Olivier de Serres e l’agronomia della Riforma
I grandi agronomi della storia. Come molti patrizi provenzali ha aderito al messaggio di Calvino, facendo la ragione ispiratrice della vita. Offre il frutto dell'esperienza acquisita nel Theatre d'agriculture et ménage des champs, trattato che dedica a Enrico IV. Al sovrano che ha restaurato la concordia della nazione dedica la propria opera e offre i propri servizi per ritessere l'ordito dell'agricoltura infranto dalla guerra, il quale accetterà

I talenti divini
Aperta da un umanista spagnolo all’alba del Cinquecento, la Rinascenza agronomica, il moto di rinascita della cultura agraria cui partecipano dotti italiani e tedeschi, si conclude, all’alba del Seicento, con il trattato di uno scrittore francese, il quale consegna alla biblioteca della scienza della coltivazione un capolavoro che pretende un posto a fianco di quelli di Columella e di Ibn al Awam. La sua stampa segna il crepuscolo della prima stagione dell’agronomia moderna: per tutto il Seicento nessuno dei paesi che hanno partecipato alla grande fioritura registrerà la pubblicazione di un’opera paragonabile ai trattati rinascimentali. Sarà in Inghilterra, un paese che si compiace di percorrere le tappe della storia in dissonanza con le nazioni del Continente, che a metà del secolo sarà pubblicato il testo che segna l’inizio dell’epopea dell’agronomia britannica, un’epopea che imporrà il primato agrario dell’Isola per quasi due secoli.
Olivier de Serres è nobile provenzale, proprietario del domaine, la scacchiera di campi e boschi che si dispiega attorno ad un castello, di Pradel, a pochi chilometri dal greto del Rodano. Come molti patrizi provenzali ha aderito al messaggio di Calvino, che scendendo la valle del Rodano da Ginevra si è vigorosamente radicato nel Midi francese. Dei principi di Calvino ha fatto la ragione ispiratrice della vita: il riformatore elvetico ha proclamato il dovere di ricavare gli interessi più elevati, secondo la parabola evangelica dei talenti, dai doni dell’Onnipotente, il signore di Pradel si impegna a trarre dalla propria terra la quantità maggiore di derrate che essa possa fornire ai bisogni degli uomini, un impegno particolarmente arduo nel corso delle lotte religiose che insanguinano la Francia, percorsa da bande che fanno dei dissidi teologici il pretesto per saccheggiare e taglieggiare. Offre il frutto dell’esperienza acquisita, sottoposto al vaglio di una critica di lucidità esemplare, a quanti vogliano seguire il suo esempio, nel Theatre d’agriculture et ménage des champs, il trattato che vede la luce a Parigi, l’anno 1600, in oneroso tomo in quarto reale.
Autentico spirito religioso, e genuino patriota, il gentiluomo provenzale saluta con gioia il ritorno della pace, che Enrico IV ristabilisce professando, nonostante le simpatie calviniste, il credo romano. Al sovrano che ha restaurato la concordia della nazione dedica il proprio trattato e offre i propri servizi per ritessere l’ordito dell’agricoltura infranto dalla guerra. Accettando l’offerta il monarca affida al grande agronomo il compito di predisporre le piante di gelso necessarie a stabilire a Parigi, nei parchi reali, la coltivazione della pianta di cui, insieme alla connessa produzione della seta, la Francia sogna di strappare il primato all’Italia.
L’imperativo a fare fruttificare i talenti ricevuti da Dio permea la vasta costruzione letteraria. In aderenza alla dottrina di Calvino l’autore francese è convinto dell’equivalenza tra il possesso di intelligenza e capacità e la proprietà di campi e praterie: la nascita da una famiglia patrizia, che favorisce il migliore sviluppo delle facoltà intellettuali garantendo, insieme, la proprietà di campi e vigne, e la correlata signoria su chi li lavori, è segno di predilezione della Provvidenza, che chiederà severamente ragione, a colui che essa abbia favorito, della gestione di quanto gli ha affidato.
Dall’imperativo evangelico il signore francese ricava, con lucidità esemplare, due conseguenze dalle ingenti valenze economiche e culturali. La prima consiste nel dovere del proprietario di gestire personalmente la propria azienda: cedere la terra ad affittuari per goderne oziosamente le rendite in un palazzo cittadino è, per Olivier de Serres, peccato grave di fronte a Dio. La seconda è il dovere di impegnare, nell’esercizio della conduzione intrapresa, tutta la propria intelligenza, tutta la determinazione, tutte le energie. Il secondo dei due corollari genera, a sua volta, conseguenze di portata ingente, le prime sul terreno sociale, le seconde su quello scientifico.
Il patriarca e il suo popolo
Nella sfera sociale la lettura calvinista della parabola evangelica definisce il tenore dei rapporti tra il proprietario e gli uomini che partecipano allo sfruttamento dei suoi beni. Per il riformatore ginevrino il grande proprietario è un eletto, scelto dalla Provvidenza quale proprio vicario tra gli uomini. Chi possegga terre e animali stinge nelle proprie mani la sorte di quanti da quelle terre e da quegli animali attendono il proprio cibo: della guida di quegli uomini, perchè possano soddisfare le esigenze essenziali vivendo in pace operosa, il signore dovrà rispondere a Dio. Olivier de Serres sa che condurre gli uomini sulla strada dell’onesto operare è impegno gravoso ed incerto, che lo è doppiamente in tempi di guerre civili, quando gli odi scatenano le forze peggiori della natura umana, gli uomini si dividono in ribaldi e in vittime della ribalderia, e il grande signore è indotto a usare i mezzi della propria ricchezza con prepotenza, perchè nessuno di quei mezzi riesca a spogliarlo. E’ proprio, tuttavia, nei tempi bui della violenza che i comandamenti divini divengono impegno più severo, la giustizia prescritta al credente istanza più cogente.
È per questa ispirazione di precipua matrice religiosa che il quadro del domaine francese che prende forma nel Theatre rivela assonanze tanto suggestive con il quadro di uomini e di animali che vivono nella sfera di imperio del patriarca della Bibbia, che trae direttamente da Dio la propria autorità sui viventi che gli sono sottoposti, e che quell’autorità esercita con severità e giustizia, senza, peraltro, della propria giustizia dovere rendere conto ad altri che a Dio. Come la tribù del patriarca era circondata da tribù rivali, pronte a sottrarle, al primo segno di debolezza, pascoli, animali e pozzi di abbeverata, attorno alla scacchiera di arativi e di pascoli, di stagni e di boschi che circonda il chateau gli uomini si scontrano nella lotta per sottrarre gli uni agli altri i mezzi necessari alla vita, i più forti sopraffacendo i più deboli per essere sopraffatti, a loro volta, da altri più forti ancora.
Per conservare il dominio delle sue terre il signore deve sapersi alleare e sapersi difendere: la legge dell’Onnipotente gli vieta, però, di opporre alla prevaricazione la prevaricazione. Nella difesa della sua terra e delle sue bestie è attorniato dagli uomini che quella terra e quelle bestie fanno fruttare, attendendo da esse il loro cibo. Non sono tutti uomini virtuosi, molti, anzi, sono pronti a tradire: il signore lo sa, deve prevenire, cercare di correggere, osservando, tuttavia, il mandato divino di essere per quegli uomini, padre e maestro di giustizia, pronto a punire con severità ma anche a perdonare con misericordia.
Proposto con una prosa dal grande potere evocativo, in un linguaggio severo che sa incastonare nel proprio argomentare, con eguale eleganza, il versetto biblico e il proverbio popolare, il quadro del piccolo regno rurale in cui il signore guida i propri soggetti nel duro confronto per la vita esercita sul lettore una suggestione profonda, ricordandogli una verità che la coscienza del ventesimo secolo riconosce, ormai, con fatica: la coscienza di quanto si siano protratti tra gli uomini, fino a tempi a noi non remoti, rapporti di primitiva semplicità, rapporti di dipendenza diretta tra un capo ed i sudditi che gli rimettono il soddisfacimento delle esigenze essenziali, rapporti di sudditanza che solo una norma religiosa può trasporre dal piano della mera violenza a quello di una elementare umanità.
Contro la superstizione
Ma se il quadro economico e sociale che le pagine del Theatre tratteggiano con tanto vigore non può non sedurre chi sappia percepire, in una testimonianza eloquente, il respiro profondo di un’epoca lontana, la suggestione letteraria non può soverchiare la considerazione che il cultore di storia della scienza concepisce, fino dalla prime pagine, per il messaggio agronomico del capolavoro francese.
Quel messaggio è correlato, anch’esso, all’ispirazione religiosa dell’autore. Come obbligano a bene usare le ricchezze, gli imperativi dell’etica calvinista impongono di usare il dono divino della ragione sottraendolo ad ogni asservimento ai preconcetti che non sono frutto della ragione ma espressione di falsa ragione. Obbedendo a questa istanza fondamentale Olivier de Serres si impegna a liberare lo scibile agrario dall’oneroso retaggio della superstizione popolare, della credenza astrologica, del tradizionalismo inerte. Perseguendo il proposito verga una delle pagine più significative del Theatre, e, insieme, della letteratura naturalistica dell’Età moderna proclamando che l’universo è un grande ordito di corpi tra loro collegati, di fenomeni interdipendenti, che quindi le stelle e la luna esercitano influenze sicure sulla vita delle piante e degli animali, ma aggiungendo che la speculazione con cui l’uomo ha tentato, dall’alba della propria storia, di penetrare quelle relazioni è stata mera affabulazione, incapace di penetrare le leggi con cui il Creatore ha disciplinato l’universo, è stata, anzi, offesa al Creatore, che ha immaginato avere imposto al cosmo regole tra sè contradittorie.
Creando l’uomo a propria immagine, l’Onnipotente ha voluto possedesse la facoltà di comprendere, con la propria ragione, le leggi che la mente divina ha fissato a governo del mondo, ma nella comprensione di quelle leggi l’uomo non può che procedere gradualmente, in un lungo cammino secolare. Gli si propone, quindi, la tentazione di precedere l’opera della ragione con quella della fantasia, attribuendo dignità di conoscenza alla favola, sostituendo la dimostrazione con la superstizione, ma cedendo alla tentazione degrada il più alto dei doni divini, tradisce l’imperativo a mantenere accesa la luce che l’Onnipotente ha infuso nella sua coscienza.
È un’argomentazione scientifica e teologica esemplare, una pagina che vale, da sola, a demolire il tradizionalismo tralatizio che impera nelle campagne europee dell’epoca, a confutare quelle opere agronomiche, prima tra tutte il trattato di Crescenzi, che anzichè sospingere all’impiego della ragione sperimentale assecondano la propensione contadina alle credenze superstiziose, è il contributo di un contemporaneo di Galileo e di Bacone alla nascita, nell’alveo delle scienze naturali, di un’agronomia fondata su solide fondamenta sperimentali.
Il manifesto della nuova enologia
L’autore francese applica con coerenza i principi metodologici che ha enunciato ai grandi temi della conoscenza agronomica, su ciascuno dei quali scrive pagine dal vigoroso significato innovatore. Un rilievo precipuo rivestono, tra tutte, le riflessioni che dedica al grande tema dei rapporti tra colture cerealicole, foraggere e allevamento del bestiame, tre fattori tra i quali insegna a stabilire un equilibrio che presuppone il superamento definitivo della rigida povertà della cerealicoltura medievale, che costringeva gli animali a ricercare, tra cento stenti, il foraggio fuori dall’azienda, privando, così, i cereali del supporto essenziale del letame, disperso tra i gerbidi, in una correlazione deleteria che impediva, insieme, più elevate rese cerealicole e più abbondanti produzioni di carne e di latticini.
L’equilibrio tra i tre fattori propugnato dall’agronomo francese implica, come condizioni, una ricca dotazione aziendale di bestiame, al primo posto i bovini, insieme ad equini, suini e ovini, e un’abbondante produzione di foraggi, che nelle stalle si convertiranno in doviziosa massa di letami, di cui saranno i cereali i primi beneficiari: è l’equilibrio caratteristico dell’agricoltura moderna, l’equilibrio che imporrà la rivoluzione agraria che, germogliata in Inghilterra cinque decenni dopo la pubblicazione del Theatre, si dilaterà, in due secoli, sui campi di tutti i paesi civili.
Sottolineato, peraltro, il terreno sul quale il capolavoro francese propone le pagine più significative, non può mancare, nel profilo dell’agronomo provenzale, la menzione di una tematica sulla quale le sue prescrizioni segnano la scriminante tra il mondo antico ed il mondo nuovo, la tematica enologica. La vite è coltura capitale della Francia, il vino elemento essenziale della sua economia, del suo costume, della sua cultura: al vino e alla vite Olivier de Serres dedica uno dei più ampi tra i libri che compongono il Theatre. Ma se sulla coltivazione della pianta l’agronomo francese non può superare la completezza della precettistica di Columella, una completezza che ha ricalcato un altro erede del grande latino, il lombardo Gallo, sul tema del vino scrive pagine assolutamente nuove, pagine nelle quali dobbiamo identificare il manifesto del gusto moderno del vino, della tecnologia enologica dal quale esso prende vita.
La vite è tipica pianta mediterranea, che nelle terre d’origine matura i propri grappoli con tanta facilità che ricavarne il vino non ha mai proposto al coltivatore, nei paesi rivieraschi, alcuna difficoltà. Sulle rive del Mediterraneo fare il vino è sempre stata operazione banale, e per millenni su quelle rive si è bevuto un liquido prodotto senza cure particolari, per lunghi secoli conciato con le sostanze più singolari, per altri lunghi secoli conservato in recipienti tali da alterarne gravemente le caratteristiche. Il gusto moderno del vino nasce nei paesi in cui la vite è pianta straniera, che si insedia e fruttifica sfidando un clima che le è ostile. Trasformarne in vino l’uva è impresa gravida di difficoltà: il suo contenuto zuccherino è esiguo, per valorizzarlo pienamente i cantinieri debbono escogitare espedienti che i viticoltori mediterranei non hanno mai dovuto sperimentare, ma con quegli espedienti ricavano dall’uva un liquido che possiede colori ed aromi che i vini mediterranei non hanno mai posseduto.
Se la vite è creatura delle sponde del Mediterrane, il vino moderno, quello cui è aduso il nostro palato, è nato sulle rive del Reno, della Mosella e della Loira. Olivier de Serres è il primo agronomo a tradurre in tecnologia razionale l’insieme delle pratiche di cantina che, perfezionatesi tra i vigneti che fanno cornice ai grandi fiumi europei costituiscono, ormai, contesto organico, che nessun cultore di tecniche agrarie ha ancora fissato in forma letteraria.
Due bevande, due civiltà alimentari
L’impresa, di portata capitale non meno per la storia dell’agricoltura che per quella dell’alimentazione, è condotta dall’autore francese con il rigore e la chiarezza abituali: dalla scelta dei tempi per la vendemmia all’invecchiamento, nelle botti, dei vini di nobiltà più elevata, tutte le fasi del ciclo produttivo sono analizzate con meticolosa precisione, e la lucida percezione dei rapporti di ogni operazioni con l’insieme delle altre. Sintetizzando la magistrale illustrazione si può asserire che il caposaldo della nuova metodologia di cantina è la brevità della fermentazione: alla lunghezza dei tempi di ebollizione testimoniati dagli autori antichi, quei tempi che in Italia costituiranno abitudine insuperabile ancora per tre secoli, l’autore francese prescrive di sostituire tempi oltremodo più brevi, interrompendo l’ebollizione appena il vino abbia acquistato il proprio contenuto alcolico, quando il colore non ha ancora alterato la limpidezza, e nessuno degli aromi tipici delle uve impiegate ha ancora potuto dissolversi.
Tanto il vino che prende origine dalla lunga ebollizione della tradizione mediterranea è greve di sostanze coloranti, tannico, inevitabilmente acetoso e privo di ogni aroma, tanto il vino che produce la nuova enologia è alcolico e brillante, addolcito dalla persistenza dell’ultimo zucchero e ricco di aromi: due enotecniche, due bevande incomparabili. Il vino nuovo costituisce, giustamente, l’orgoglio della Francia. Il cultore di storia dell’agricoltura che chiuda, davanti a sè, il tomo del Theatre, non può mancare di comparare l’affresco che ha ammirato a quello che propongono le Giornate di Gallo, due scenari coevi il cui confronto rivela, di fronte all’ordito demografico, economico e sociale tanto evoluti della Lombardia cinquecentesca, il contesto fondiario ed i rapporti sociali ed economici ancora medievali della campagna francese.
La Francia, che nel Cinquecento pretende la signoria sull’Italia, è, di fronte ala nazione che pretende di assoggettare, un paese primitivo: tra i cento elementi di una società più arcaica può vantare un elemento di precoce modernità che l’Italia non può che invidiare, una bevanda che è espressione di un gusto nuovo, il gusto secondo il quale un giorno tutto il mondo giudicherà un bicchiere di vino. Di quel vino saprà fare un caposaldo del proprio prestigio, e su quel caposaldo imporrà un primato secolare, quel primato che, sancito all’alba del Seicento dalle pagine del più grande dei suoi agronomi, è ancora lontano dal proprio tramonto.
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