Saperi

Nello scantinato dei “pacifisti”: disonestà intellettuale, ignoranza, falsità

Una delle componenti più chiassose della collettività pacifista risiede in coloro che motivano il loro essere innalzando lo stendardo del Credo cristiano. Eppure, quest’ultimo, è un vocabolo che del suo significato originale, e di tutti quelli attribuibili, ha smarrito le radici, perdendosi nelle trame di una società mossa, soprattutto, dalla furbizia e dall’inganno

Antonio Saltini

Nello scantinato dei “pacifisti”: disonestà intellettuale, ignoranza, falsità

Dopo esserci presentati a Bruxelles, per quasi tre decenni, con un capo di stato e ministri degli esteri assolutamente impresentabili (sottolineo il conflitto lessicale: presentarci seppure impresentabili), siccome il primo, sodale del leader mondiale Vladimir, era universalmente noto, come il compare russo, per la gestione del Paese allo scopo precipuo di favorire le proprie attività economiche e quelle di amici e clienti, ed i responsabili della Farnesina non erano che tirapiedi del primo, ci ritroviamo con un premier ascoltato, nel consesso dell’Unione Europea, quale membro di comprovate lucidità e lungimiranze, onorato dalla stima di tutti gli statisti dell’Occidente, primo tra tutti Joe Biden.

La constatazione equivale al riconoscimento di un autentico prodigio storico: l’ultimo statista italico degno della qualifica deve essere riconosciuto, verosimilmente, in Amintore Fanfani (siamo negli anni Sessanta).

Doti inequivocabili di statista possedeva, è indubitabile, Giulio Andreotti, del quale il processo di Palermo, concluso dall’assoluzione per le straordinarie capacità di prestidigitazione del collegio di difesa, dimostrò gli infiniti legami con la “cupola” palermitana, la base dei sistematici trionfi ai congressi D.C., assicurati dai voti dei “democristiani” insulari, che i sodali estraevano dalla coppola (in Sicilia il cilindro è suppellettile sconosciuta) fossero vivi o fossero deceduti, non importava da quanti lustri.

Vantiamo, dopo decenni di vergogna, un’autentica autorità internazionale alla guida del Paese: l’esito più straordinario della circostanza non può non essere identificato nella inattesa crescita di statura di parlamentari di cui non pochi italiani reputavano l’unico futuro decoroso consistesse nell’essere gettati nel water, con l’incarico a un commesso della Camera di azionare lo sciacquone.

Per conquistare il seggio parlamentare non dovevano, palesemente, mancare di furbizia, che, nel clima politico italiota, impiegavano al fine prioritario di “profittare” dei vantaggi economici del ruolo.

Che la preminenza di un inatteso, autentico statista pare avere indotto a impiegare la furbizia in termini significativamente diversi da quelli abituali, non più soltanto a beneficio proprio ma (anche?) a vantaggio del Paese, circostanza che appare prodigiosa, soprattutto nel paese in cui milioni di devoti (inconsapevoli, ma inequivocabili) di Machiavelli gli slanci di virtù hanno sempre, scrupolosamente, rifuggito.

Nonostante, peraltro, che il Paese stia mostrando, nel proprio insieme, un volto assolutamente inatteso, non si può mancare di riconoscere che non è certamente esigua la plebe italica che al nuovo stile si oppone con la più fiera determinazione costituisce la legione d’onore di quella plebe la falange multicolore dei “pacifisti”, di quanti pretenderebbero, cioè che la campagna russa in Ucraina si concludesse con un cordiale negoziato, aspirazione apparentemente nobilissima, che ignora, o finge di ignorare, che, date le pretese dell’autocrate neosovietico (o, a scelta, neostalinista) qualunque trattativa dovrebbe negoziare un’amputazione dell’Ucraina, che sarebbe obbligata a cedere, definitivamente, una serie di regioni alla Russia.

Pretendere che, per concludere l’invasione più bestiale con un pacioso vuimmucebbene a pagare i costi dovrebbe essere un piccolo paese che ha combattuto, con indiscutibile eroismo, per la salvaguardia dei propri confini storici e per la propria indipendenza, sacrificando migliaia di uomini e donne, assistendo alla fuga di milioni di cittadini, semidistrutto da migliaia di missili consapevolmente diretti a aree residenziale, scuole e ospedali, dimostra non solo la confusione mentale dei paladini della “pace negoziale”, ma, apparendo inverosimile che costoro siano del tutto ignari di chi dovrebbe pagare il prezzo delle proprie chimere, prova, inequivocabilmente, l’invereconda disonestà intellettuale e l’indecente propensione alla menzogna della plebe ireneica, più precisamente, per identificare le opzioni umane col proprio nome, l’abiezione etica di costoro.

Quell’abiezione contro la cui denuncia reagiscono, nella patria del Segretario fiorentino, con maggiore sdegno proprio quanti sono, intimamente, orgogliosi della personale estraneità a ciò che viene, comunemente, definito scrupolo morale.

Tratteggiati, sinteticamente, i caratteri comune della collettività “pacifista”, la precisione antropologica impone di dedicare qualche annotazione specifica ad una delle sue componenti più chiassose, quella di coloro che il proprio pacifismo motivano innalzando lo stendardo del Credo cristiano.

Credo: un vocabolo sempre più inequivocabilmente svuotato di qualunque significato. Teologicamente, e storicamente, il termine costituiva equivalente univoco del Simbolo di Nicea, l’elenco degli articoli della cui verità chi si professasse cristiano era tenuto a dichiararsi intimamente, e univocamente, convinto.

Votato, nel 325, da un concilio ecumenico per la cui partecipazione “universale” Costantino, quantunque campione di cinismo, familiare e politico, favorì, a spese dell’erario, la partecipazione di patriarchi, vescovi e abati delle regioni più remote dell’Orbe, a quel concilio partecipò una schiera di presuli tra i quali più di uno, autentico padre del proprio popolo in un’età di tragica crisi dell’ordine che aveva governato per secoli la vita civile, l’ordine di Roma, sarebbe stato santificato secondo l’unica procedura che, nei secoli, non ha mai onorato millantatori, la devozione popolare.

Il Simbolo non sarebbe stato più mutato dalla Chiesa, accomunando ancora, dopo quasi due millenni, professione romana e professione greco-russa.

A modificarne una sola proposizione occorrerebbe un concilio di eguale autorevolezza di quello che lo votò, circostanza del tutto improbabile, mentre risulta assai più agevole ignorarne gli articoli che possano scontrarsi col capriccio individuale, l’opzione ormai radicata nelle schiere di (mis)credenti impegnati, appassionatamente, nella congegnazione di nuove, fantasiose, fedi cristiane, un cimento cui si dedicano, con passione irresistibile, centinaia di preti e migliaia di fedeli (?).

Nel teatrino dei convincimenti umani è, peraltro, assolutamente evidente la pressoché sistematica combinazione del rigetto di uno o dell’altro (secondo le chimere personali e le mode collettive) articolo del Simbolo con convincimenti che hanno conquistato, nei decenni recenti, schiere di proseliti: il disprezzo per la scienza sperimentale e il disdegno per qualunque rigore metodologico nella narrazione della storia, dei cui eventi chiunque si reputa libero, in un salotto chic o al caffè “dello sport” di proporre la propria versione, originalissima, nell’assoluta ignoranza di ogni e qualsiasi fonte, sostituita dalla cieca fiducia nel proprio estro, o nel potere divinatorio della bottiglia cui l’esegeta improvvisato attinga per moltiplicare l’attendibilità delle proprie elucubrazioni.

Ammiro incondizionatamente, dichiaro, la fede cristiana che percepisco, vivissima, frequentando la messa che celebra, il sabato sera, in una delle più splendide cattedrali dell’antica Cristianità, un vecchio sacerdote, che commenta un episodio del Vangelo, o una delle straordinarie missioni di Paolo, immancabilmente incantando, per il fulgore delle verità che dischiude, quanti lo ascoltano.

E percepisco, tra coloro che mi attorniano, signore attempate, giovani coppie col bambino, l’uomo anziano che soffre, palesemente, di un’infermità cronica, la fede autentica, semplice, antica e nuova, la fede che ascolta la Parola e la accoglie, quella Parola nella quale, al termine dell’omelia, confermeremo la fiducia comune recitando, calorosamente, il Credo.

Quale abisso dalla messa celebrata (?) dall’alfiere della vanità, che il Simbolo non pronuncia, e si compiace che chi frequenta, abitualmente, il rito, giungerà a non ricordarne una sola enunciazione.

Ho rilevato che i nuovi eretici uniscono, sistematicamente, alle pretese teologiche, il disprezzo per il rigore storicistico e il sostanziale disinteresse per la scienza sperimentale.

A sottolineare la sempre più diffusa propensione a “reinventare” la storia menzione la conversazione recente con, appunto, una professoressa della materia, che proclamava il sopruso perpetrato dagli Stati Uniti “soggiogando” l’Italia, ignorando che ci avevano liberato, loro e non altri, dal Nazismo e dal connesso Fascismo (che quindi non era del tutto illegittimo che ci suggerissero, caldamente, di sorseggiare Coca Cola), un misfatto cui la professoressa sommava, con sdegno, l’illegittima dilatazione della Nato nell’Europa centro-orientale, ignorando che tutti i paesi dell’Europa centrale si rifugiarono sotto l’ombrello Nato appena liberatisi dal giogo sovietico.

Verosimilmente la professoressa non aveva alcuna cognizione di come i carri armati di Stalin avessero represso le rivolte dei sudditi ungheresi e cecoslovacchi, e imposto alla Polonia, e a metà della Germania, un giogo tanto crudo che le vicende recenti dimostrano quanto polacchi e tedeschi ricordino con devozione chi della propria terra è stato assoluto padrone per l’intera metà del Ventesimo secolo.

Data la consistenza, peraltro, della frotta dei cattolici in prima fila nella legione dei fautori della pace pretesa dallo kzar Vladimir (secondo il mistificatorio lessico filosovietico la “pace negoziata”) nessun osservatore rigoroso può mancare di registrare l’assoluta indifferenza dell’attuale pontefice per i cento “credi” proposti, quotidianamente, dallo stuolo di professionisti e dilettanti dell’imbonimento religioso, una peculiarità che induce a suggerire nell’attuale arcivescovo di Roma una delle figure più equivoche dell’intera storia della Chiesa.

Leone X, papa grazie all’arte diplomatica del padre, Lorenzo dei Medici, che la propria “missione” affrontò enucleandone l’essenza nello storico proclama “Godiamoci il papato, che il buon Dio ci ha dato”, si sarebbe, notoriamente, impegnato ad assolvere al proposito, assistito dai due nipoti elevati al rango cardinalizio, con i quali avrebbe escogitato i passatempi più amabili.

Tra quelli preferiti, ricolmare una delle sontuose sale vaticane di cortesane discinte, per le quali un diligente maggiordomo avrebbe portato un grande canestro di scudi d’oro, che le medesime potevano inserire, a piacere, nel proprio dotto vaginale, per attraversare il salone nello sforzo di non lasciarne fuoriuscire una sola moneta, nella certezza che, raggiunta la soglia, quanto fossero riuscite a trattenere sarebbe stato di loro, incontestabile, proprietà.

Ma godendosi il papato, sua santità Medici non sottoscrisse, secondo l’unanimità dei teologi, una sola riga che incrinasse lo “statuto” della Chiesa, il Simbolo di Nicea.

Al termine della baldoria i suoi conti con il proprio Datore di lavoro non saranno stati, verosimilmente, conti facili: gli amusements tra i quali si era immerso avevano acceso la furia antiromana di Lutero, circostanza non agevole da giustificare, ma se aveva infiammato la furia eretica, a quella furia non aveva fornito un solo pretesto di giustificazione teologica. Al contrario dell’ultimo successore, che degli articoli di Nicea appare del tutto disinteressato, se non, addirittura, ignaro.

Chi cerchi, si deve, attualmente, rilevare, di orientarsi tra i meandri della cultura cattolica, nella paella delle cento abiure, umorali, soggettive, tribali, degli articoli di Nicea, non può non rilevare l’immancabile combinazione tra l’esasperato rigetto degli articoli del Credo e il disprezzo della scienza.

Ricordo che il maggiore teologo del Seicento, e grande matematico, san Roberto Bellarmino, fissò, autentico caposaldo della teologia cattolica di fronte alle prime conquiste della scienza sperimentale, l’enunciazione che, se l’indagine naturalistica avesse dimostrato che l’intero Universo fosse regolato da leggi aritmetiche, l’autore di quelle leggi doveva essere identificato, inequivocabilmente, nel Creatore dell’Universo.

Un rilievo cui si connette, univocamente, quello sull’assoluto arbitrio con cui è convincimento ormai comune si possa manipolare la storia. Menziono, a proposito, l’asserzione del più celebrato divulgatore della storia del Cristianesimo degli ultimi decenni del Millennio scorso, che proclamò che nell’America meridionale, nonostante tutte le incongruenze fermamente cattolica, non sarebbe mai stato perpetrato un genocidio comparabile a quello che avrebbe annientato i nativi nella protestante America settentrionale, un convincimento che dimostrava l’assoluta ignoranza, dell’apprezzato autore, dello sterminio progettato e realizzato, in Argentina, di tutte le tribù di “selvaggi” delle regioni meridionali del paese, la Patagonia, eliminate con la medesima procedura praticata dai cavalleggeri statunitensi, I fucili dei caballeros ispanici erano, verosimilmente, meno funzionali dei Winchester impiegati tra Iowa e Dakota, ma, contro selvaggi che si difendevano con arco e frecce, gli effetti erano, comunque, adeguati alle disposizioni.

Se la corte papale costituiva, al tempo del pontificato Leone, realtà ripugnante, non si può mancare di rilevare che, al termine del soggiorno romano per esaminare quella vergogna, Lutero medesimo sarebbe stato costretto a riconoscere, nella palude vaticana, più di un esempio di chierici, secolari o regolari, dalle indiscutibili, ammirabili doti cristiane, un riconoscimento che appare alquanto più problematico nella Roma del successore attuale, tanto da essere costretti a riconoscere che, se nella Roma di Leone era legittimo riconoscere una palude, nella “cattocultura” che prorompe, prepotente, negli anni che viviamo, si è costretti a identificare, nel termine palude, appropriato alla Roma leoniana, un vocabolo inadeguato a qualificare le sfere più “impegnate” degli avanguardisti cattolici nell’età dell’attuale pontefice, una constatazione che impone la ricerca di un sostantivo più eloquente, che, nonostante ogni fatica lessicale, mi dichiaro incapace di sostituire a quello che mi dettano la ragione ed il cuore, il termine, mi scuso per la brutalità, di merdaio.

In apertura, un’opera di Venturino Venturi (1918-2002), “Maschere”, esposta al “Museo della Follia”, Lucca, 2019, mostra a cura di Vittorio Sgarbi. Foto di Olio Officina ©

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