Ludovico Muratori: la politica agraria nel divenire delle società umane
I grandi agronomi della storia. Avvalendosi della collaborazione di tutti gli amanti di antichità nazionali, promosse la realizzazione di tre raccolte monumentali: le Antiquitates italicae Medii Aevi, i Rerum italicarum scriptores, gli Annali d'Italia. Pone le fondamenta del pensiero rurale cristiano stigmatizzando l'ignoranza dei contadini, conseguenza della miseria di un ceto reietto e disprezzato, sulle cui spalle la società getta l'onere del proprio mantenimento con l'illogica pretesa di vedere fiorire le campagne affidandole a uomini che considera poco più che bruti
L’abate che fondò gli studi storici
Come la storia della medicina, della fisica e della chimica, quella delle conoscenze agrarie annovera pochi scienziati sommi, i caposcuola che hanno orientato per lunghe serie di decenni lo studio dei rapporti tra l’uomo, le piante coltivate e gli animali allevati, ricorda alcuni comprimari, la schiera dei gregari, autori di opere che hanno ricalcato le orme dei grandi, che ne hanno applicato i principi alla coltura e all’allevamento in regioni specifiche, in condizioni peculiari di clima e di popolamento. Essa ricorda altresì quegli studiosi di discipline diverse che, affacciatisi occasionalmente in una sfera di indagine che non era loro abituale, in quella sfera hanno operato, grazie alla propria genialità, qualche scoperta degna dei grandi capiscuola, hanno vergato una pagina meritevole di essere iscritta nel libro d’oro della disciplina cui si sono dedicati pure in forma estemporanea. Nella storia delle discipline agrarie tra i “forestieri” autori di scritti di singolare rilievo un posto preminente spetta a Ludovico Antonio Muratori.
Muratori è il padre della storiografia italiana, il promotore, nella prima metà del Settecento, della ricerca delle cronache, dei testi legislativi e diplomatici che giacevano negli archivi dei comuni e dei monasteri, della loro pubblicazione, quindi del loro studio. Avvalendosi della collaborazione di tutti gli amanti di antichità nazionali promosse la realizzazione di tre raccolte monumentali: le Antiquitates italicae Medii Aevi, i Rerum italicarum scriptores, gli Annali d’Italia. Autentico storico oltre che maestro di metodologia archivistica, nei monumenti di cui dirige la compilazione inserisce le penetranti dissertazioni con le quali insegna come usare le fonti di cui dispiega la conoscenza per la comprensione critica delle vicende del passato.
Pochi uomini, nella storia della cultura, hanno suggellato opere di mole eguale: quella mole lascia incredulo lo studioso che consideri che Muratori realizzò gran parte del proprio lavoro assolvendo, con cura esemplare, ai doveri di parroco, e che dedicò tempo e passione ad un grande proposito: il rinnovamento del pensiero cattolico. Il Settecento segna il trionfo del razionalismo, che celebrando i propri fasti, nella seconda metà del secolo, non nasconderà l’intento di relegare la religione cristiana, in primo luogo la dottrina cattolica, tra le curiosità del passato. Presentendo, con l’acume del conoscitore dell’evoluzione storica, la piena della marea antireligiosa che incalza, convinto che le forme del cattolicesimo tridentino non siano in grado di opporre una diga sufficientemente resistente al sensismo materialista, Muratori si impegna, con una serie di lucide opere monografiche, a rinnovare la concezione cattolica dell’educazione, quella della politica, lo spirito delle pratiche di pietà. E’ nel trattato che scrive per assicurare fondamenta nuove alla concezione cattolica dello stato che inserisce due capitoli di straordinario interesse sul governo dell’agricoltura.
Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni principi è l’ultima opera del grande storiografo, che la verga, nell’estate del 1749, durante la villeggiatura nella villa sassolese del duca di Modena, di cui Muratori è bibliotecario. Chi scorra il manoscritto, religiosamente conservato dalla Biblioteca estense, stupisce di fronte alla nitida calligrafia del vecchio abate, che senza un ripensamento, senza una correzione, ricolma, uno dopo l’altro, i fogli di carta immacolata. Verificando come è nato, non stupisce che il trattato non pretenda di eccellere anche per eleganza di lingua, mirando, piuttosto, a coerenza dottrinale e a chiarezza logica.
Sono, invece, ragione di autentico stupore la lucidità e la lungimiranza delle idee che il testo propone in tema di politica agraria. Quello stupore è stupore duplice. Meraviglia, innanzitutto che a illustrare concetti economici e tecnici tanto penetranti sia l’uomo che ha passato la vita, tra le vecchie pergamene, negli archivi abbaziali e comunali di tutta Italia. Lo stupore si converte in autentica meraviglia, poi, ove si tenti di attribuire la lucidità di quei concetti alle letture del grande bibliotecario, critico attento di tutta la pubblicistica europea, una supposizione il cui riscontro impone di riconoscere che alla data della composizione della Pubblica felicità le biblioteche più aggiornate, in tutta Europa, non potevano offrire i testi da cui desumere le idee chiave dei due capitoli agricoli del trattato. Le idee esposte dal vecchio bibliotecario sono, dunque, idee originali.
Educare i contadini
I capitoli di interesse agrario del trattato affrontano, rispettivamente, i temi di politica fondiaria e di tecnica produttiva e quelli del governo delle scorte pubbliche di cereali, tema di acceso dibattito tra gli studiosi dei decenni successivi, tanto che si può asserire che è sul tema del commercio e del grano e della distribuzione del pane che la scienza economica europea vive la prima stagione di confronto e di polemica. Può aggiungersi ai due capitoli di specifico significato agrario quello che Muratori dedica alla caccia signorile, nella quale addita la vergogna della società del suo tempo, che invita i governanti ad elidere per spegnere il giusto furore popolare. L’enormità, e la gratuità, dei danni che le cavalcate dei nobili cacciatori arrecano al frutto del lavoro contadino non potrà, capisce Muratori, non esplodere, un giorno, incontrollabile. Secondo Gaetano Salvemini, autore di una breve, esemplare storia della Rivoluzione francese, la caccia signorile sarà uno dei elementi accumulati dall’ottusità patrizia nella polveriera che esploderà dissolvendo l’antica società feudale.
Sarebbe interessante esaminare, nel primo dei capitoli di argomento specificamente agrario, i temi dal più precipuo carattere tecnico, trattando i quali Muratori non cessa di meravigliarci per la pertinenza con cui affronta materie che reputeremmo del tutto estranee alle sue conoscenze. Suggerisce, ad esempio, di esaminare quale possa essere il migliore impiego di tutti i materiali di rifiuto e dei cascami industriali che potrebbero essere usati come fertilizzanti, si interessa del miglioramento delle procedure per la manipolazione della canapa, si chiede se il Ducato potrebbe ridurre l’ingente esborso per l’importazione di olio d’oliva affidando ad agronomi esperti della coltura la verifica delle possibilità di insediarla sui colli più aprici del Pedeappennino, il suggerimento da cui possiamo immaginare abbiano avuto origine i cinque, sei filari di olivi che vegetano ancora su alcuni dei colli prospicienti il borgo di Vignola, la patria, ricordiamo, del grande storiografo, eredità secolare che il gelo padano qualche inverno minaccia senza riuscire a cancellare dai colli del Panaro il segno precipuo dell’Italia peninsulare.
Assai più, peraltro, che sui temi tecnici, dove propone osservazioni pertinenti seppure non rivoluzionarie, il trattato di politica agraria di Ludovico Antonio Muratori rivela l’impronta del conoscitore impareggiabile delle vicende delle società umane quando affronta i temi connessi alla struttura della proprietà fondiaria e all’elevazione tecnica dei ceti rurali. Su quegli argomenti il bibliotecario estense scrive pagine che gli assicurano il titolo di fondatore di quel pensiero rurale cattolico che conoscerà la propria consacrazione nelle enciclice sociali del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, la filosofia economica che vuole le campagne ripartite nelle aziende di coltivatori che curino, come proprietari o come affittuari in possesso di contratti di durata non aleatoria, tanta terra da consentire l’adozione di tecniche e attrezzi razionali, e da assicurare la vita dignitosa della famiglia, che non superi, tuttavia, l’estensione che imporrebbe loro di affidare la coltura a dipendenti, divenendo controparti di lavoratori avventizi.
Con la schiettezza del buon curato, Muratori pone le fondamenta del pensiero rurale cristiano stigmatizzando l’ignoranza dei contadini, conseguenza della miseria di un ceto reietto e disprezzato, sulle cui spalle la società getta l’onere del proprio mantenimento con l’illogica pretesa di vedere fiorire le campagne affidandole a uomini che considera poco più che bruti. La società migliori le condizioni dei contadini, proclama Muratori, li renda partecipi, con contratti lungimiranti, del buon esito del loro lavoro, li istruisca sulle tecniche di coltura dei campi: vedrà le campagne fiorire, vedrà le derrate agricole affluire copiose sui mercati urbani.
Abolire la manomorta
Per poter offrire alla società i frutti copiosi della terra, il ceto che la lavora deve coltivare, cioè, poderi di ampiezza adeguata, deve disporne con stabilità, è necessario, quindi, che quei poderi siano inseriti in un ordito rurale razionalmente scandito dai canali di scolo e da quelli di irrigazione. E’, nel quadro dei propri insegnamenti di politica agraria, sull’assetto della maglia fondiaria che lo studioso degli ordinamenti comunali scrive le pagine più efficaci, ricordando i provvedimenti delle antiche assemblee cittadine per l’accorpamento delle particelle inferiori alle esigenze della coltura, che invita a riesumare ed a rinnovare, e quelli per estendere l’irrigazione in tutti i comprensori per i quali sussistano disponibilità d’acqua, imponendo le diramazioni irrigue anche alla minoranza dei proprietari renitenti, una scelta contraria al diritto romano, che consacrava l’assoluta inviolabilità della proprietà, saggiamente assunta da assemblee cittadine consapevoli dei vataggi collettivi della diffusione dell’irrigazione, che pochi proprietari inerti non possono avere il diritto di dissolvere.
Ma la pagina più straordinaria del trattato di politica agraria dello storiografo modenese è quella che stigmatizza l’abbandono in cui versano i latifondi della manomorta, le grandi proprietà, cioè, sottoposte a fidecommessi civili o pertinenti vescovati e abbazie, un abbandono di cui Muratori denuncia i danni economici e politici, proponendo la concessione ai coltivatori, nelle forme del “livello”, di tutte le grandi proprietà religiose. Ho detto che La pubblica felicità non eccelle per altezza di stile: nella denuncia della desolazione dei latifondi ecclesiastici lo sdegno di Muratori alimenta un’eloquenza espressiva che lo avvicina all’altro grande religioso che negli anni successivi stigmatizzerà, in versi, i vizi di una società oziosa e inetta, l’abate Parini.
Di fronte a quella desolazione, che possiamo immaginare Muratori abbia verificato, cento volte, nei lenti percorsi in carrozza per raggiungere monasteri e comuni di cui scandagliare gli archivi, l’occhio dell’uomo abituato a scrutare le ragioni secolari dell’operare umano non ha conosciuto il dubbio, ha percepito che la storia avrebbe condannato, ha sentito l’urgenza di spingere la Chiesa ad abbandonare una prassi economica che l’a poneva in insanabile contrasto con le esigenze della società civile. E a conclusione della propria analisi si rivolge, con sommo rispetto, al pontefice, a Roma regna allora un grande papa, Benedetto XIV Lambertini, per suggerire di rinnovare radicalmente i criteri di conduzione di quelle proprietà, gestite da intermediari avidi, che angariano i cantadini e rimettono agli ordini religiosi e ai vescovi rendite prive di ogni proporzione con le potenzialità produttive della terra. La sua proposta: smembrare i latifondi, dividerli in poderi familiari, cedere quei poderi, a “livello”, ai contadini che li coltivano.
Quasi presentisse che, dopo cinque decenni, all’esplodere della Rivoluzione francese, una classe politica nemica della Chiesa sancirà la generale espropriazione dei latifondi ecclesiastici, in più di una nazione equivalenti a un terzo della superficie agricola, trovando gli alleati migliori nei contadini sfruttati da secoli con brutalità, Muratori propone al pontefice una misura che avrebbe creato, in tutti i paesi cattolici, un ceto rurale legato alla Chiesa dalla concessione della terra ad un canone modico e riscattabile, una scelta che avrebbe fatto dei contadini i grandi paladini della proprietà ecclesiastica contro i furori giacobini di Talleyrand, di Robespierre e dei loro emuli piemontesi, veneti, toscani.
Nonostante la levatura, Benedetto XIV non comprese, dobbiamo presumere, la portata della proposta dell’abate modenese, di cui a Roma molti teologi paventavano l’ardimento intellettuale come seme di eresia. La avesse compresa, e attuata, la storia sociale europea avrebbe, forse, conosciuto un corso diverso. Ma è prerogativa degli uomini grandi penetrare quanto gli altri non possono percepire, soffrire l’incomprensione per essere ammirati dai posteri, che capiscono e si inchinano. Uomo di chiesa, all’ammirazione dei posteri Ludovico Antonio Muratori avrebbe preferito, senza dubbio, la comprensione dalla Curia papale, che aveva il potere, quarant’anni prima dell’esplodere della tempesta giacobina, di elidere il più grave dei capi di accusa che gli avvocati della Rivoluzione imputeranno alla Chiesa di Roma.
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