Riscoprire la passione per gli animali. Il mito di Epimeteo e Prometeo
Quale legame scorre tra gli esseri umani e gli animali? Questi ultimi cosa ci insegnano e in cosa ci ritroviamo? Il mito in questione ci fornisce gli strumenti per interpretare questo importante tema, e ciò che ne deriva, facendoci riflettere e giungere a conclusioni con nuovi occhi
Epimeteo e Prometeo sono personaggi della mitologia greca, entrambi titani e fratelli. Si schierarono dalla parte di Zeus che combatteva i titani.
Per questa loro scelta di campo, i due fratelli ricevettero in dono da Atena e dagli altri dei un numero limitato di “buone qualità”: le avrebbero dovute distribuire saggiamente fra tutti gli esseri viventi.
E così Epimeteo incominciò a distribuire le qualità agli animali. Ma, sventatamente, si dimenticò degli uomini. Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare agli esseri umani. A quel punto, Prometeo rimediò rubando a Efesto e ad Atena il sapere tecnico, insieme al fuoco. Nota Platone nel “Protagora”: “ché senza il fuoco sarebbe stato impossibile acquistarlo o servirsene”. In tal modo l’uomo ebbe “la scienza della vita”.
Epimeteo in greco antico significa “colui che riflette dopo”, mentre Prometeo sta per “colui che riflette prima”. I due epiteti contrapposti vogliono indicare che Epimeteo è ingenuo e sciocco, mentre Prometeo è astuto e intelligente.
È soprattutto su questo mito fondativo che si poggia il luogo comune rappresentato dal confronto tra la dimensione magmatica, storica e culturale dell’essere umano con quella ripetitiva e ciclica degli altri animali.
Il mito giustificherebbe una differenza di fondo tra l’uomo e l’animale: da una parte, la capacità di riflettere del primo e, quindi, di agire con oculatezza e lungimiranza; dall’altra, l’avventatezza del secondo e, in particolare, la sua tendenza a lasciarsi trascinare dalle sensazioni immediate.
Il dono di Epimeteo renderebbe gli animali perfettamente equipaggiati per svolgere le attività richieste. Ma, nello stesso tempo, li vincolerebbe ad una prevedibilità e ripetitività, sancendone una schiavitù di rango. Al contrario, il dono prometeico del fuoco rubato agli dei consentirebbe agli esseri umani di essere liberi e dotati di autodeterminazione.
Ma tutte queste distinzioni in realtà non esistono. A ben guardare, l’essere umano non è altro che una delle tante declinazioni dell’animalità. E non è dato riscontrare un carattere distintivo e accomunante valido per racchiudere le altre specie in una categoria oppositiva all’uomo.
Roberto Marchesini ha così provato ad invertire l’interpretazione che finora è stata data al mito di Epimeteo e Prometeo. E lo fa partendo da alcuni assunti che il racconto mitologico mostra in modo abbastanza evidente.
Le specie diverse dall’uomo ricevono in dono da Epimeteo una molteplicità di risorse performative. A questa elargizione che sembra escludere l’uomo corrisponde un risarcimento a suo favore: il sapere tecnico e il fuoco rubati da Prometeo agli dei. Un dono che permette all’uomo di avviare la fucina di “téchne”. È qui che l’umano incomincia ad ottenere le prestazioni degli altri animali attraverso l’atto culturale, ossia appoggiandosi ad un apparato esterno.
Se si guardano attentamente questi elementi, è facile notare che il dono di Epimeteo (il corredo di “buone qualità”) non resta confinato in modo esclusivo nel corpo degli animali: assume, invece, il significato di prototipo da imitare.
Seguendo questa prospettiva, si potrebbe dire che gli altri viventi sono per l’uomo il termine di confronto più importante, sia in qualità di sfide da superare sia sotto forma di modelli da emulare.
Il mito dei due titani perciò può essere letto anche in un altro modo: dimostrare come sia stata proprio l’ammirazione e l’emulazione a mettere fuoco nella fucina di Prometeo, trasformando l’uomo in animale culturale.
In sostanza, le altre specie sono per l’uomo un punto di riferimento fondamentale proprio in quel percorso di sviluppo tecnologico e culturale che gli consente di andare oltre il suo retaggio istintivo.
Gli animali ricoprono il ruolo di maestri per l’essere umano, mostrando soluzioni già collaudate, biomeccaniche da imitare o da tradurre in strumenti.
La storia del cane lo dimostra con chiarezza. In base a studi recenti, la domesticazione del lupo, ovvero la sua trasformazione in un’altra specie, da “canis lupus” a “canis lupus familiaris”, e infine in “canis familiaris”, è un processo iniziato 30 mila anni prima della rivoluzione neolitica. Tra le ipotesi avanzate dagli studiosi, tutti i cani provenienti dall’Eurasia, dall’Africa e dalle Americhe, sia quelli antichi che quelli moderni, condividono un antenato comune: il lupo siberiano. Ma per alcuni di essi, ovvero quelli dell’Europa occidentale e dell’Africa, si può parlare di una doppia discendenza. Questi ultimi, infatti, hanno un progenitore in più rispetto ai loro lontani parenti dell’est: l’antico lupo dell’Eurasia occidentale.
Non è, dunque, l’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento a sollecitare l’alleanza tra l’uomo e il cane, come si è creduto fino a poco tempo fa. Non è il mero utilizzo delle innumerevoli doti ausiliarie del cane, reso necessario dallo sviluppo delle attività agricole e zootecniche, a favorire l’incontro tra l’uomo e il cane.
Ma è proprio quell’amicizia con l’eterospecifico, iniziata molto prima della rivoluzione neolitica, a permettere all’uomo di sviluppare le sue capacità inventive e creative.
Sicché, il passaggio, avvenuto in tempi relativamente lunghi, da una tradizione di caccia e di raccolta a quella d’agricoltura e d’allevamento, è prima di tutto una metamorfosi di relazione dell’uomo con le altre specie.
In tale processo, l’essere umano è profondamente cambiato dal cane. Da lui apprendiamo le strategie di caccia del lupo, ancora risonanti nell’istinto del cane. Impariamo così a diventare cacciatori.
È quel lungo praticantato alla cura, gestito dai cani nei nostri confronti, a permettere che le attività quotidiane di accudimento venissero svolte dalla maggior parte delle persone. Ad agire sono le tendenze canine di territorialità e di difesa del proprio spazio, di accumulo delle risorse, di conduzione e imbranco degli animali selvatici, di strategie di concertazione di squadra attraverso la divisione dei compiti e l’assunzione di ruoli, di elezione della leadership del gruppo.
Prendersi cura di altri esseri viventi significa coltivare la previdenza, la diligenza, l’organizzazione procedurale e il senso di responsabilità, ma soprattutto l’atteggiamento empatico e l’attenzione ai bisogni dell’altro. Sono le “buone qualità” dispensate da Epimeteo agli animali e che questi ultimi provvedono a trasferire agli umani in processi d’ibridazione interspecifica.
La nostra società ha rimosso completamente il ricordo di questa storia. E non ha alcuna consapevolezza che la predisposizione all’accudimento si riattiva solo rimettendo in moto la relazione dell’uomo con gli altri viventi.
L’uomo ha bisogno di guardarsi continuamente riflettendo la propria immagine nello specchio dell’animale. Potrà così ricavarne non solo il senso della propria fragilità, ma anche il ventaglio delle aspirazioni plausibili e delle speranze ragionevoli.
In apertura, foto di Alfonso Pascale
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