Saperi

Ritratti di dodici filosofi

Una gipsoteca di Cesari della filosofia, grazie a Sossio Giametta, il quale, su di un piano non biografico ma speculativo - in un libro che ripropone le collaborazioni con il settimanale “Sette”- rende nuovi e freschi filosofi notissimi e arcistudiati. Ed ecco dunque Nietzsche, Schopenhauer, Spinoza, Platone, Aristotele e alcuni grandi dimenticati come Vanini o Hamann, presentati con uno stile originale, conciso ed efficace

Marco Lanterna

Ritratti di dodici filosofi

Schopenhauer era talmente insoddisfatto delle usuali storie della filosofia da scriversene una da sé; allo stesso modo Giametta coi Ritratti di dodici filosofi (Edizioni Saletta dell’Uva) pare essersi fatto la propria.

Ma il libro, fin dal numero, richiama anche Svetonio e le sue XII Vitae imperatorum. Non è un omaggio peregrino. Difatti come quelle vite ci offrono notizie e curiosità, facendoci conoscere i duci romani quasi per la prima volta, così Giametta – su di un piano non biografico ma speculativo – rende nuovi e freschi dei filosofi notissimi e arcistudiati. Inoltre, egli gareggia coi classici antichi per il nitore e la superba mascolinità dello stile: nessun fronzolo o barbiglio pencola dalla sua pagina: “le cose non scritte chiaramente non sono pensate chiaramente” sentenzia epigrafico come uno dei Savi.

Per questi Ritratti dobbiamo rendere grazie all’ex direttore di “Sette” – Pier Luigi Vercesi – poiché, come spiega Giametta nella prefazione a un tempo memorialistica e metodologica (quasi un’operetta a sé), egli ha agito come un elemento fecondatore, proponendo una serie di medaglioni sui maggiori filosofi da pubblicarsi di tanto in tanto sul settimanale (e quante opere necessarie, dobbiamo infine a circostanze fortuite, a dimostrazione della fragilità d’ogni ispirazione umana).

L’alternanza di modestia e spigliatezza con cui ci vengono incontro questi ritratti non deve ingannare: è cosa difficilissima stillare – in appena 7000 battute – vita, opere e pensieri d’un sommo filosofo, aggiungendovi pure per soprammercato una propria lettura, spesso innovativa. È un cimento riservato a ben pochi maestri; basta scorrere i tentativi similari – in specie universitari – per rendersi conto di com’è facile pasticciare, dilungarsi, oscurare, imbrogliarsi, insomma ottenere – anziché del vino pregiato – del pessimo aceto, nemmeno buono per l’insalata cicoria. Di regola in Italia, è assai raro che la storia della filosofia, la felicità d’espressione e un’interpretazione sagace vadano a braccetto; anzi, di recente, tale sodalizio è riuscito solo a Benedetto Croce (in certe pagine) o al giovane Papini.

Nei ritratti, per via dell’origine giornalistica, era stato chiesto a Giametta d’essere limpido come non mai, più dell’acqua se possibile; ebbene, lui qui s’è davvero superato: ecco infatti Nietzsche, Schopenhauer, Spinoza e poi Platone, Aristotele e pure certi grandi dimenticati come Vanini o Hamann, venirci presentati, neanche dipinti o colorati, bensì scolpiti, resi cioè apprensibili, tangibili, evidenti al tatto, ai polpastrelli d’ognuno. Il “metodo” – svelato senza alcuna gelosia da Giametta – consiste nel “lungo tempo” trascorso coi propri autori, sorta di specialissima dedizione o amore, unito a un je ne sais quoicosì descritto: “solo verso la fine del mio lungo variegato impegno […] le ultime, fondamentali chiarezze […] mi sono arrivate, come dal cielo, senza mio sforzo e sollecitazioni”. Forse la parola che meglio accorda il tempo con questa misteriosa chimica, capace di trasformare ore e ore di lettura e meditazioni in una luce plastica e nutriente, è proprio quella usata da Giametta: metabolismo. Per una buona filologia occorre anzitutto un buon metabolismo. “Per la retta interpretazione di autori ricchi e ingarbugliati […] è necessario, oltre alle capacità personali e a una volontà aliena da partigianerie e libera da interessi assimilanti, attualizzanti e strumentalizzanti […] un lunghissimo metabolismo […] Si tratta in sostanza di setacciare una montagna di sabbia, per ricavare solo alla fine le pepite d’oro della quintessenza”. Quindi al fortunato lettore vengono offerte pepite auree, mentre gli si risparmia molto fango e sudore; e, come con le migliori enciclopedie, egli può contrarre decenni di studio disperatissimo in pochi attimi d’intellettuale godimento.

Forse, senza accorgersene, Giametta ha pure delineato una propria genealogia filosofica. Egli illumina sì alcuni filosofi, a lui cari, ma al contempo, attraverso loro, parla di sé stesso, dà voce a un pensiero che negli anni gli è cresciuto dentro, solingo e potente. Sicché, alla fine, e con sorpresa, notiamo emergere come in filigrana il bel sorriso del nostro autore. Similmente alla litografia di Escher – quella delle mani che si disegnano circolarmente – Giametta dà forma a sé nel momento stesso in cui tratteggia altri. L’aveva intuito pure Stendhal per le opere di compilazione, i tesauri, le crestomazie: anche le più impersonali rivelano – nella scelta o semplice giustapposizione di nomi e argomenti– la fisionomia, il respiro, insomma lo stiledel curatore, basta saperle osservare a una certa distanza.

Questa recensione vuol essere quella distanza.

In apertura, la foto/ritratto del filosofo Sossio Giametta

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