L’eredità del mondo contadino alligna ovunque
Anche a Roma. Non soltanto per la vasta superficie agricola e per le attività multifunzionali, ma pure per il modo di essere della città e per l’attitudine di molti abitanti a relazionarsi con gli altri. Questo lascito lo si ritrova anche nelle forme particolari con cui tra mille difficoltà gli immigrati del Sud del mondo s’inseriscono nei quartieri. Tutto ciò può rivelarsi utile, a maggior ragione se questa eredità viene valorizzata per ridisegnare le funzioni di una metropoli planetaria alle prese con le grandi sfide globali

Pubblichiamo l’intervento di Alfonso Pascale sul tema “L’eredità del mondo contadino”, in occasione del secondo incontro “I suoli di Roma”, nell’ambito del Ciclo di Incontri dell’Archivio “Italo Insolera” dedicato a “Roma moderna. Prima edizione 1962” – Fondazione Gramsci – 14 maggio 2025
Grazie ad Alessandra Valentinelli per avermi coinvolto in questa bella iniziativa e assegnato il tema “L’eredità del mondo contadino”. Sì, un’eredità del mondo contadino c’è anche a Roma. Non è soltanto nella vastità di superficie agricola nel suo territorio e nelle attività multifunzionali che su di essa si svolge. La ritroviamo nel modo di essere della città e nell’attitudine di molti suoi abitanti a relazionarsi con gli altri, quando si creano luoghi di incontro. La ritroviamo nella disponibilità a costruire percorsi partecipativi dal basso, quando ci sono e si mettono in gioco animatori e facilitatori competenti. La ritroviamo nelle forme particolari con cui oggi, spontaneamente e tra mille difficoltà, gli immigrati che vengono dal Sud del mondo s’inseriscono nei quartieri, quando essi decidono di farlo.
Un’eredità che può essere utile, se valorizzata, per ridisegnare le funzioni di una metropoli planetaria, quale oggi Roma è diventata, alle prese con le grandi sfide globali.
L’eredità di cui stiamo parlando è qualcosa che proviene, come vedremo, da mondi contadini molteplici di origine millenaria. Si tratta di culture associate a pratiche comunitarie di diverso tipo: i riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti; le veglie serali dedicate a quella che oggi chiamiamo “intergenerazionalità”; lo scambio di mano d’opera tra le famiglie nei momenti di punta dei lavori aziendali; l’idea di vicinato coi suoi riti di reciprocità; gli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva; le società di mutuo soccorso e le associazioni locali, diffuse soprattutto nel Sud, come le chiese ricettizie, le confraternite, i monti frumentari, i monti di pietà.
Erano forme concrete di relazionalità con cui gli individui si aiutavano vicendevolmente. Una sorta di ruralitudine, rimasta inconsciamente nei nostri caratteri di fondo.
Se oggi siamo quelli che siamo lo si deve ad alcuni semi che abbiamo ereditato: il senso della libertà individuale che sa conciliarsi con lo spirito comunitario o l’idea dell’intangibilità della dignità umana che sa integrarsi con lo spirito di fraternità. Semi rafforzati, sul piano teologico e filosofico, dal cristianesimo. Ma preesistenti ad esso.
E, in più, ci caratterizza quell’atteggiamento dubbioso ed esigente che ci proietta sempre verso nuove mete, quel vitalismo che si unisce al senso della misura, al rispetto, all’attenzione a non violare l’àperion, ossia l’illimitato.
I mondi contadini da cui proveniamo sono tipici del Mediterraneo: un mare che unisce, un luogo sincronico che esalta la distinzione contro la tragica opposizione, la capacità di sintesi, di coabitazione di tradizioni culturali diverse e anche contrapposte.
Roma non è mai diventata una città industriale. Il suo carattere di fondo è rimasto quello della città burocratica parassitaria, cioè solo indirettamente produttiva e che, per importanti aspetti, ha assunto le sembianze di una città pre-capitalistica.
Roma è passata, attraverso varie fasi del suo sviluppo e della sua crescita, dal carattere violentemente asimmetrico, da una condizione premoderna alla società globale in divenire.
Roma è una città planetaria dal punto di vista tecnologico, ma arretrata dal punto di vista politologico. Un’entità ancora priva di una istituzione in grado di governarla e non solo e non tanto per le sue funzioni di capitale.
Oggi siamo in presenza di un processo di erosione della libertà individuale, della democrazia e della solidarietà sociale. In tutto l’Occidente crescono movimenti aggressivamente nazionalisti, reazionari e persino razzisti.
Roma non è esente da tale processo. Una deriva che si può combattere se si rilancia un impegno collettivo per far prevalere il bene comune e l’interesse generale sugli interessi e le visioni particolari.
Qui sta l’attualità di Roma moderna (Einaudi, 1962) di Italo Insolera.
Ho riletto il libro contestualmente ad un’altra opera: Roma da capitale a periferia (Laterza, 1970) di Franco Ferrarotti. E così ho potuto verificare che le due ricerche sono complementari, benché partano da due angolature diverse. Entrambe, infatti, si aprono ad un approccio interdisciplinare. E, dunque, una lettura congiunta permette di individuare i fili che legano le culture contadine, autoctone (proprie dell’Agro romano) e acquisite (dei contadini migrati dalle province del Lazio e dalle regioni del Sud Italia), nel percorso storico della città.
Come ha ricordato poc’anzi Roberto Della Seta, Insolera aveva scritto sulla rivista Urbanistica diretta da Adriano Olivetti. Il quale era animatore del Movimento di Comunità e presidente dell’INU. E anche Ferrarotti aveva avuto rapporti molto stretti con l’imprenditore di Ivrea, sia professionali che politici.
Stiamo, dunque, parlando di costruttori di comunità, di intellettuali che intendevano la pianificazione urbanistica come processo trasformativo da realizzare, con una visione della società, tenendo insieme il senso del luogo, la storia dei luoghi, intrecciata alle storie di vita, e la partecipazione delle comunità.
In realtà, Ferrarotti e Insolera, benché reciprocamente citassero i loro rispettivi lavori, non ebbero mai occasione di collaborare. E questo è stato un limite che ha riguardato anche altri sociologi e urbanisti. Nonostante la disponibilità a integrare urbanistica e scienze sociali nelle analisi su Roma, da parte di sociologi come Crespi e Martinelli o di urbanisti come Quaroni, Beguinot e Colombo, l’integrazione delle due discipline non si è mai realizzata. A questa conclusione perveniva Stefania Vergati già in un articolo sulla rivista “La critica sociologica” del 1976, in cui l’autrice esamina il dibattito su tale argomento. Forse solo qualche sporadica ricerca limitata a singole borgate è stata effettuata da sociologi, architetti e urbanisti insieme (come quella del 1967 nella borgata della Borghesiana). Ma sulla storia critica della Roma contemporanea il dialogo non è esistito.
Mondi contadini a Roma dal 1870 al fascismo
Roma e l’Agro romano (da non confondere con la Campagna romana molto più ampia) sono stati sempre pensati come un insieme. Roma si preoccupava delle condizioni umane – con le risorse e i servizi – per rendere popolabile oltre che coltivabile l’Agro. E l’Agro assicurava non solo le risorse alimentari, ma soprattutto quella cultura delle relazioni e dello spirito comunitario tipica delle culture contadine mediterranee.
Per cogliere le peculiarità della cultura contadina di Roma bisognerebbe studiare a fondo tale interazione. E l’altro elemento da considerare è costituito dall’afflusso di migranti che, in fasi diverse, si insediano, dapprima nell’Agro romano e, successivamente, nella periferia della città.
Il mondo contadino è stato sempre visto come una componente essenziale per creare nell’Agro un legame diretto tra coltivatore e terra. Un legame già percepito come virtuoso sotto il pontificato di Pio VI (1775-1799), quando Giovanni Francesco Maria Cacherano di Bicherasio propose, in un saggio pubblicato nel 1785, che lo stato avrebbe dovuto incamerare una parte dell’Agro, per dividerlo in lotti da assegnare ai contadini.
Il piano non ebbe esiti pratici, nonostante, peraltro, l’accoglienza benevola del papa che aveva, nel frattempo, avviata la bonifica dell’Agro pontino. Ma l’idea di ripopolare l’area di contadini rendendoli assegnatari di quote – un’idea intesa più come presupposto che obiettivo di sviluppo – rimase nell’aria. E, nel secolo successivo, fu alla base delle due leggi speciali per la bonifica dell’Agro, la prima nel 1883 e la seconda nel 1902. Gli interventi previsti da tali normative vennero in parte realizzati. Nacquero i primi centri di colonizzazione, le borgate rurali e le borgate dette civili (o centri di servizio).
L’Agro romano fu poi pienamente coinvolto nelle occupazioni di terra del 1919. Anche a seguito di quelle lotte, le opere di bonifica si intensificarono negli anni Venti e Trenta del Novecento con la piena valorizzazione del patrimonio di “intelligenza statale”, accumulatasi nei decenni precedenti, da parte del fascismo.
Nel 1870 Roma contava poco più di 200 mila abitanti. La sua popolazione crescerà con l’arrivo di contadini dalle province del Lazio e da altre regioni del centro e del Sud. Saranno loro a dare vita alle borgate, nel Suburbio e nell’Agro romano. Già nel 1920, nelle baracche e nelle prime borgate, vive un numero di persone oscillante tra le 45 mila e le 100 mila.
Dunque, persone di mondi contadini diversi (Ferrarotti definisce l’Italia “un arcipelago di culture”), conservando abitudini e bisogni dell’ambiente sociale che avevano abbandonato, vennero a convivere in un rapporto provvisorio con una popolazione che chiamava loro “cafoni”, come chiamava “buzzurri” gli impiegati piemontesi immigrati. Una popolazione romana “poco partecipe – come scrive Insolera – di questo grande indaffararsi dei ‘cafoni’ a costruire case per i ‘buzzurri’”.
E anche ai nuovi “cafoni” capitò quello che capitava ai “cafoni” dei decenni precedenti, nei periodi dell’anno quando era massima la richiesta di manodopera: non trovare più posto per dormire nelle baracche. E si accampavano allora dentro Roma come clochard privi di tutto: la famiglia l’avevano lasciata al paese, la roba loro era un fagotto che si portavano dietro sul lavoro e di notte serviva da guanciale sotto i portici o sulle scalinate delle chiese.
Mondi contadini a Roma nel secondo dopoguerra
I contadini di Roma parteciparono da protagonisti anche all’epopea delle occupazioni di terre che nel 1949 si ebbero nel Lazio e nell’Italia meridionale, così com’era avvenuto trent’anni prima.
A seguito di quelle lotte e con l’impegno di una leva formidabile di tecnici, ricercatori, agronomi ed economisti agrari, si attuò nel Lazio (in particolare, a Roma e nella Maremma romana), nella Maremma toscana, nel Delta padano e nel Meridione la riforma agraria, approvata con una legge del 1950.
Si ruppe finalmente il latifondo e molti contadini assegnatari si trasformarono in imprenditori e la produzione agricola si raddoppiò. Ci fu una nuova e più consistente domanda di mezzi tecnici, soddisfatta dalla creazione di nuove imprese industriali nel Nord. Si sviluppò ulteriormente l’industria manifatturiera nel settore alimentare. Le indennità di esproprio furono investite soprattutto nell’edilizia.
Tra il 1950 e il 1980 si assestò all’antico assetto sociale il “colpo d’ariete” (prendo in prestito la suggestiva interpretazione di Giuseppe Medici – e fatta propria da Luigi Einaudi – delle ondate di trasformazioni indotte dalla riforma agraria del 1950).
Con la riforma agraria furono espropriati 700 mila ettari e, già nel 1960, oltre 417 mila ettari di terra passarono in mano a contadini. Nel frattempo, un moto spontaneo di accesso alla terra fu favorito dalla Cassa per la proprietà contadina e dalle agevolazioni fiscali. In virtù di tali misure – tra il 1948 e il 1968 – passarono nelle mani dei contadini un altro milione e 600 mila ettari.
Quindi, in un paio di decenni, la proprietà coltivatrice si allargò su altri due milioni di ettari.
Nel 1958 gli occupati in agricoltura cedevano il primato nelle statistiche ai lavoratori dell’industria e, nel 1963, si aveva il “boom economico”. Tra il 1955 e il 1970, tre milioni di persone spostarono la residenza dal Sud in un comune settentrionale. Tra il 1951 e il 1971 le campagne persero 4,4 milioni di agricoltori, ma guadagnarono 1,9 milioni di operai, impiegati e artigiani.
Nel lasso di tempo di una generazione, le campagne italiane vennero urbanizzate e industrializzate. Restavano campagne ma avevano un altro volto. I contadini si liberavano finalmente dalla miseria, dalla fame e dalla fatica. Si inurbavano ma restavano contadini di fabbrica o di città.
Il tutto avveniva secondo le regole di moduli organizzativi di una rivoluzione industriale che, in Inghilterra, aveva richiesto quasi due secoli e qui solo una generazione.
Anche Roma diventò meta di contadini che, soprattutto dalle altre province del Lazio, dalle altre regioni del Centro, dal Sud e, più raramente, dalle aree depresse del Nord, venivano a cercare migliori condizioni di vita e opportunità di lavoro. Solo qualcuno trovava un alloggio nel centro della città. Molti nelle borgate e nelle baracche. In quest’ultime si adattavano provvisoriamente in attesa di trovare una vera casa.
Se si leggono Vite di baraccati (Liguori, 1974) di Ferrarotti e altre ricerche più limitate fatte successivamente nelle borgate romane si trovano storie di vita di emigranti che dalla condizione contadina erano passati alla condizione urbana, continuando a lottare contro la precarietà e per la sopravvivenza.
Accanto a quegli abitacoli di fortuna, poggiati ad antiche mura, i contadini inurbati continuavano a coltivare un piccolo orto e ad allevare galline. E si dedicavano a piccole attività commerciali e artigianali in spazi vicini. Diversi anni dopo, quando finalmente sarà ad essi assegnato un alloggio in case popolari sovraffollate e per lo più costruite fuori del raccordo anulare, rimpiangeranno la condizione precedente. Si ritroveranno in luoghi dove non ci sarà modo per confrontarsi con altri, di scambiare due parole, poiché non esisterà un giardino, una piazza che lo consentiranno. E gli esercizi abbandonati saranno a chilometri di distanza, non più sorvegliati da vicino e andranno in malora.
Le vecchie borgate assumeranno, invece, le sembianze di veri e propri quartieri e da periferia tenderanno a diventare poli di una città policentrica con una vita sociale ed economica attiva.
Le storie di vita raccolte in tali quartieri (l’ultima ricerca è del 2024: 11 interviste raccolte da Roberta Yasmine Catalano e Mauro Clementi in Dimmi com’era il Pigneto), ci parlano di un vissuto esistenziale che rompe gli schemi. Si possono avere i piedi in una grande città, gli schemi mentali prevalenti sono ancora fermi al “paese mio”, immersi nella cultura del borgo d’origine, chiusi nel suo controllo sociale.
Coloro che sono venuti a Roma tra gli anni Cinquanta e Settanta sono rimasti un “popolo di contadini”. E questo perché, quando sono arrivati, non si lasciavano alle spalle una cultura, non erano uomini nel limbo fra una cultura abbandonata e un’altra cultura che non li accoglieva, non erano quindi persone sospese “a mezza parete”, come invece accadrà alla prima generazione di immigrati comunitari o extra-unionali.
Come scrive Ferrarotti, la cultura contadina ha fornito “quella base d’identità e quella sorta di ammortizzatore segreto delle crisi sociali ad ampio raggio, che in altri contesti sociali e storici hanno dato luogo a fenomeni di sradicamento e di alienazione”.
La nuova ruralità
Bisogna continuare a raccogliere gli sprazzi di cultura contadina nelle storie di vita degli abitanti. Non solo i novantenni e gli ottantenni, ma anche le generazioni successive, che sono state protagoniste dei movimenti degli anni Settanta e Ottanta, potrebbero raccontare – ora che i conflitti generazionali sono sopiti – come in quelle lotte agivano i semi di ruralitudine lasciati in eredità dai loro genitori.
Erano studenti, giovani disoccupati e operatori nell’ambito socio-sanitario che a Roma – come in altre realtà del Paese – occupavano terre pubbliche. E davano vita a quel processo di “nuova ruralità”, che ha investito in particolare l’Italia ma anche altri Paesi occidentali e che Corrado Barberis per primo ne colse il carattere dirompente.
Quel processo è evoluto nel tempo nelle esperienze di agricolture civiche o civili, che, dopo decenni di oblio, hanno conquistato l’attenzione della società. La ricercatrice Anna Lei ha raccolto nel 2019, in un volumetto intitolato Agricolture urbanizzate. Nuovi paesaggi commestibili nella Campagna romana (Nuova Cultura), le esperienze più significative.
Nel febbraio 2019, Roma è stata nominata Capitale europea degli orti urbani. Accanto a queste realtà resta nell’Agro romano un’agricoltura vitale e dinamica, fatta di imprese agricole multifunzionali.
Nell’agosto 2025 cadrà il decimo anniversario della legge nazionale sull’agricoltura sociale (L. 141/2015) e il ventesimo della costituzione della Rete Fattorie Sociali. E si dovrà fare un bilancio di tali esperienze.
Tuttavia, non è solo questa l’eredità delle culture contadine. Il loro potenziale è esploso finora molto parzialmente nella cultura della tipicità e qualità dei prodotti agroalimentari, nelle pratiche multifunzionali dell’agricoltura e nell’”approccio al paesaggio”. Una visione riduzionista della “nuova ruralità”, legata principalmente al conflitto tra modelli produttivi e stili di vita, interpretati come contrapposti e non complementari, impedisce di cogliere l’effettiva carica trasformativa del fenomeno.
In realtà, girando nei quartieri di Roma, s’intravedono le prime avvisaglie di percorsi innovativi del tutto inediti, in cui sono protagonisti i “nuovi italiani”, cioè la seconda e terza generazione di migranti extraunionali.
Nei prossimi anni, bisognerà governare due processi: 1) l’invecchiamento sempre più accentuato della popolazione; 2) l’arrivo sempre più impetuoso di migranti economici e climatici dal Sud del mondo.
Tali processi, intrecciandosi con gli effetti del cambiamento del clima mediterraneo e con l’innovazione organizzativa indotta in ogni ambito dalle tecnologie digitali, potrebbero dar vita ad un fenomeno nuovo: l’innalzamento delle temperature nelle pianure delle città planetarie, come Roma, potrebbe indurre “migrazioni verticali” (stagionali e definitive) da queste aree verso le periferie d’alta quota (alta collina e montagna).
Strutturando tali percorsi, si aprirebbero alle aree interne opportunità per rinascere a “nuova vita”.
Negli scenari che stanno per aprirsi, l’eredità del mondo contadino, il suo lascito culturale e morale, potrà svolgere un ruolo decisivo.
Ma ci vorrebbero istituzioni adeguate al nuovo mondo che sta sorgendo. I municipi di Roma dovrebbero diventare comuni. E andrebbe creata un’entità istituzionale idonea per governare la città planetaria chiamata a gestire le migrazioni verticali.
All’orizzonte appare, insomma, un nomadismo all’incontrario, rispetto alle transumanze dei secoli passati. Un nomadismo da strutturare in reticoli di economie civili e di efficienti sistemi di welfare. È tempo di idee nuove, passioni da risvegliare, voglia di futuro.
In apertura, foto di Olio Officina
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