Le radici del falso mito che vuole il naturale sinonimo di buono
Artificiale, corrotta, così come le persone che la abitano. La città, per Jean-Jacques Rousseau, è capace di accogliere tutti quegli aspetti umani negativi, che si riflettono negli atteggiamenti e in una cultura che insegna a difendersi dalla menzogna. Contrapposta, la campagna immacolata, con la genuinità dei suoi abitanti. Era il Settecento, ma le convinzioni dello scrittore francese, autore di Giulia o la nuova Eloisa, hanno continuato il loro percorso giungendo fino ai tempi più moderni e attuali, plasmando la mente dei più attraverso le più disparate tecniche di comunicazione
Nel Settecento, il mito nostalgico della campagna naturale, incontaminata, genuina, irenica che si contrappone alla città artificiale, sporca, corrotta, minacciosa trovò in Jean-Jacques Rousseau un fervido cantore.
Per costruire il suo pensiero su tale argomento, il filosofo ginevrino rivisitò il mito del “buon selvaggio”, che aveva elaborato nei suoi due celebri discorsi scritti per l’Accademia di Digione, “Discorso sulle scienze e le arti” (1750) e “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” (1754).
Soprattutto nel primo, il pensatore aveva sostenuto la superiorità etica di un ipotetico uomo selvaggio che, vivendo in perfetta armonia con la natura, non conoscerebbe la malvagità prodotta dalla cultura.
Si era trattato di una provocazione intellettuale che tendeva a criticare l’uomo civilizzato, più che a idealizzare l’uomo primitivo.
Scrive, infatti, Rousseau: “I selvaggi non sono cattivi, perché non sono buoni.
Non è l’accrescimento dei lumi né il freno delle leggi che impedisce loro di fare del male, ma la naturale calma delle passioni e l’ignoranza del vizio”.
Il mito del “buon selvaggio” è il filo rosso che attraversa tutte le opere del filosofo.
Giulia o la nuova Eloisa
L’opera che meglio esprime il pensiero di Rousseau sul rapporto conflittuale tra il mondo rurale e il mondo urbano è il romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa.
Lettere di due amanti, di una cittadina ai piedi delle Alpi”, scritto tra il 1756 e il 1757 e pubblicato nel 1761 da Marc-Michel Rey ad Amsterdam.
I due protagonisti principali sono Giulia, la figlia del barone d’Etange, e il suo precettore, Saint-Preux, un uomo di umili origini, “senza famiglia” e “senza patria”.
Nella Lettera XIV della seconda Parte, Saint-Preux, mentre soggiorna nel frastuono eccitante di Parigi, scrive all’amante-allieva le sue impressioni sulla capitale francese.
È un testo rilevante che ha segnato profondamente la cultura europea.
In esso si delinea l’opposizione fra Parigi, che al tempo era la città più civilizzata d’Europa e, dunque, rappresentava il culmine dell’artificiale, e il centro rurale della Svizzera, Vevey, che il precettore è costretto a lasciare.
Il primo rilievo critico che Rousseau fa scrivere a Saint-Preux riguarda l’ipocrisia nelle relazioni sociali.
La città non viene descritta nei suoi aspetti architettonici e monumentali, bensì nei suoi tratti interiori, morali.
L’analisi riguarda il paesaggio interiorizzato in profondo contatto con l’io.
“Come mai – egli si chiede – si può essere subito amico di qualcuno che non s’è mai visto?”.
E continua: “La cortese sollecitudine umana, la semplice e commovente effusione d’un’anima schietta hanno un linguaggio ben diverso dalle false esibizioni della cortesia e dalle ingannevoli apparenze volute dal costume sociale.
Temo molto che quel tale che al primo incontro mi tratta come un amico di vent’anni, non mi tratti in capo a vent’anni come uno sconosciuto, dovessi chiedergli un servizio di qualche importanza; e quando vedo uomini così dissipati esibire una così tenera sollecitudine per tanta gente, mi induco a credere che non ne hanno per nessuno. […] In realtà Parigi è probabilmente la città nella quale le fortune sono più diseguali, dove insieme regnano la più fastosa opulenza e la miseria più deplorevole. Tanto basta per capire che cosa significano codesta apparente commiserazione che par sempre prevenire i bisogni del prossimo, e codesta superficiale tenerezza di cuore che in un istante contrae eterne amicizie”.
Saint-Preux si concentra soprattutto sull’opposizione tra l’essere e l’apparire, espressa dall’uso di vocaboli come “sembler”, “fausses dimonstrations” e “dehors” opposti a “hônnete intérêt” e “âme franche”.
Ad essa si collega l’idea di inganno (“trompeurs”) che si manifesta nella parola “politesse”.
Questa significa “buona educazione”, “cortesia”, ma assume un’accezione di artificialità (e, quindi, negativa), derivando da “polir” nel significato di “lucidare”, “raffinare”.
Anche la lingua e i modi di dire usati nei salotti sono artificiali e ingannevoli, portando quindi alla dissociazione fra il dire e l’essere.
Parlando della cultura, il giudizio del precettore sembra farsi più equilibrato: “Si è subito e piacevolmente meravigliati della sapienza e della ragione che animano le conversazioni, e non soltanto quelle dei dotti e dei letterati, ma degli uomini di qualsiasi condizione e persino delle donne. Il tono della conversazione è scorrevole e naturale; non è né pesante né frivolo; è dotto senza pedanteria, ilare senza chiasso, cortese senza smancerie, galante ma non insipido, faceto senza equivoci. Egualmente lontano dalla dissertazione e dall’epigramma; vi si ragiona senza argomentare e si scherza senza giuochi di parole; si associano sapientemente lo spirito e la ragione, le massime e le arguzie, l’acuta satira, l’abile adulazione e l’austera morale. Si parla di tutto perché ciascuno possa dire qualche cosa; non si sta a approfondire i problemi per evitare la noia, si propongono così di scorcio, si discutono rapidamente, la precisione genera l’eleganza. Ognuno esprime il proprio parere e lo sostiene con poche parole; nessuno si scaglia con foga contro quello altrui, nessuno difende ostinatamente il proprio; si discute per chiarire le idee, ci si ferma prima del diverbio; ognuno si istruisce, ognuno si diverte, tutti se ne vanno soddisfatti, e persino il saggio può portar via da questi colloqui degli argomenti degni d’esser meditati in silenzio”.
Ma in realtà anche nella cultura, ci racconta Saint-Preux, se si va a fondo si scopre la menzogna, l’“art” (artificio).
Egli chiede retoricamente all’amante-allieva: “Cosa credi si possa imparare in queste così piacevoli conversazioni? Forse a rettamente giudicare delle cose del mondo? A far buon uso della società, a conoscere almeno le persone con le quali si vive?”.
E risponde egli stesso: “Niente affatto, cara Giulia. Ci si impara a difendere con arte la causa della menzogna, a scuotere a furia di filosofia tutti i principi della virtù, a colorare di sottili sofismi le proprie passioni e i propri pregiudizi, e a conferire all’errore un certo aspetto alla moda, secondo le massime correnti. Non occorre conoscere il carattere delle persone, ma soltanto i loro interessi per indovinare a un dipresso che cosa diranno su ogni cosa. Quando un uomo parla, non è lui ma per così dire è il suo abito che esprime un parere; e ne muterà senza tante storie mutando di stato. Dategli successivamente una lunga parrucca, un’uniforme d’ordinanza o una croce pettorale: lo sentirete successivamente predicare con pari zelo le leggi, il dispotismo e l’inquisizione. Esiste una comune ragione per la toga, un’altra per la finanza, un’altra per la spada. Ognuna dimostra benissimo che le due altre sono cattive, conseguenza che è poi facile applicare a tutte e tre. In questo modo nessuno mai dice cosa pensa, ma che cosa è opportuno che faccia pensare agli altri, e in loro l’apparente zelo per la verità non è mai altro che la maschera dell’interesse. […] Così che gli uomini ai quali si parla non sono quelli coi quali si conversa; i sentimenti non gli nascono dal cuore, i loro lumi non gli stanno nello spirito, i loro discorsi non esprimono i loro pensieri, di loro non si scorge altro che l’aspetto esterno, e in una società uno si trova pressappoco come davanti a un quadro mobile, nel quale il pacifico spettatore è l’unico essere semovente. […] Frattanto vedi se non ho ragione di chiamar deserto quella folla, e di spaventarmi d’una solitudine nella quale altro non trovo che una vana apparenza di sentimenti e di verità, un’apparenza che muta a ogni istante e si distrugge da sé, nella quale non vedo altro che larve e fantasmi che colpiscon la vista e dileguano non appena si cerca di afferrarli. Finora non ho visto altro che maschere; quando mai potrò vedere volti umani?”.
Attirando l’attenzione del lettore sulla vita interiore, Rousseau vuole evidenziare la particolarità del singolo e opporsi all’uniformità imposta dalla società.
Così facendo fa un ulteriore passo avanti rispetto al suo tempo: se la crisi della coscienza europea aveva portato l’uomo del Seicento e poi del Settecento a mettere in dubbio la parola dell’autorità e basarsi unicamente sull’esperienza, Rousseau aggiunge che l’esperienza può variare e così le nostre idee.
Saint-Preux conclude, infatti, la lettera specificando che queste sono le sensazioni che ha avuto da un certo tipo di esperienza che ha fatto della città e degli abitanti di Parigi, ma che forse ciò che ha visto non era totalmente vero e che se vedrà altro potrà cambiare idea.
Clarens
Anche in altre lettere, il pensatore ribatte sulla contrapposizione tra città e campagna.
Nella Lettera VII della V Parte, Saint-Preux invita l’amico Bomston a tornare a vivere a Clarens, piccolo villaggio nel comune di Montreux, in Svizzera.
E per convincerlo descrive fantasiosamente come si lavora in campagna: “Il lavoro campestre è piacevole, non ha in sé niente di tanto faticoso da muovere a compassione. È importante, siccome ha per oggetto l’utilità pubblica e la privata; e poi è la prima vocazione dell’uomo, richiama allo spirito un’idea piacevole e al cuore tutti gli incanti dell’età dell’oro. L’immaginazione non rimane fredda alla vista dell’aratura e della mietitura. La semplicità della vita pastorale e rustica ha sempre qualcosa di commovente. Guardando prati coperti di gente che fan fieno cantando, e greggi sparse in lontananza, insensibilmente ci si sente intenerire senza sapere perché. […] Da un mese i calori dell’autunno venivano maturando abbondante vendemmia; le prime brinate le hanno dato inizio; il tralcio bucato dal gelo scopre il grappolo e svela agli occhi i doni del padre Lieo, come se invitasse i mortali a coglierli. Tutti i vigneti carichi di quel benefico frutto che il cielo offre agli sventurati perché dimentichino la loro miseria; il rumore delle botti, dei tini che si stanno racconciando; il canto delle vendemmiatrici di cui risuonano i pendii; i continui andirivieni di coloro che portano la vendemmia al torchio; il rauco suono dei rustici strumenti che animano il lavoro; l’amabile e commovente quadro d’un’allegria generale che pare stesa sulla faccia di tutta la terra; e persino quel velo di nebbia che il sole alza la mattina come un sipario di teatro per scoprire agli occhi uno spettacolo così incantevole: tutto cospira a conferirgli un tono festoso, e riflettendoci la festa si fa anche più bella al pensiero che è la sola nella quale gli uomini hanno saputo unire il piacere all’utile. […] Non potete immaginare con che zelo e con che allegria si fanno questi lavori. Si canta e si ride tutta la giornata, e il lavoro va anche meglio. Tutti vivono nella massima familiarità; tutti sono eguali, e nessuno trascende. Le signore non si danno arie, le contadine sono decenti, gli uomini scherzosi ma non rozzi. È una gara per trovare le canzoni più belle, per le migliori storie, le più piccanti arguzie. La stessa unione genera scherzose dispute, non ci si stuzzica reciprocamente che per dimostrare quanto si è sicuri gli uni degli altri. Poi non si torna a casa per fare i signori; si trascorre tutta la giornata nel vigneto; Giulia vi ha fatto fare una loggia dove si va a riscaldarsi quando si ha freddo, e dove ci si rifugia in caso di pioggia. Si mangia coi contadini e alla loro ora, così come si lavora con loro. Si mangia di buon appetito la loro minestra un po’ grossolana, ma buona, sana e ricca di ottimi legumi. Non si sogghigna orgogliosamente dei loro fare goffo e dei loro complimenti rustici; per metterli a loro agio ci si adatta senza affettazione. Sono compiacenze che non sfuggono ai loro occhi; le avvertono, e poiché vedono che usciamo per loro dal nostro posto, stanno tanto più volentieri nel loro. […] Questi saturnali sono assai più piacevoli e saggi di quelli romani. Il rovesciamento che quelli affettavano era troppo vano perché potesse istruire il padrone o lo schiavo; ma la dolce eguaglianza che qui regna ristabilisce l’ordine della natura, è un’istruzione per gli uni, una consolazione per gli altri e un legame d’amicizia per tutti”.
I romanzi
Rousseau ritiene che l’opposizione tra il naturale e l’artificiale sia un’idea da diffondere attraverso i romanzi.
Ma sembra esserci un’incongruenza nel suo percorso concettuale.
Benché lo scrittore avesse scelto di utilizzare proprio il romanzo per esprimere il suo pensiero, egli considera corrotto tale genere ed è convinto che questo piaccia ai popoli corrotti.
Addirittura confessa che avrebbe voluto vivere in un’epoca in cui non avrebbe dovuto pubblicare questo tipo di opere.
Per approfondire l’argomento, egli aggiunge nell’opera una seconda prefazione intitolata Dialogo sui romanzi tra l’editore e un letterato.
In tale testo lo scrittore afferma che “per dare alle opere di immaginazione l’unica utilità di cui sono capaci, bisognerebbe dirigerle verso una meta opposta a quella che i loro autori si propongono: evitare le istituzioni; ricondurre tutto alla natura; dare agli uomini l’amore della vita semplice e piana; guarirli dalle fantasie dell’opinione; far sì che amino la solitudine e la pace; ridar loro il gusto dei veri piaceri; tenerli a una certa distanza gli uni dagli altri; e invece di incitarli ad ammucchiarsi nelle città, indurli a spargersi in tutto il territorio, in modo da vivificarlo in ogni sua parte”.
Si tratta “di far vedere alla gente agiata che la vita rustica e l’agricoltura hanno piaceri a loro ignoti; che quei piaceri sono meno insipidi, meno grossolani di quanto credono; che possono aver gusto, scelta e delicatezza; che un uomo da bene che volesse ritirarsi in campagna con la sua famiglia ed essere il suo proprio fattore, potrebbe trascorrerci un’esistenza non meno dolce che tra i piaceri della città; che una massaia di campagna può essere una donna affascinante, piena di grazie e di grazie più pungenti di tutte le vanerelle cittadine; che, insomma, i più dolci sentimenti del cuore possono animare in campagna una società più gradevole del linguaggio affettato dei circoli, dove il nostro ridere mordace e satirico è il triste supplemento dell’allegria, che non vi si conosce più”.
Il filosofo ginevrino è convinto che il suo romanzo epistolare sia utile anche alle popolazioni rurali: “Perché non potrei supporre che questo libro, come tanti altri anche più cattivi, potrà capitare tra le mani degli abitanti della campagna, e che l’immagine dei piaceri d’uno stato tanto simile al loro glielo farà più tollerabile? Mi piace immaginare due sposi che insieme leggono questa raccolta, e ci attingono nuove forze per sopportare le comuni fatiche, e fors’anche nuove idee per renderle utili. Come potrebbero contemplare l’immagine d’una famiglia felice senza voler imitare così amabile modello? Come potranno intenerirsi davanti alla bellezza dell’unione coniugale, pur senza amore, senza che la loro si faccia più stretta e forte? Staccandosi da questa lettura, non saranno né rattristati del loro stato, né disgustati delle loro cure. Anzi, intorno a loro tutto sembrerà assumere un più ridente aspetto; i loro doveri si faranno anche più nobili ai loro occhi; riacquisteranno il gusto dei piaceri naturali; nei loro occhi rinasceranno i veri sentimenti, e vedendo la felicità a portata di mano impareranno a gustarla. Riempiranno le stesse funzioni; ma le riempiranno con altro spirito, e faranno da veri patriarchi ciò che prima facevano da contadini”.
I novelli cantori del pensiero nostalgico
Oggi il mito nostalgico della campagna incontaminata e irenica ha novelli cantori che probabilmente non hanno mai letto Giulia o la nuova Eloisa.
Essi inducono i propri proseliti a credere in un’idea molto diffusa: tutto ciò che è naturale sarebbe buono, mentre ciò che è creato dall’uomo sarebbe cattivo.
Su tale convinzione è poggiato il favore di cui godono le cosiddette medicine naturali (omeopata, ecc.) e le agricolture naturali (biologica, biodinamica, permacoltura, ecc.).
E, nel contempo, è basata l’indiscriminata avversione verso tutto ciò che è chimico, come se la chimica non fosse presente dovunque in natura.
Non solo il pensiero nostalgico ma anche quello magico trova inaspettati sostenitori.
Come ha scritto il premio Nobel Giorgio Parisi, “dalla fine della caccia alle streghe in poi, la magia non è mai più entrata nell’ordinamento giuridico”.
Eppure nel Parlamento italiano – osserva il fisico – “qualcuno deve aver scambiato l’agricoltura biodinamica per un’agricoltura biologica rafforzata e non si è accorto che stava inserendo nella legislazione riferimenti ai preparati biodinamici che si basano su una visione del mondo dominata forze esoterico-astrali che si accumulano tramite corna degli animali”.
Si tratta di credenze che soddisfano la nostra intuizione immediata e concordano con i nostri bias cognitivi.
Questi bias in passato svolgevano una funzione formidabile per sopravvivere: ci fornivano, infatti, risposte immediate a molti problemi della nostra esistenza.
Ma oggi viviamo in un ambiente molto diverso da quello in cui ci siamo evoluti.
E i problemi che dobbiamo affrontare sono molto più complessi di quelli del passato.
Non si tratta di negare l’importanza dei miti e dei bias cognitivi.
Vanno però rielaborati per fare delle scelte sensate e utili e non provocare danni.
Gli odierni cultori del pensiero nostalgico e magico, anche senza leggere i classici del Settecento, sanno che questo mito si alimenta con messaggi immaginifici, sovrapponendo e integrando finzione e realtà.
E così al romanzo e al cinema è subentrata la televisione, come mezzo di diffusione del mito arcadico, con le fiction, la pubblicità, i programmi d’intrattenimento.
Negli ultimi anni, i messaggi che diffondono la visione irenica dell’agricoltura e della ruralità passano soprattutto attraverso i social.
Dunque, il mito di Rousseau e il romanzo che lo ha diffuso continuano a influenzare la nostra società.
Non a caso, nel 2009, Gianroberto Casaleggio ha dedicato allo scrittore ginevrino il sistema operativo digitale che ha messo a disposizione dei 5 Stelle.
Un’applicazione alla politica dell’indottrinamento mitizzato e mediatico.
In dieci anni, la piattaforma Rousseau ha fatto la fortuna elettorale di questo movimento.
Per sapere come nascono e si diffondono le false rappresentazioni della realtà, non è un esercizio vano riscoprire una delle radici culturali più promettenti del romanticismo.
In apertura, foto di Olio Officina©
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