Saperi

Omaggio a Giuseppe Pontiggia

E’ prematuramente scomparso il 27 giugno del 2003. E’ stata una figura di riferimento, non solo in un ambito strettamente letterario. Alto, sorriso aperto, sguardo mansueto, riflessivo, lucido, capace di scavare in profondità. Il ricordo

Luigi Caricato

Omaggio a Giuseppe Pontiggia

E’ sempre stata una grande emozione ricordare Giuseppe (“Peppo”) Pontiggia.

Debbo a lui moltissimo, anche la stesura del romanzo L’olio della conversione. E’ stato lui a invitarmi a scriverlo. Lo ricordo qui riportando quanto ho pubblicato nel volume Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della notte bianca, a cura di Daniela Marcheschi, pubblicato nel settembre 2013 da Guido Conti Editore.

A VOLTE MANCANO LE PAROLE

A volte mancano le parole. Non si ha nemmeno il fiato per pronunciarle. Si resta afoni, come quando il Peppo, così misurato, così cadenzato nel rispondere alle domande delle interviste che mi rilasciava, procedeva lentamente, con larghe e meditate pause, la voce bassa. Varcare la soglia di via Farneti 9, a Milano, i libri aggrappati ovunque alle pareti, era come entrare in un tempio laico. Un tempio in cui la prima regola non scritta era il silenzio, le parole da misurare per non banalizzarne la portata.

I nostri incontri erano periodici. Tutte le volte cercavo la sua voce, che puntualmente arrivava, lui sprofondando placido sul divano, sguardo sorridente, sempre pronto ad ascoltare. Parlavo, io ancora ragazzo, con un profondo sentimento di gioia, di quieto abbandono, anche se cercavo di far parlare il più possibile lui: per appropriarmi di sapere, un po’ intimorito dal suo, vasto, lui così lucido, così capace di scavare in profondità. Ogni volta sorpreso della sua predilezione per i temi della spiritualità. Pur sapendo delle frequentazioni di Peppo con illustri teologi, mi esprimevo con spontaneità sui mistici, verso i quali avevo allora una spiccata inclinazione, nei confronti di Giuseppe da Copertino in particolare.

Le parole con cui ora lo saluto non sono le parole che meriterebbe. L’affetto però è la dimostrazione più grande di come la sua scrittura – la stessa voce, nel ricordo vivo dei nostri dialoghi – abbia esercitato in me una potente forza propulsiva. Lui diceva sempre di portare pazienza, perché abbiamo dentro un tesoro non ancora svelato, che attende di manifestarsi. È stato Peppo, così, a spingermi a osare. Da lui ho appreso molto: il rispetto per le parole scritte e parlate, l’attenzione verso ciò che ci circonda. I suoi libri parlano oggi più di ieri, ed è L’arte della fuga, più di ogni altro, a coinvolgermi. È il testo più difficile, ma forse anche il più rappresentativo dell’intera opera. La sua scrittura è carne viva, e i libri seguono puntualmente chi li ha scritti: perciò non mi sento solo, nonostante mi manchi.

Comprendo solo ora, a dieci anni dalla sua morte, il motivo per cui Pontiggia mi induceva a parlare tanto. Mi spingeva a dilungarmi sui temi forti, quelli che più mi appartengono. Per lui, l’esercizio della scrittura non risponde a uno sterile concatenarsi di parole e di saperi, ma è la risposta alle grandi domande della vita; ed è da intendersi soprattutto come un comando etico a cui dobbiamo tener fede – da qui il massimo rigore verso la forma. Né può esserci letteratura, se non vi è un’etica della scrittura.

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