Saperi

Pietro de’ Crescenzi e i poteri della luna

I grandi agronomi della storia. Bolognese, contemporaneo di Dante, per godere quanto ha accumulato dei propri onorari decide di scrivere un trattato di agricoltura, una materia che il lettore medievale può apprendere solo dalle opere latine minori. Redatta in latino, l'opera che prende corpo dal suo lavoro è la "summa" del sapere agrario scolastico, sarà ricopiata in cento codici, quindi ristampata in decine di incunaboli, cadrà, però, nell'oblio appena si imporranno, anche nella sfera agraria, i canoni della scienza sperimentale

Antonio Saltini

Pietro de’ Crescenzi e i poteri della luna

Agronomia al tempo di Dante

Chi consideri le vicende secolari della conoscenza umana non può non provare stupore verificando le metamorfosi delle idee e delle concezioni scientifiche, che si perpetuano nei secoli tra lunghe eclissi, improvvise riscoperte, imprevedibili reviviscenze, e constatando quanto idee feconde possano conoscere oblii secolari, mostrando, poi, repentinamente, la propria vitalità, come concezioni auguste possano degenerare in convincimenti triviali,  preconcetti banali prevalere lungamente su dottrine razionali, che, seppure faticosamente, giungeranno, poi, a eradicarli per sempre. Sono i rilievi sulla storia delle idee che impone la verifica dell’abisso che separa la dottrina dell’autore che impersona l’agronomia araba, erede genuino della concezione scientifica di Aristotele, Ibn al Awam, e quella dell’alfiere dell’agronomia medievale nei paesi cristiani, anch’egli erede di un sapere che ha nelle opere di Aristotele le proprie fondamenta, Pietro de’ Crescenzi.

Bolognese, contemporaneo di Dante, Crescenzi è giudice in comuni diversi d’Italia al tempo in cui le rivalità municipali inducono a sospettare la parzialità di qualunque magistrato concittadino, tanto che i consigli urbani si accordano per assicurarsi le prestazioni di podestà e giudici estranei alla città e alle sue fazioni, laureati in legge, possibilmente, nella facoltà di Irnerio, dove si è addottorato, necessariamente, un giurisperito bolognese. Crescenzi ha conosciuto realtà diverse, e risolto, dobbiamo presumere, miriadi di controversie, quando, facendo ritorno a Bologna per godere quanto ha accumulato dei propri onorari, decide di scrivere un trattato di agricoltura, una materia che il lettore medievale non può apprendere che dalle opere latine minori, essendo il testo di Columella in gran parte smarrito, e dagli scritti di qualche dotto più recente, primo tra gli altri sant’Isidoro, autore di quelle Ethimologiae tanto ricche, se non di precetti agronomici, di cognizioni sulle piante coltivate e gli animali allevati. Redatta in latino, l’opera che prende corpo dal suo lavoro è la “summa” del sapere agrario scolastico, sarà ricopiata in cento codici, quindi ristampata in decine di incunaboli, cadrà, però, nell’oblio appena si imporranno, anche nella sfera agraria, i canoni della scienza sperimentale.

Le due eredità di Aristotele

Il sapere che insegnano i maestri arabi, quello che professano i dottori cristiani risalgono alla medesima matrice, quella filosofia naturale di Aristotele che hanno riproposto, nella sua integrità, i grandi filosofi dell’Islam, Avicenna e Averroè. Tra la traduzione agronomica di quella scienza elaborata da un  dotto di Siviglia e quella enucleata da un giudice di Bologna supporremmo di dover riscontrare, perciò, assai più assonanze che dissonanze: la lettura parallela del trattato di Al Awwam e di quello di Crescenzi smentisce categoricamente l’attesa. Tanto, infatti, l’autore musulmano ci mostra gli straordinari risultati naturalistici di un impiego libero, sperimentale, dei concetti essenziali della scienza aristotelica, tanto lo scrittore bolognese ci impone di riconoscere quanto i concetti della fisica aristotelica possano rivelarsi le vane creature di una filosofia che rigetta la sperimentazione per risolvere, incapace di confronto con la realtà naturale, ogni quesito scientifico in elucubrazioni che postulano, deducono, arguiscono e decidono sulla base di entità astratte, larve speculative prive di ogni rapporto con la realtà fisica che dovrebbero rappresentare.

Il giudizio, che si impone alla lettura delle prime pagine delle due opere, trova la conferma inequivocabile all’analisi comparata dei capitoli nei quali i due autori affrontano i temi essenziali della conoscenza agronomica: la costituzione del suolo e la natura della fertilità, gli accorgimenti da adottare nell’impiego dell’acqua di irrigazione secondo le sue caratteristiche precipue, le peculiarità che deve possedere la semente per assicurare una pronta germinazione e una vigorosa vegetazione,  l’origine ed i sintomi delle affezioni che possono colpire gli animali domestici. Sono quattro tematiche capitali delle conoscenze agronomiche, l’esame parallelo dei due testi rivela culture incomparabilmente più lontane, tra loro, del secolo che le divide. Separate da una distanza incommensurabile, è paradossale rilevare, quantunque radicate nella medesima matrice scientifica, quella fisica aristotelica che assicura ad entrambi gli autori le coordinate conoscitive fondamentali.

La materia è costituita, secondo lo Stagirita, da quattro elementi: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco, cui corrispondono quattro diverse proprietà, il secco, l’umido, il freddo ed il caldo, di cui ogni sostanza partecipa in grado diverso, assumendo, secondo la specifica combinazione, le proprie peculiarità naturali. Una teoria alquanto semplice, senza dubbio uno dei lasciti di minore levatura del grande greco: tanto, peraltro, l’agronomo arabo si libera dalla costrizione di una concezione sostanzialmente primitiva, usando i concetti aristotelici per dirigere sui fenomeni naturali uno sguardo penetrante, che cerca la verifica delle creature della logica senza costringere in uno schema astratto la varietà dei fenomeni naturali, tanto il dotto bolognese trova nello schema delle quattro proprietà il pretesto per fuggire ogni confronto con la realtà fisica e biologica, che è incapace di guardare con gli occhi del naturalista, e che preferisce costringere negli schemi della filosofia. Una filosofia che presume di raggiungere la conoscenza dell’universo non attraverso l’esame dei fenomeni che lo costituiscono ma con la sottigliezza dei  propri sillogismi, con i quali combina, scompone  e ricombina i concetti che Aristotele ha definito per penetrare la realtà, che la scienza scolastica impiega, invece, per l’autorità di chi li ha proposti, indipendentemente dalla loro capacità di rappresentare e spiegare i fenomeni della natura.

Il contemperamento delle quattro proprietà

La concezione delle proprietà fisiche di Aristotele è la matrice del convincimento di Crescenzi che lo svolgimento di tutti i fenomeni biologici dipenda da un’entità regolatrice unica, la luna, alle cui fasi gli agricoltori debbono guardare per decidere i tempi e le modalità di qualunque operazione dei campi. Perchè la luna? Crescenzi lo spiega con un’argomentazione il cui ordito è emblematico di tutto il suo pensiero, e caratteristico dell’astratta inconsistenza in cui la scienza della natura si dibatte, in Occidente, per oltre mille anni.

La luna possiede le proprietà dell’umido e del freddo, esordisce il dotto bolognese enunciando un assioma che non può vantare, palesemente, alcuna prova sperimentale. Ma riceve la luce del sole, il quale è, invece, caldo e secco, prosegue asserendo una verità meno alquanto più attendibile. La luna unisce, così, le quattro proprietà, ciascuna delle quali prevale sulle altre in una specifica fase lunare: ancora un’asserzione, dobbiamo riconoscere, che l’esperienza è incapace di dimostrare.        Qualunque operazione debba compiere, per il suo esito felice l’agricoltore dovrà chiedersi quali siano le proprietà dell’entità biologica, pianta o animale, con cui debba operare, e intervenire nella fase lunare dalle proprietà contrarie, così da mediare i quattro opposti, ottenendo l’equibrio  che è condizione di ogni produzione agraria.

Il dotto bolognese è tanto certo della verità definita con la propria argomentazione che rigetta, con molta sufficienza, le preoccupazioni di chi decida quando seminare o quando innestare scrutando le stelle. Come contempera gli influssi solari, la luna, proclama, contempera anche  quelli astrali, di cui è vano, perciò, preoccuparsi.

È il rigetto delle prescrizioni di Virgilio, che nelle Georgiche istruisce l’agricoltore sui segni celesti che dovrà scrutare prima di mettere mano a qualunque strumento. L’autorità del grande poeta, che il Medioevo venera come veggente e profeta, viene rigettata per la solidità del sillogismo aristotelico, la cui evidenza è tale, per il giudice bolognese, da sconfiggere qualunque obiezione. Professando quell’evidenza Crescenzi assicura le fondamenta scientifiche più solide a quelle superstizioni sui poteri della luna cui ortolani e cantinieri contadini si atterranno, scrupolosamente, per altri sette secoli.

Metafisica della germinazione

La metodologia scientifica di Crescenzi realizza la propria manifestazione  suprema  dove ai concetti della fisica aristotelica l’argomentazione combina quelli della metafisica. Paradigmatico il capitolo in cui il giudice bolognese esamina la natura della semente, nella quale è contenuta, in potenza, la futura pianta: la semente possiede, cioè la sostanza formale del futuro organismo vegetale. Perchè la potenza si converta in atto, la semente diventi pianta, metamorfosi fisica e metafisica, nel suolo e nell’atmosfera dovrà sussistere l’accordo tra le proprietà fisiche necessario perchè la virtù formativa si esprima, e con la germogliazione, processo fisico, si compia la conversione metafisica.

Supponiamo di voler seminare una pianta che possieda proprietà calde e umide. Perchè la cipolla sia calda e umida, e il cavolo sia freddo e secco non è facile spiegare, ma nell’attribuzione Crescenzi non mostra il minimo dubbio: se, durante la carriera giudiziaria, ha esaminato le prove dei litiganti con la sicumera con cui stabilisce la frigidità delle zucche è difficile pensare che abbia mai risolto un caso secondo giustizia.

Stabilite, comunque, le loro proprietà, sarà sufficiente seminare le nostre cipolle  nella fase lunare contraria, cioè fredda e secca,  perchè la virtù formativa del seme possa operare felicemente, e la sua sostanza formale tradursi in bulbi succulenti. Che bisognerà mangiare, però, con mille precauzioni, perché chi possieda una costituzione di natura opposta rischia di contrarre, da  una saporosa zuppa di cipolle, male di stomaco, enfiagioni e male di testa, che nei casi più banali potrà indurre incubi notturni, in quelli più gravi condurre alla pazzia: un vegetale, la comune cipolla, da consumare solo dopo avere consultato lo speziale!

Se il cavallo tossisce

La  complessa alchimia delle proprietà si compone, moltiplicando le possibilità combinatorie, con la concezione degli umori della medicina ellenistica, che postula nell’organismo quattro umori, ciascuno caratterizzato da due proprietà distinte. Il prevalere di un umore sugli altri è la ragione di ogni malattia: l’arte del medico consiste essenzialmente, quindi, nel somministrare farmaci che, possedendo poteri opposti, mitighino lo squilibrio causato dal prevalere di un umore sugli altri, ristabilendo l’equilibrio tra le quattro proprietà.

La dottrina degli umori è il fondamento di tutta la parte dell’opera dedicata alla veterinaria, un terreno sul quale Crescenzi si impegna con una sicurezza di argomentazioni pari solo alla loro amena inconsistenza. Un cavallo uscito dalla stalla calda compia una galoppata al freddo: contrarrà la tosse, una malattia che deriva dall’eccesso di umori freddi ed umidi. Essendo palesi le caratteristiche del male, non può esservi dubbio nella scelta del rimedio, che dovrà essere caldo e secco: preso un ferro rovente si cauterizzeranno le glandole che il cavallo porta sotto la mandibola. Per essere assolutamente certi della guarigione si potrà, inoltre, ungere le orecchie della bestia, che verificheremo essere fredde, col più efficace dei medicamenti caldi: il burro fuso.

Lo stalliere bene istruito nella sua professione debba provvedere, invece, ad un cavallo che, nutrito con troppa avarizia, sia gravemente deperito. La magrezza non è, palesemente, che la prova della secchezza interna della bestia, cui sarà necessario opporre una cura che restituisca al corpo l’umidità necessaria, uno scopo che impone il ricorso ad un poderoso clistere. Ricavato un cannello da una canna, lo si inserirà nell’ano della bestia legandolo bene alla coda, perché recalcitrando il cavallo non lo possa espellere. Il nostro maniscalco introdurrà quindi nelle viscere dell’animale  un infuso  di malva e di altre erbe odorose, di crusca d’orzo e, naturalmente, di burro, il tutto ben cotto, e farà in modo che l’animale lo trattenga più a lungo possibile. La cura potrà essere seguita dalla reiterata somministrazione di zabaione, tuorlo d’uovo e vino bianco, che dovrà essere versato nella bocca dell’animale mediante un corno di bue (non sia mai di vacca!). Il poderoso clistere ad una bestia moribonda per la fame avrebbe potuto produrre, dobbiamo reputare, effetti letali: quattro o cinque zabaioni sono la precauzione più sensata perchè il povero cavallo sopravviva alla cura.

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