Saperi

Quanta saggezza nell’affrontare l’ultimo miglio della vita

Nel nuovo romanzo di Antonio Pascale, Cose umane, pubblicato per le edizioni Einaudi, c’è il respiro di una commedia planetaria in cui sono protagonisti i mondi contadini e la modernità sorta dalle loro ceneri. Al centro della narrazione le svariate storie di vita di familiari, amici e conoscenti dell’autore, sull’onda dei ricordi. Una rievocazione storica che non dà mai adito all’indugio nostalgico, ma serve a comprendere le rotture epocali che guidano i processi emancipatori

Alfonso Pascale

Quanta saggezza nell’affrontare l’ultimo miglio della vita

Nell’ultimo romanzo di Antonio Pascale, pubblicato da Einaudi, le Cose umane altro non sono che relazioni sociali. Di queste, infatti, sono composte le svariate storie di vita di familiari, amici e conoscenti dell’autore. Storie create sull’onda dei ricordi che riaffiorano tornando, dopo quarant’anni, a Caserta, nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza. L’occasione è data dai viaggi continui di Antonio per accudire i propri genitori quasi novantenni, Valerio e Assunta. I quali si preparano alla morte raccogliendo e mettendo in ordine le cose che dovranno lasciare. Ed è questa saggezza nell’affrontare l’ultimo miglio della vita a stimolare la creatività dell’autore.

Viene innanzitutto ripresa l’idea del passaggio dal paese di Pinocchio, il racconto di Collodi ambientato nell’età della fame e della miseria, al paese di MasterChef, il format televisivo di pietanze e ricette culinarie che evocano l’abbondanza raggiunta negli ultimi sessant’anni. Una metafora che chi segue il lavoro di Antonio Pascale come divulgatore scientifico già conosce. Ma qui diventa l’architrave della narrazione, dando al romanzo il respiro di una commedia planetaria, in cui sono protagonisti i mondi contadini e la modernità sorta dalle loro ceneri.

Un protagonista del mondo di Pinocchio era il nonno paterno dell’autore, che si chiamava anche lui Antonio: un contadino che teneva la stalla per l’asino e il mulo così pulita da essere frequentata da tutti i vicini. Le donne vi andavano a fare la maglia, gli uomini a raccontare le “cose” della guerra, i giovani ad adocchiare le ragazze. La stalla era un luogo di “cose umane” dove si praticava la reciprocità solidale e la staffetta generazionale.

Quei mondi contadini ricorrevano ai riti magico-sacrali studiati da Ernesto De Martino, un autore citato nel libro a supporto di due idee molto condivisibili. La prima è che la magia e la religiosità avevano una funzione essenziale: tenere a bada la fragilità di quei mondi poverissimi, proteggere le persone dalle avversità della vita. E l’altra è che non bisogna crogiolarsi nelle tenebre del passato ma occorre usare la luce autentica della ragione per guardare al domani.

Infatti, nel romanzo, la rievocazione storica dei mondi contadini non dà mai adito all’indugio nostalgico. Ma serve a comprendere le rotture epocali che guidano i processi emancipatori. Così va inteso il richiamo all’espressione usata molte volte da Giuseppe Di Vittorio nei comizi: “Toglietevi il vizio della coppola”. Il grande sindacalista pugliese spiegava così ai contadini che levarsi il copricapo quando incontravano un notabile poteva avere due significati: compiere un gesto di educazione ma anche di sottomissione. Da allora nelle campagne tutti hanno smesso di togliersi la coppola. E i contadini si sono concessi il lusso, che avevano represso per millenni, di parlare alla pari col potente. Hanno cominciato a desiderare l’appagamento di antichi e recenti bisogni. Un’energia nuova che si è trasformata in lotte per la riforma agraria e, poi, in capacità imprenditoriale per produrre meglio e affrontare i mercati che si aprivano.

Il mondo di MasterChef è frutto di quella scossa. La quale ha trasformato i contadini in agricoltori, operai di fabbrica, commercianti, artigiani, piccoli e medi industriali e i loro figli in educatori, professionisti, ricercatori. Ha convertito le campagne agricole in campagne industrializzate e urbanizzate. Certo, non hanno agito solo le “cose umane” ma anche la meccanizzazione, la chimica, la genetica. E l’energia derivante dalle “cose minerarie”: il carbone e il petrolio. MasterChef è stato l’esito del concorso di tutti questi fattori. I bambini non sono più morti come prima. E se per millenni l’agricoltura aveva sfamato solo alcuni milioni di persone, al tempo di MasterChef ha dovuto assicurare il cibo a una popolazione mondiale di 8 miliardi. Con tutte le conseguenze sociali e ambientali negative che quel cambiamento così repentino e vertiginoso ha prodotto. Ma a lubrificare e rendere sopportabile quel processo grandioso di trasformazione sociale c’erano le culture millenarie dell’ospitalità, del vicinato e delle proprietà collettive. Una ricchezza emotiva ed esperienziale lasciataci in eredità dai mondi contadini e che influenza ancora oggi le nostre passioni, i nostri sentimenti, le nostre mentalità, in continuo mutamento.

Lungo tutto il racconto ci sono i genitori dell’autore: la mamma è la più malandata e il papà se ne prende cura con amore. Fanno tenerezza per come si tengono per mano. Lei era stata insegnante e lui tecnico dell’Ispettorato agrario. E a tratti s’affaccia anche Susanna, la figlia di Antonio. La quale ha fatto il master in intelligenza artificiale. E, verso la fine, cerca di spiegare quest’ultima rivoluzione tecnologica ai nonni. I quali hanno così un sussulto di vita e si mostrano incuriositi ponendo alla nipote tante domande. Chiede Valerio: “Ma scusa, Susa’, se l’intelligenza artificiale fa tutto, noi poi che facciamo?”. E lei risponde: “Ci godiamo la vita, nonno, cioè, verremo pagati per goderci la vita e consumare”.  Ma il tema che tiene banco nella conversazione è l’inverno demografico che caratterizza il nuovo mondo dopo MasterChef. “Nel futuro – dice Susanna – il mondo sarà un mondo di persone con i capelli grigi […], ci dobbiamo preparare. Cambierà tutto, l’amore per esempio, senza figli sarà un amore diverso, poi immagina il sistema pensionistico, o quello sanitario, se aumenteranno le malattie mentali dove li mettiamo i pazienti?”.  Valerio annuisce: “È la verità, ci dobbiamo pensare prima, qua dobbiamo prepararci alla fine, questo è il senso della nostra vita: queste sono cose umane”. E Assunta rilancia: “Susanna, a nonna, io me ne voglio andare all’altro mondo, qua se tutti volessero andare all’altro mondo non faremmo tutte queste tarantelle, quando uno non ce la fa più non ce la fa più, che insisti a fare? Uno vive tutta la vita in un modo e poi alla fine scopre che era in un altro modo”.

Pensieri che restano appesi come spunti su cui continuare a riflettere. Anche in questa opera di Antonio Pascale c’è la solita vena melanconica. Ma anche tanta leggerezza e ironia che vi terranno di buon umore. Di sicuro non vi annoierete. Infatti, non troverete sermoni ma sprazzi di vita. Leggetelo il libro, mi raccomando. Non ve ne pentirete.

Antonio Pascale, Cose umane, Einaudi, pp. 218, Euro 19

In apertura, foto di Olio Officina

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