

Non è dato capire come la mettono nei confronti dell’agricoltura biologica che fonda tutto sull’uso del letame o dei prodotti derivati dagli animali (ossa, cornunghia, piume di volatili, farine animali e tutto ciò che è scarto della macellazione, infatti essi dicono che: « allorchè si apporta del letame, farine di piume si immette in modo brusco un ingrediente esogeno nel tuo campo e ciò modifica la vita del suolo come ad esempio il tasso d’umidità, i funghi e ciò porta ad una vera e propria disorganizzazione del terreno »).

Insomma, in sette mila anni di agricoltura l’uomo non ha capito nulla e ha sbagliato tutto. Anche l’agricoltura biodinamica usa gli animali, si serve di corna d’animali e altre loro parti anatomiche per richiamare le forze cosmiche. Usano anche il letame, seppure in dosi omeopatiche. Gli agricoltori vegetaliani accettano solo i sovesci e la copertura con le biomasse destinata poi a formare humus. Certo, con la dimensione di un orto o miniaziende agricole certe cose si possono fare, infatti vi è un fiorire di orti sinergici in permacoltura, ma con estensioni maggiori tutto diviene più problematico.

Evidentemente la protezione dei coltivi è tabù e la motivazione secondo il loro credo è altamente morale. Innanzitutto, per loro è normale che una parte della produzione ritorni alla natura, ivi compresa quella parte che serve a nutrire gli animali come si può leggere nei loro testi: “gli animali parassiti e distruttori devono essere visti come degli indicatori di una natura in salute e non dei nemici da combattere. Il sistema di coltivazione vegetaliano è basato in modo esplicito sulla tolleranza e a priori considera che una parte dei raccolti debba ritornare alla natura. L’uso di repulsivi è però ammesso”.
Dunque, si deve produrre anche per alimentare insetti, uccelli, lepri, cinghiali e quant’altro. Quello che non si capisce, è perché gli animali debbano avere uno statuto speciale, mentre insalate e carote che vengono tagliate o strappate dal loro habitat non meritino una uguale considerazione. Eppure, anche loro hanno una sensibilità (provate a toccare una foglia di mimosa).

Un’altra cosa che non capisco è come i vegani convinti e intellettualmente onesti accettino che sui loro convincimenti siano divulgati messaggi pubblicitari che associano il loro stile di vita con maggiorate performances sessuali, sportive e di culturismo, quando poi si scopre ad esempio che il campione sportivo o dedito al culturismo indicato come vegano ricorre al doping e all’imbroglio.

Ritornando alla nostra agricoltura vegana, io credo che ormai con queste agricolture/non agricolture siamo andati oltre san Francesco e le sue beatitudini. Infatti, anche le congregazioni francescane, nel tempo, pur avendo avuto come maestro una Santo, hanno dovuto essere richiamate all’ordine, e non una sola volta, perché la regola stava loro troppo stretta, e comunque si pensava di trovare mediazioni. Tuttavia, se da una parte vi era una visione evangelica un po’ estremizzata per la debole natura umana, ma che aveva come giusto scopo di richiamare la gente del tempo a svestirsi di materia e rivestirsi di un po’ più di spirito, nel vegetanesimo tutto ciò non esiste, esiste solo un’ideologia. Essa rientra nella attualissima questione che investe il mondo agricolo e che ho già avuto modo di delineare, cioè la popolazione agricola è rimasta solo un 2% della popolazione dei paesi industrializzati, tutto il resto si è ormai urbanizzato e ha perso anche la pur minima reminiscenza dell’agricoltura e dell’alimentazione dei loro nonni e bisnonni.

Gli inurbati hanno semplicemente idealizzato i racconti sentiti in gioventù, disancorandoli da quella realtà fatta di tanta fatica per riempire un piatto di poca sostanza, e quindi si lasciano attrarre da un concetto di natura che reputano fosse incontaminata e che ora vorrebbero godere ludicamente, estraniandola dall’essere un luogo che produce il cibo che arriva sulle loro tavole e, soprattutto, abitato da umani che hanno il diritto di vivere come tutti del loro lavoro.

Io non ho nulla contro chi coltiva le proprie terre nei modi suindicati, e neppure con chi consuma esclusivamente biologico, biodinamico o vegano, ma solo se resta una scelta individuale e non si chiedono sovvenzioni pubbliche in più di quelle concesse alle agricolture convenzionali. Invece, purtroppo, debbo constatare che la componente ideologica prende sempre più il sopravvento e si opera a livello di decisori politici affinché le idee propugnate, per me bislacche, permeino il vivere di tutta la collettività; nel senso che si esige di mettere sempre più i bastoni tra le ruote a tutta l’agricoltura produttiva, e che comunque li alimenta per una buona percentuale di soddisfacimento della fame.
Non solo, ma si vuol obbligare, anzi coartare, ad aderire tutti ad un modo di vivere precostituito, vedi l’obbligo dell’alimentazione vegana o biologica nelle mense scolastiche prevaricando la giusta pretesa dei singoli genitori a essere gli unici educatori dei propri figli, specialmente in un’epoca dove la società ha rinunciato alla parte di sua competenza. Insomma si propugna l’avvento dello “Stato Etico”.

Mi chiedo a questo punto, ma cosa direbbero quegli undici contadini trucidati, e i ventisette feriti che nel 1947, riuniti a Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo e a favore dell’occupazione delle terre incolte se li facessimo resuscitare oggi? A ben riflettere, che differenza c’è tra il modo di coltivare che c’era nel latifondo del dopoguerra e l’agricoltura biologica oggi? Il paragone con l’agricoltura biodinamica o vegetaliana, poi, sarebbe addirittura improponibile.
Ecco il perché del titolo: “Le mode della pancia piena”. Quei contadini non avevano la pancia piena per gran parte dei giorni dell’anno, mentre oggi abbiamo il cibo che ci esce dagli occhi e a coloro che non esce è perché rincorre l’utopia dell’immortalità e dell’eterna gioventù.
Inoltre, tutte le indagini dicono che si può misurare il progresso nello sviluppo di una società tramite l’analisi dei componenti base dell’alimentazione: cala la percentuali degli idrati di carbonio e cresce di pari passo il consumo di proteine e grassi. In poche parole, modificano le loro agricolture simil-biologico e orientate al vegetarianesimo per abbracciare agricolture produttive. Le prime lasciavano loro la pancia vuota, mentre il cambiamento gliele riempie un po’ di più.

L’esempio che ho citato sono cose d’altri tempi? Mi sapete dire che differenza c’è tra quei contadini siciliani morti (in maggioranza di etnia albanese) e i migranti che attraversano il mediterraneo oggi?
I primi volevano mangiare tutti i giorni in pace e non avrebbero mai immaginato che si aprisse il fuoco su di loro, mentre i secondi vogliono trovare la stessa identica cosa nel mondo sviluppato, e per giunta sono sicuri che purtroppo un buon numero di loro andranno in pasto ai pesci, eppure partono, e noi gli diciamo che dovranno mangiare solo vegano anche qui da noi.

La foto di apertura è di Luigi Caricato. Quelle interne al testo sono fornite dall’Autore

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