Saperi

Parallele ma convergenti le due subculture italiche

L’emergere di una coscienza tra il popolo italico ha fatto sì che questa si delineasse in due fedi ideali, radicate da decenni nella trama del Paese ma che non sono mai state rivelate. Se da una parte troviamo le radici cattoliche, dall’altra risiede l’anima marxista, dove i consensi si spartiscono tra queste forme di pensiero, capaci di modellare l’attuale società

Antonio Saltini

Parallele ma convergenti le due subculture italiche

I tragici eventi seguiti alla decisione, insensata quanto sciagurata, dell’autarca russo di invadere un paese libero, per propria sciagura ai confini del suo, immaginario impero, ha prodotto conseguenze che il medesimo non aveva mai né previsto (ma è, ormai, provato essere costui sfornito delle capacità di previsione indispensabili a ogni autorità civile, dal sindaco di un comune spopolato a una confederazione di stati): tra le numerose in elenco, l’imperativo, imposto a politicanti e “opinionisti” di ogni genere e specie, di rivelare ì propri convincimenti riposti. Emblematico il caso dei chiassosi tribuni di ispirazione populista di Casa Italia, che usano, correntemente, le regole di una democrazia rappresentativa, i cui statuti imporrebbero che il potere fosse esercitato da chi convinca l’elettorato, seppure il loro cuore pulsi di passioni leniniste, quindi ostili a qualunque riconoscimento delle aspirazioni dei sudditi. La circostanza ha prodotto l’emergere, dalla coscienza profonda dell’italica gente, di due fedi ideali che, radicate da decenni, gli eventi non avevano mai sospinto a rivelarsi nella nudità in cui sono state costrette ad esibirsi. Nudità sgradevole, non esente da connotazioni ripugnanti, ma nudità che qualsiasi essere ragionevole è costretto a rilevare. Chi percorra, in auto, nella tarda serata, alcuni viali milanesi, non può non notare numerose figure femminili in minigonna e giacchette di lucida plastica: neppure l’ingenuo più viscerale immagina, però, che le suddette siano liceali uscite dal conservatorio dopo l’ora dedicata a solfeggi di violino o flauto traverso.

Due orizzonti mentali, due specie botaniche tanto dissimili da attestare condizioni climatiche opposte, un’inequivocabile convergenza ad infinitum, come è scritto in alcuni teoremi geometrici, euclidei o posteriori, che chi scrive non è in grado di precisare. Uno di (remote) radici cattoliche, l’altro di (altrettanto remote) radici marxiste, entrambi estranei ai postulati delle dottrine filosofiche da cui, eredi legittimi o illegittimi, si deve reputare derivino. Il primo pare costituire, ormai, dottrina ufficiale in una diocesi di cui chi scrive frequenta, saltuariamente, le chiese, tra i cui colonnati appare, inequivocabilmente, riconosciuto dall’”autorità superiore”, un cenacolo (o conventicola) di preti (evito, dubbioso, l’uso del termine sacerdoti) che hanno, collettivamente, abbandonato (lessicalmente appare più proprio il termine abiurato) nel corso della liturgia eucaristica, la recitazione, prescritta dai canoni, della professione di fede, o Simbolo di Nicea, il testo votato, in anno Domini 325, al termine del Concilio convocato, nell’isola omonima dell’Arcipelago ellenico, dall’imperatore Costantino per dirimere lo scontro tra il trionfante, per i favori di prestigiosi cortigiani, Ario, che ne uscì sconfitto, e l’opposizione della schiera ortodossa, guidata da due giganti della storia del Cristianesimo, Nicola e Atanasio, emuli, entrambi, di Paolo di Tarso. Considerato, pressoché da due millenni, il Manifesto della Fede cristiana, quel testo è fieramente detestato da quanti avversano la nozione evangelica del peccato. È noto a chicchessia che il Cristianesimo costituisce la fede di chi crede che Cristo, figlio di Dio, si sia assoggettato all’orribile morte di croce per redimere l’umanità dalla colpa, il gravame che ne impediva la relazione filiale con il proprio Creatore. La logica più elementare impone di riconoscere che, ove non preesistesse una colpa da cancellare, la stessa idea del sacrificio del Figlio di Dio sarebbe del tutto risibile: la sola alternativa logica consisterebbe, infatti, nel riconoscimento che il sacrificio sarebbe stato dettato da palesi propensioni masochistiche.

Si impone, peraltro, il rilievo che l’abiura del Simbolo imporrebbe, a chi la propugni, il rigetto del principio secondo il quale la “comunione” conciliare assicura, a presuli e abati riuniti, l’assistenza dello Spirito Santo, la certezza, cioè, del consenso divino alle “conciliari” votate a conclusione dei lavori, che dal giorno successivo costituiscono, per l’intero ecumene cristiano, “verità di fede”, principio fondato sulla promessa di Cristo che “Dove due o tre di voi saranno riuniti nel mio nome, là sarò anch’io” (Matteo, XVIII, 15 -20). Consacrato dal consenso millenario dei padri dei primi secoli e dei teologi di quelli successivi, quel principio conferisce a una pronuncia papale “Urbi et Orbi” i titoli di interpretazione “autentica” degli insegnamenti di Cristo.

Al rilievo si è obbligati, peraltro, ad associare l’asserzione evangelica per cui “Solo la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata” (Matteo, XII, 31-33), sulla quale, ragionevolmente, dovrebbero riflettere preti e frati che, spensieratamente, rimaneggiano, secondo i gusti e le mode, le proposizioni enunciate da Tommaso d’Aquino nella Summa che compendia l’insegnamento dei Padri dei primi secoli a quelli suggellati, in tempi successivi, da concili ecumenici e pronunce papali. Il palese consenso, o, forse, più propriamente, la condiscendenza, del presule locale, a asserzioni per le quali i predecessori, fino agli anni in cui un romano pontefice affidò l’arduo compito a S. E. il cardinale Ottaviani, avrebbero informato il dicastero vaticano presieduto dal medesimo, delle asserzioni, di chierici, diocesani o regolari, che in tempi non remoti sarebbero state condannate come ereticali, non può non imporre la constatazione che l’acquiescenza di vescovi e arcivescovi debba essere ascritta, ab origine, a chi segga, attualmente, sulla cattedra di Pietro, constatazione inquietante, siccome un papa tollerante l’apostasia costituirebbe, nella storia della Chiesa, novità sorprendente: la medesima storia è ricolma, infatti, di papi nepotisti, dediti alla lussuria, circondati da buffoni, parassiti e cortezane, che, a quanto risulta, non avrebbero mai osato confutare dettati di concili o pronunce papali: valga, per tutti, l’esempio di Leone X de’ Medici, campione di ostentata lussuria, assistito, quale segretario di Stato, dal cardinale Pietro Bembo, campione del nepotismo rinascimentale, accoppiata emblematica, che non avrebbe mai accondisceso, però, alla propagazione di asserzioni contrarie a dettati conciliari o al loro commento nelle opere dei teologi e nelle omelie dei predicatori che vescovi ed arcivescovi invitavano a educare le folle, nelle settimane di Quaresima, tra le arcate della cattedrale cittadina.

I tempi sono, palesemente, mutati: per secoli interi un’intera città si accalcava, nella Chiesa Madre, per udire i sermoni di un predicatore famoso, che trasmetteva il frutto degli studi, diurni e notturni, al lume della lucerna, sui codici conservati nella biblioteca abbaziale. Quella folla avrebbe conservato, nella memoria, il racconto di parabole evangeliche, di apologhi sulla vita di testimoni della Fede capaci di ottenere miracoli, i suggerimenti dei Proverbi biblici per la proficua conduzione delle attività quotidiane. Oggi, senza sfidare le intemperie della stagione quaresimale, la nuova collettività ascolta, in pantofole, alla tivù, la prolusione di un leader notoriamente arricchito eliminando gli ostacoli alla penetrazione delle cianfrusaglie offerte, per disinteressata cortesia, dalla Cina, i richiami etici di un magnate sulle cui fortune cento fonti hanno diffuso notizie diffamanti, sempre smentite, in epici processi, dai più rinomati principi del foro. Il sermone del predicatore domenicano, per secoli evento capitale della vita cittadina, non attrae alcuno: la plebe italica ascolta, incantata, le arringhe che, sulle reti del cavalier Berlusconi, i suoi araldi declamano a dimostrare l’integrità etica del sodale di Vladimir Putin.

La seconda delle subculture che spartiscono i consensi dell’italica gente è quella marxista. Come quella cattolica anch’essa pot pourri derivato, nel caso, non da una dottrina religiosa ma dalle elucubrazioni di un ipocondrico che, proclamando il fallimento delle democrazie occidentali, sentenziò che l’autentica eguaglianza umana sarebbe stata realizzata solo imponendo la “dittatura del proletariato”, la concezione che ha suggerito, a spiriti proclivi al fanatismo, la Rivoluzione russa e quella cinese, la prima impresa capitale di Jossif Stalin, la seconda dalla grande Guida, Mao Zedong, entrambi, per realizzare la convivenza auspicata dal maestro, autori di stragi di massa cui sono comparabili solamente quelle che, su un fronte astrattamente opposto, si debbono ascriver al caporale Hitler. E’, peraltro, perfettamente congruente che, nella società “dell’opulenza”, il consorzio umano in cui siamo tutti vissuti, felici, fino all’esplosione del Covid e al vacillare delle certezze, altrettanto felici, della “società del consumo”, un vacillare imposto, brutalmente, dalle conseguenze planetarie delle prodezze del despota che deve reputarsi, legittimamente, l’esecutore fedele, fino a superare, per coerenza, il maestro, dell’ideologia della Dittatura del proletariato,un’ideologi che, siccome non è mai esistito un proletariato in grado di scegliere un leader, ha propagato, sul Pianeta, cento dittatori che il proletariato, come le opposte classi sociali, hanno sottomesso a regimi che della dittatura possedevano tutti i requisiti, del carattere popolare insito nella locuzione non ne possedevano nessuno.

In una società che aveva acquisito, inequivocabilmente, i caratteri di società dei consumi la locuzione “dittatura del proletariato” è venuta rivelando, sempre più palesemente, caratteri palesemente ridicoli: rendendosene, dati i valori elettorali in gioco, lucidamente conto, i beneficiari del capitale accumulato in cento anni di pubblicità marxista hanno mutato, secondo l’antico adagio, gabbana: infelicemente sostituire all’ideologia della “lotta di classe” una diversa concezione della vita sociale, che fosse altrettanto granitica e tetragona, non era possibile ai più leggendari acrobati del trapezio ideologico. Nell’impossibilità di sostituire ad un’ideologia apparentemente organica una concezione civile che ne replicasse i connotati estetici, gli antichi tribuni marxisti sono montati, indifferenti a tutte le contraddizioni, su tutte le tigri di passaggio: eredi di una concezione fondata, quale proposta dal fondatore, sul disprezzo della scienza sperimentale, e su quello di una storiografia fondata sull’analisi di eventi e circostanze, non sull’impiego di aneddoti storici per dimostrare la fondatezza delle proprie chimere, hanno messo al forno la più inverosimile paella di pseudogeologia, pseudoidrologia, pseudoagronomia della più ardita (in termini alchimistici) “concozione”. Impiego il termine aristotelico siccome il mix pare costituire l’ultima versione dalla concezione dello Stagirita dei quattro elementi costituenti, secondo il medesimo, la realtà fisica. Chiunque può verificare l’esito delle cure dedicate allo stracotto dalla politica dell’ambiente della regione Emilia-Romagna, secondo la confidenza di esponente autorevole dell’intellighentia diSinistra luogo demandato, dalla medesima, alla sperimentazione del Futuro. Sperimentazione che ha conosciuto una tappa essenziale nella sottoscrizione di contratti epocali, per la determinazione della strategia scientifica della medesima Regione, per consulenze richieste alla maga indiana Shiva, le cui credenziali scientifiche, una presunta tesi in fisica nucleare, furono, teatralmente, smentite dalla rapida visita alla presunta università canadese, scelta nel cuore delle foreste dell’immenso paese, comunque raggiungibile, a un pensionato della Cia, a spese di una delle maggiori testate giornalistiche Usa, The Newyorker, che negli archivi della medesima non reperì nessuna tesi, ma, soltanto, la menzione di una conferenza, superpagata, sulla concezione del Cosmo della, presunta, cosmologia braminica. Eredi dell’avversione di Karl Marx per le discipline sperimentali, coloro che distillano la filosofia della scienza alla quale ispirare i disegni paesani di strategia ambientale consultano negromanti e ciarlatani, non scienziati, tra le cui schiere non manca, peraltro, chi abbia fatto oggetto di fede l’aforisma per cui:

“Al grato olezzo della moneta

ogni furore alfin s’acqueta”

Ove non si reperiscano, peraltro, anche offrendo i chachet più opulenti, pens to hire nelle discipline specifiche, è sempre possibile acquisire le prestazioni degli architetti, per il curriculum di studi assolutamente ignari di climatologia, pedologia, botanica e zoologia, tanto generale quanto applicata agli animali domestici, perfettamente istruiti, comunque, nella più spregiudicata tuttologia, perfettamente in grado di varare un piano agronomico, regionale o comprensoriale, che riporti le coltivazioni allo stadio dei tempi di Federico Barbarossa, obiettivo insensato per chi conosca, da decenni, l’aleatorietà dei mercati internazionali delle derrate, e suggerisca di non contrarre ulteriormente la già inquietante dipendenza dell’approvvigionamento nazionale dalle importazioni, per chi crede, gli architetti come la comune massaia, che pasta e conserve, di tonno o di bovino, vengano concotti (uso, ancora, il termine aristotelico), nei magazzini dei supermercati, la stolida preoccupazione di chi ignorerebbe le “magnifiche sorti e progressive” verso le quali sarebbe protesa la società planetaria.

Ho proposto alcuni rilievi sulla visione del quadro, naturalistico ed economico, professata, nel tramonto delle supposizioni di Karl Marx, da chi non possa negare di appartenere alla folla degli eredi. Manipolata per essere à la page con le elucubrazioni di cento pseudonaturalisti, pseudostorici, pseudoeconomisti, la filosofia della Sinistra si propone quale la più multiforme bouillabesse che grande capocuoco abbia mai proposto ad una clientela di tyccons. Non a caso il maggiore ideologo del pensiero ex-marxista deve essere riconosciuto nel re degli chef italioti, il maestro dei fornelli che, conscio di rappresentare l’unico superstite della, mai sufficientemente lodata, intellighentia di derivazione marxista, si è impegnato a tradurre, nel più trivialmente popolare eloquio da osteria, l’idea che Lorenzo de’ Medici esprimeva nei versi famosi:

“Chi vuol esser lieto sia,

del diman non v’è certezza.”

Identità di vedute, immane, invalicabile abisso di stile.

Foto in apertura di Luigi Caricato©: opera di Mattia Novello (“Ciò che resta”), dalla mostra “Respiro sott’aria” (Asolo, Villa Freya: 19 settembre 2020 – 5 ottobre 2020)

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