Lucio Columella e la perpetuazione della fertilità
I grandi agronomi della storia. Patrizio iberico dell'età dei Claudi, dopo avere assolto a prestigiose funzioni pubbliche in regioni diverse dell'Impero, si dedicò all'amministrazione delle proprietà rustiche possedute in Italia. Unendo alla gestione di vaste aziende la lettura di tutte le opere agronomiche greche e latine, maturò le conoscenze che raccolse, con singolare penetrazione scientifica e impareggiabile rigore espositivo, nei dodici libri De re rustica
Storiografia, chimica e climatologia
A metà dell’Ottocento, quando Justus Liebig spiega che la fertilità della terra consiste nella disponibilità, nel suolo, di specifici elementi chimici, e proclama che pratiche agrarie irrazionali possono esaurirne la dotazione rendendo sterili le campagne, un numero cospicuo di storici autorevoli si appropria dei concetti del grande agronomo e ne fà la chiave per spiegare le grandi fratture della storia umana: tra tutte, la più traumatica il crollo dell’impero di Roma, l’evento che dissolse l’apparato giuridico e militare che aveva riunito sotto un unico scettro tutti i paesi circostanti il grande bacino del Mediterraneo. Secondo la storiografia di ispirazione agronomica il collasso di Roma sarebbe stato determinato dall’esaurimento della fertilità della terra, ragione di insufficienza di raccolti, di tracollo della società.
Cento anni più tardi la riflessione storiografica avrebbe dedicato un’attenzione equivalente alle prove, di cui le indagini hanno moltiplicato la messe, dei mutamenti registrati, nel corso dei secoli, dal clima: tra le ipotesi per spiegare il tracollo di Roma, un evento non meno seducente per gli studiosi del ventesimo secolo che per quelli del secolo precedente, anche il deterioramento delle stagioni pretendeva un ruolo e un rilievo causale.
Componendosi variamente, secondo l’opinione dei singoli studiosi, ai fattori politici, economici e sociali, l’esaurimento della fertilità e il deterioramento delle stagioni avrebbero contribuito alla disgregazione dell’edificio politico suggellato da Cesare e da Augusto: un’ipotesi agrochimica ed un’ipotesi climatica addotte a spiegazione dell’evento, tra le vicende delle società del passato, che ha esercitato l’attrazione maggiore sulla riflessione storiografica e su quella filosofica. Pochi temi hanno indotto la composizione di una messe di volumi comparabile a quella redatta per spiegare la caduta del maggiore edificio politico della storia dell’Occidente.
Ma se agronomia e climatologia hanno esercitato un peso tanto rilevante sulla riflessione sulla fine di Roma, il cultore di storia della scienza che consideri la letteratura agraria latina non può che proclamare il proprio stupore constatando che entrambe le sfere di conoscenza sono lucidamente coinvolte nella riflessione che della crisi dell’agricoltura del proprio tempo realizza il maggiore degli agronomi latini, Lucio Giunio Moderato Columella. Patrizio iberico dell’età dei Claudi, dopo avere assolto a prestigiose funzioni pubbliche in regioni diverse dell’Impero Columella si dedicò all’amministrazione delle proprietà rustiche possedute in Italia. Unendo alla gestione di vaste aziende la lettura di tutte le opere agronomiche greche e latine, maturò le conoscenze che raccolse, con singolare penetrazione scientifica e impareggiabile rigore espositivo, nei dodici libri De re rustica.
Fare oggetto di analisi, lucida e penetrante, problemi di cui riconosceranno la rilevanza gli studiosi dei secoli successivi è prova eloquente del genio, che distingue chi lo possegga dai contemporanei per la capacità, specifica e inimitabile, di vedere quello che gli occhi comuni non distinguono, di attribuire, nel coacervo delle forze che si scontrano nella realtà coeva, rilievo e preminenza a quelle di cui quanti vivono la stessa realtà non percepiscono il ruolo, di cui solo gli storici futuri comprenderanno, riflettendo su una realtà ormai spenta, la portata. Alla preoccupazione, diffusa tra i possidenti del proprio tempo, per l’incapacità dell’agricoltura di realizzare le produzioni che la società le richiede, e al dubbio che quell’incapacità derivi dall’esaurirsi della fertilità o dal deterioramento delle stagioni, Lucio Columella risponde asserendo che la fertilità è dote intrinseca della terra, che pratiche agrarie irrazionali contraggono, ma che pratiche razionali conservano o esaltano. Proponendo la risposta più razionale alle inquietudini dei contemporanei fissa un caposaldo per la riflessione degli storici dei millenni successivi sui rapporti tra la fertilità e la persistenza delle società umane. Al di là del terreno della storia della civiltà, enunciando quell’assioma stabilisce il fondamento di ogni riflessione sui rapporti tra l’uomo e la terra, getta, cioè, le fondamenta della scienza agronomica. Seppure la sua opera sia stata preceduta, infatti, da decine di precursori greci, da decine di scrittori latini, è solo la sua opzione di fondare sul tema della fertilità lo studio delle pratiche per lo sfruttamento del suolo a dare vita, con autentica dignità di scienza, all’agronomia.
Se è arduo definire scienza, infatti, la raccolta di precetti per la conduzione di un’azienda olivicola o viticola di Catone, è altrettanto difficile identificara un’espressione di autentico pensiero scientifico nell’opera dello scrittore che le pratiche agrarie ha fatto oggetto di ampia trattazione tra Catone e Columella, Marco Terenzio Varrone, l’erudito che anche in tema di coltivazione e di allevamento raccoglie una messe di notizie sulle origini delle due pratiche che non può non suscitare l’apprezzamento di chi voglia verificare la consapevolezza degli antichi delle radici remote dello sfruttamento delle risorse naturali. Deve, peraltro, escludersi il carattere scientifico delle nozioni agronomiche che esprime, con i propri versi, Virgilio, come osserverà, nel Settecento, un acuto agronomo inglese, tanto grande come poeta quanto mediocre come scienziato.
Ma se si deve attribuire a Lucio Columella, per l’identificazione del suo tema centrale, e per la sua prima disamina razionale, la fondazione della scienza agronomica, chi di quella scienza consideri la parabola millenaria deve riconoscere che dopo il grande iberico essa non conoscerà nessun contributo ulteriore per oltre mille anni, fino al primo autentico discepolo del maestro latino, un arabo nato, come Columella, in terra iberica, Ibn al Awam, che integrerà le conoscenze fissate dal predecessore con una serie di postulati che ne costituiranno il complemento più coerente. E rilevare che dovranno trascorrere, poi, altri quattro secoli prima che cognizioni nuove accrescano l’edificio dei fondatori. Se tanti sono stati, nei secoli, i dotti che hanno dettato precetti e suggerimenti per i coltivatori della terra, a voler attribuire, come è coerente, il titolo di veri scienziati solo a coloro che si sono misurati con le leggi perenni che governano i rapporti tra l’uomo e la terra, le leggi della fertilità, si è costretti a riconoscere che quegli scienziati sono stati manipolo esiguo, fino alla dilatazione del sapere del diciannovesimo secolo non più di dieci, ad una scelta rigorosa forse sei, sette cultori di agronomia.
Il teorema della reintegrazione
La chiave della dottrina della fertilità dell’autore latino può identificarsi in un teorema di lucidità esemplare, che Columella enuncia nel primo dei dodici libri della sua opera. La ricchezza del suolo, dichiara riconoscendo l’apparente fondatezza dei timori di esaurimento della fertilità, è entità finita, che dalla prima aratura del suolo di una foresta abbattuta e convertita in arativo non può che contrarsi ad ogni raccolto: se nello stato originario le foglie che cadono e le piante decrepite che si decompongono restituiscono, infatti, al terreno gli elementi che la vegetazione gli sottrae, la coltivazione, con l’asportazione sistematica di quanto ogni ciclo vegetale produce, impoverisce, inevitabilmente, il suolo, contraendone le capacità produttive. Ma l’uomo, che pretende la costanza dei raccolti per alimentare la popolazione che da un’estensione determinata di terreno attende ogni anno il proprio pane, può renderne perenne la fecondità reintegrando col concime quanto i raccolti gli sottraggono.
Nell’età in cui Columella definisce il proprio teorema la speculazione umana è lontana anni luce dalla possibilità di definire in che cosa consista ciò che i raccolti sottraggono al suolo, e che la concimazione gli restituisce. Quando, nell’Ottocento, l’entità sottratta e restituita alla terra sarà identificata in precise quantità di fosforo, azoto e potassio, uno dei protagonisti della scoperta, Jean Baptiste Boussingault, osserverà, acutamente, che le catacombe romane non sono solo il reliquiario del Cristianesimo, ma che all’ossario cristiano corrisponde il campionario di molecole di fosfato di calcio provenienti da Egitto, Cirenaica, Sicilia e Romania: i paesi di origine del frumento che Roma importava per sopperire all’incapacità dell’Italia di sfamare una metropoli dilatatasi al di là di ogni relazione fisica con le regioni agricole circostanti. Ma Columella non può sapere che le ossa umane si formino con i fosfati del frumento. La concezione della materia che la cultura latina ha ereditato dalla scienza greca, la dottrina fisica di Aristotele, è tale da costituire, per la comprensione del fenomeno, piuttosto un ostacolo che un supporto.
Per Aristotele la materia non consiste che delle combinazioni di quattro sostanze essenziali, la terra, l’aria, il fuoco e l’acqua, una credenza che rende tanto più difficile capire che esistono, nel suolo, sostanze specifiche la cui entità può annullarsi senza che la quantità di terra paia, complessivamente, contrarsi. Nonostante i postulati fisici dello Stagirita Columella intuisce che la coltivazione sottrae al terreno elementi sconosciuti, che la concimazione può restituirgli: la definizione del teorema nonostante l’erroneità delle fondamenta fisiche, che l’agronomo latino non può, palesemente, contestare, costituisce la conferma più inequivocabile della genialità dello scienziato latino.
Al lettore attento dell’opera latina quella genialità appare tanto più luminosa verificando che neppure un paragrafo l’autore dedica al maggese, la pratica mediante la quale in tutte le società antiche si è provveduto al ripristino della fertilità assicurando alla terra, dopo ogni raccolto, un adeguato periodo di riposo, una procedura che consente la reintegrazione della feracità del suolo al prezzo della rinuncia al raccolto di una o di più annate, e dell’effettuazione di una serie di arature cui non corrisponderà alcuna produzione, il cui costo sarà ricompensato solo dal raccolto che seguirà il riposo. Proprio perchè costituenti un gravame che la terra non ripaga che successivamente, il maggese è pratica primitiva, emblema di uno sfruttamento semiestensivo del suolo: nonostante questa peculiarità essa costituisce il cardine dell’agricoltura italica del tempo di Columella, la procedura essenziale per la produzione dei cereali che alimentano la popolazione dell’Impero, al tempo dei Claudi sessanta milioni di persone.
Nonostante rappresenti il fondamento dell’agricoltura del suo tempo Columella non dedica al maggese un paragrafo solo del proprio trattato: è pratica primitiva, come tale la ignora. Un’agricoltura evoluta, l’agricoltura di cui Lucio Columella è il primo teorico, non concede alla terra alcun riposo, le chiede la massima produzione possibile e quella produzione pretende ogni anno, provvedendo a conservare con la concimazione la produttività che è condizione del soddisfacimento di quella pretesa.
Debolezza agraria, insicurezza sociale
Se i timori dei possidenti romani sull’esaurimento della fertilità e sul deterioramento del clima sono infondati, la sensazione di insicurezza radicata nella coscienza collettiva dell’Impero, il convincimento dell’inadeguatezza del contesto agrario ai bisogni alimentari, debbono reputarsi banale infatuazione? Nei paragrafi del primo libro che seguono l’enunciazione della dottrina della fertilità Columella propone all’interrogativo la propria risposta, che è, ancora, la risposta di un osservatore di genio, capace di guardare la realtà contemporanea col distacco che non è prerogativa comune di chi considera l’epoca in cui vive. E, osservatore di genio, individua la ragione dell’inefficienza dell’agricoltura imperiale nella frattura che si è aperta tra chi della terra è proprietario, un signore che vive lontano dai campi, a Roma o nel capoluogo di qualche grande provincia, e chi la terra coltiva, squadre di schiavi che la terra lavorano per costrizione, comandati da soprastanti le cui angherie non fanno che accentuarne l’avversione al lavoro, rendendolo più odioso e meno produttivo. Quei soprastanti, schiavi o liberti, sono, per di più, ignari delle norme di una coltivazione razionale, che lo stesso proprietario non si preoccupa che possiedano, non hanno alcun interesse a ricavare dalla terra quanto potrebbe produrre, costituendo la loro unica preoccupazione la sottrazione alla produzione complessiva di quel tanto di cui possano appropriarsi a vantaggio del peculio personale.
L’azienda schiavile è il frutto delle vittorie romane su tutti i nemici italici, europei, asiatici, quelle vittorie che hanno riportato i contadini-soldati romani ed i loro federati latini, oschi, piceni, etruschi, costretti da Roma a pagare la benevolenza senatoria con lunghi anni di ferma. Le guerre interminabili hanno sradicato il contadino-soldato dal proprio campo: quando non ha dovuto, per assicurare alla famiglia il necessario a vivere, venderlo o ipotecarlo, al ritorno si è scoperto un uomo diverso, assai più incline all’ozio in città che al lavoro dei compi. E gli schiavi che hanno costituito il frutto della vittoria, spesso la sua parte di bottino, che ha venduto agli stessi patrizi cui aveva già ceduto il proprio campo, si sono rivelati la fonte di una concorrenza che non gli consentirebbe più di ricavare dal lavoro dei campi una remunerazione qualunque: grano, olio e vino prodotti con manodopera schiavile possono essere immessi sul mercato, dai grandi proprietari, a prezzi tali da rovinare qualunque proprietario contadino.
La forza che aveva fatto grande Roma era stata dissolta dalle vittorie che essa stessa aveva consentito. Nelle pagine in cui analizza la fragilità dell’ordito agrario imperiale Columella non si abbandona al rimpianto dell’azienda del contadino-soldato: è un passato che il grande agronomo capisce essersi dissolto per sempre. In quelle pagine vibra, invece, lucidissima, la percezione dell’impossibilità che il sistema agrario contemporaneo possa costituire il supporto di una società solida e duratura, nella denuncia di Columella traspare il timore di un collasso irreparabile. Come tutti i grandi agronomi osservatore penetrante dei rapporti tra l’uomo e le risorse naturali, lo studioso iberico ha capito che le relazioni della società imperiale con la terra sono relazioni precarie, che quella precarietà mina alle fondamenta la grande costruzione politica, che quindi non è, nonostante l’imponenza, costruzione sicura: verificando la fragilità delle sue fondamenta ha capito che l’Impero, al tempo dei Claudi organismo poderoso, può sgretolarsi, ha intuito il futuro crollo.
Riconosciuti all’autore latino i titoli di fondatore dell’autentica scienza della coltivazione, dell’attribuzione sarebbe significativo ricercare la conferma nella successione degli argomenti affrontati nei libri del capolavoro latino. Della legittimità di quei titoli la lunga lettura offrirebbe una serie continua di prove. Tra le più luminose si può menzionare la pagina in cui Columella esamina la convenienza ad investire capitali in un’impresa viticola componendo un organico computo economico dell’immobilizzo e dei futuri proventi, la magistrale precettistica sulla scelta e la propagazione dei vitigni con cui impiantare il nuovo vigneto, il capitolo in cui illustra la possibilità di migliorare le produzioni delle razze allevate mediante l’incrocio degli animali locali con animali esotici e la successiva selezione della nuova stirpe. La disamina sarebbe lunga e impegnativa: vale, a sostituirla, l’invito ad aprire il testo dello scienziato iberico, un invito che ogni cultore dei rapporti tra l’uomo e le risorse naturali, ogni lettore attento delle vicende dell’agricoltura non può evadere. I grandi agronomi, i maestri del sapere agrario le cui opere valgano la lettura diretta sono stati, ho rilevato, meno di dieci. Lucio Giunio Columella è senza dubbio il primo del manipolo, quello la cui opera costituisce il termine di paragone necessario per la comprensione di quelle di tutti i successori.
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