Ricordando Carlo Levi
Il suo Cristo si è fermato a Eboli non denigra il Mezzogiorno - come è stato affermato a più riprese - ma mette in luce i valori culturali e umani di una popolazione che all'epoca era prevalentemente contadina e che oggi si presenta sotto forma di una pluralità di professioni e competenze

Quest’anno ricorre il il quarantesimo anniversario della morte di Carlo Levi e il settantesimo della pubblicazione del suo Cristo si è fermato ad Eboli. Molti ritengono il capolavoro leviano essenzialmente un’opera letteraria, di scarsa incidenza sul piano politico. Non è così perché l’autore, quando fu inviato al confino in Lucania dal fascismo, non era soltanto il caposcuola della pittura moderna a Torino e uno dei pochi pittori italiani di notorietà internazionale, ma era anche uno dei più attivi collaboratori di Carlo Rosselli nel movimento di “Giustizia e Libertà” che poi sfociò nel Partito d’Azione.
Carlo Levi conosceva a fondo la letteratura meridionalistica. Aveva letto Salvemini, Fortunato, Gramsci, Nitti ed altri.
Per rendersene conto basta leggere attentamente l’epilogo del libro. Levi ritornava in treno da Torino dove era stato in permesso per un lutto ed era accompagnato da un poliziotto con cui aveva fatto amicizia.
“Era notte – scrive – e non mi riusciva di dormire. Seduto sulla dura panca andavo ripensando ai nostri giorni passati e a quel senso di estraneità e alla totale incomprensione dei politici per la vita di quei paesi verso cui mi affrettavo. Tutti mi avevano chiesto notizie del Mezzogiorno, a tutti avevo raccontato quello che avevo visto; e se tutti mi avevano ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo. Quindici anni di fascismo hanno fatto dimenticare tutto il problema meridionale e se ora lo avevano riproposto non sapevano vederlo che in funzione di qualcosa d’altro, dalle generiche funzioni mediatrici del partito e della classe o magari della razza. Alcuni vedevano in esso un puro problema economico e tecnico, parlavano di opere pubbliche, di bonifiche, di necessaria industrializzazione, di colonizzazione interna, si riferivano ai vecchi programmi socialisti di rifare l’Italia, altri non ci vedevano che una triste eredità storica, una tradizione di borbonica servitù che una democrazia liberale avrebbe un po’ alla volta eliminato, altri sentenziavano non essere altro il problema meridionale che un caso particolare dell’oppressione capitalistica che la dittatura del proletariato avrebbe senz’altro risolto. Altri ancora pensavano a una vera inferiorità di razza. I politici parlavano del Sud come di un peso morto per l’Italia del Nord e studiavano le provvidenze per ovviare dall’alto a questo doloroso stato di fatto. Per tutti lo Stato avrebbe dovuto fare qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico e provvidenziale: e mi avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato com’essi lo intendevano era invece l’ostacolo fondamentale a che si facesse qualunque cosa. Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato. Fra lo statalismo fascista, lo statalismo socialista, lo statalismo liberale e tutte quelle altre forme di statalismo che in un paese piccolo borghese come il nostro cercheranno di sorgere, e l’antistatalismo dei contadini, c’è e ci sarà sempre un abisso e si potrà cercare di colmarlo soltanto quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui anche i contadini si sentano parte. Le opere pubbliche, le bonifiche, sono ottime ma non risolvono il problema. La colonizzazione interna potrà avere dei discreti frutti materiali, ma tutta l’Italia, non solo il Mezzogiorno, diventerebbe una colonia. I piani centralizzati possono portare grandi risultati pratici, ma sotto qualunque segno resterebbero due Italie ostili“.
Colpisce l’attualità di queste affermazioni. E fa riflettere la tesi meridionalistica che Levi a questo punto pronuncia con grande chiarezza: “Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà solo fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del Mezzogiorno, che in questo caso avremo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l’opera di tutta l’Italia, e il suo radicale rinnovamento. Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare uno Stato nuovo, che non può essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale“.
Il meridionalismo di Levi è in sostanza quello della grande tradizione liberale. Il suo Cristo non denigra affatto il Mezzogiorno – come è stato affermato a più riprese – ma mette in luce i valori culturali e umani di una popolazione che all’epoca era prevalentemente contadina e che oggi si presenta sotto forma di una pluralità di professioni e competenze. E nello stesso tempo mette in luce la meschineria e la grettezza di quella piccola borghesia di “galantuomini” di paese che in questi settant’anni si è trasformata nell’attuale classe dirigente, conservando i suoi caratteri clientelari e prevalentemente inetti di allora.
Con la sua opera letteraria e, al tempo stesso, di alta denuncia politica e sociale, Carlo Levi volle rammentarci che la cultura meridionale affondava le sue radici nella civiltà contadina e in quella europea. Senza alcuna distinzione o contrapposizione. E alla linfa vitale di quelle radici così lunghe e diffuse ora dobbiamo attingere per individuare la strada da percorrere. Una strada impervia ma ineluttabile che passa attraverso un rinnovamento complessivo dello Stato e dei suoi rapporti con la società. Ma solo un miglioramento della qualità della classe dirigente può produrre questo risultato. E al conseguimento di tale esito noi tutti siamo oggi chiamati a contribuire.
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