Rocco Scotellaro, poeta della libertà contadina
A sessant'anni dalla morte non abbiamo ancora fatto i conti con il suo lascito. Considerò la civiltà rurale un valore imprescindibile per lo sviluppo. Riuscì a indicare un metodo originale ai contadini del Sud per essere protagonisti in una fase decisiva della propria storia
Il 15 dicembre di sessant’anni fa moriva il poeta della libertà contadina, Rocco Scotellaro. Aveva appena trent’anni ed era già una delle personalità di spicco della cultura e della politica del tempo.
In occasione del cinquantennale della morte di Rocco, la Confederazione italiana agricoltori organizzò a Tricarico il 10 aprile 2003 un Incontro nazionale sul tema: “L’attualità di Rocco Scotellaro. Dal declino della civiltà contadina alla rinascita della ruralità”. Vi parteciparono con propri contributi Giuseppe Avolio, Giovanni Russo, Antonio Landolfi, Michele De Benedictis, Pancrazio Toscano, Nicola Manfredelli, Paolo Carbone e Massimo Pacetti. A me fu affidato il compito di svolgere l’intervento introduttivo, che ora qui vi ripropongo. Rileggendo questa relazione, mi accorgo che a distanza di dieci anni non potrei togliere nemmeno una virgola. I conti con Rocco ancora non sono stati fatti. Già nell’immediato secondo dopoguerra, partendo da una profonda comprensione del valore della libertà nella cultura contadina, egli approda, ben prima di altri pensatori contemporanei, alla concezione secondo la quale lo sviluppo è libertà. Ho conservato alcune copie degli atti di quel convegno (Editrice Monteverde, 2003) che metto a disposizione di chi me ne vorrà fare richiesta.
E’ giunto il tempo di tornare a riflettere sull’eredità di Rocco Scotellaro. Un lascito prezioso, che in questi cinquant’anni non abbiamo valutato e compreso appieno. Si sono sedati i grandi scontri politico-culturali dominati dalle vecchie ideologie. Si sono esauriti anche i tentativi di interpretare il senso di un pensiero e di un’azione per poterli ascrivere ad una tradizione culturale anziché ad un’altra. Ma la novità più pregnante è la fine del mito della grande impresa industriale come panacea dello sviluppo: quella particolare “forma mentis” a cui si è sacrificato in questi decenni ogni criterio di equilibrio, quell’idea secondo la quale per le regioni arretrate lo sviluppo consiste nel far convergere la propria struttura produttiva verso un modello ottimale di riferimento, senza tener conto delle risorse endogene e dei legami storici, geografici e biologici che sussistono con il territorio.
E’ andata in crisi finalmente una concezione dello sviluppo come mera crescita del prodotto interno lordo e se ne va affermando un’altra che lo considera come espansione della libertà di scegliere modelli di vita cui gli esseri umani danno maggiore valore. Sempre più le donne e gli uomini del nostro tempo preferiscono misurare la qualità della propria vita in base alle libertà che si conquistano più che alla ricchezza che si acquisisce. Perciò, determinante per lo sviluppo non è il rapporto che hanno le persone con la produzione di beni, ma l’accesso più ampio possibile alla conoscenza, il conseguimento di una nuova leva di diritti fondamentali di cittadinanza che si intrecciano con quelli legati al lavoro e all’impresa: formazione continua, pari opportunità tra uomo e donna, libertà di alimentarsi secondo le proprie convinzioni etico-culturali, fruibilità delle risorse naturali e ambientali.
Non appare accettabile che siano globali produzione, scambi, tecnologie, mercati, ma non lo siano libertà, diritti, democrazia e opportunità di vita. Una contraddizione, che è emersa in modo plateale con l’attacco alle Torri Gemelle, non affatto sanabile con la guerra preventiva, ma mettendo in campo un nuovo progetto volto ad edificare istituzioni e regole capaci di governare la globalizzazione, a ridurre le disuguaglianze nell’uso delle risorse, a conciliare le diverse civiltà, a coniugare in forme nuove libertà e sicurezza.
All’agricoltura si richiedono nuove e più dense funzioni per assicurare la pace e il benessere nelle diverse aree del globo, a partire dai paesi ricchi dove è necessario adottare modelli di sviluppo sostenibili. Ecco perché oggi si parla più insistentemente di rinascita della ruralità. Con questa espressione si vuole fare riferimento a quell’esigenza vitale che sempre più viene manifestata dai cittadini di riavvicinarsi agli agricoltori e ad una cultura rurale non ridotta a folclore, ma viva e funzionale ad un’agricoltura dinamica e competitiva. Si vanno riscoprendo i valori della “memoria ritrovata”, gli usi e le tradizioni che costituiscono il grande patrimonio dei prodotti tipici e della nostra cultura alimentare che ci riportano alle radici della nostra società. E si tenta di integrare questi valori con il piacere del mangiare sano e genuino e con l’aspirazione a vivere in armonia con la natura.
Nascono così opportunità nuove per l’agricoltura nell’ambito dei processi di sviluppo del territorio rurale. Uno spazio dove si possono connettere cultura endogena, risorse ambientali e assetti produttivi specializzati, e dove l’inclusione sociale può più facilmente essere favorita all’interno delle stesse politiche di sviluppo, dal momento che il ricorso alla redistribuzione è diventato sempre più oneroso.
La valorizzazione dei saperi che costituiscono l’identità di un territorio non ha nulla a che vedere con il localismo o il rinchiudersi nelle piccole patrie, ma ha bisogno di una politica di rilevanza nazionale ed europea. Si tratta, infatti, di mettere in sinergia il mondo della produzione con le università, i centri di ricerca, le scuole, i luoghi della cultura creativa per mescolare il sapere locale con il mondo, per trasformare in prodotti e servizi le idee e le scoperte che circolano nelle reti globali del sapere e per rendere universalmente fruibili i saperi dei diversi territori.
Il rilancio di uno spazio pubblico per la conoscenza, inoltre, è la condizione per riprendere a ragionare, nelle condizioni mutate, sul rapporto tra discipline scientifiche e quelle umanistiche, per rilanciare il dialogo tra “le due culture”. Una complementarietà sempre più necessaria dal momento che la società contemporanea deve fare i conti con l’ingegneria genetica e l’uso sostenibile delle risorse naturali, che hanno crescenti implicazioni con il piano etico.
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Alla luce di quanto sta avvenendo, appare in tutta la sua evidenza l’attualità di Rocco Scotellaro: un intellettuale che considerò la civiltà contadina un valore imprescindibile per lo sviluppo e perciò, nella sua breve ma febbrile esistenza, riuscì ad indicare un metodo originale ai contadini del Mezzogiorno per essere protagonisti in una fase decisiva della loro storia.
Visse in un’Italia ancora prevalentemente agricola e caratterizzata da un forte e persistente divario tra regioni sviluppate e vicine al livello dell’Europa più progredita e regioni invece ancora ferme ad un’economia di sussistenza e di arretratezza. Un’Italia che nel ventennio fascista aveva visto regredire le proprie condizioni economiche ed era fortemente provata dalla guerra. Non a caso, nell’autunno del 1943, in contemporanea con l’epopea partigiana del Centro-Nord, le quattro giornate di Napoli e l’insurrezione di Matera, anche in molti centri rurali del Mezzogiorno esplose l’ostilità al fascismo che si era accumulata negli anni precedenti.
In un simile clima politico e sociale e appena conseguita la maturità classica, Scotellaro chiese di iscriversi al Partito socialista, di fatto organizzandolo a Tricarico e nei paesi vicini. E’ di quel periodo una breve lirica come “Lucania”, in cui già si avvertono alcuni temi, come il senso di isolamento e di frantumazione dei piccoli centri del Mezzogiorno interno, che svilupperà nei testi successivi, ma già da allora coi toni della speranza e della gioia, rappresentati dallo zirlo dei grilli, dal suono del campano al collo della capretta, dal vento dolce che sembra avvolgere il poeta di sottilissimi nastri d’argento.
Il carteggio tra Rocco Scotellaro e Tommaso Pedio tra gli anni 1943-44, che sarà pubblicato a cura di Raffaele Nigro, ci illumina sul percorso politico del poeta. La posizione di Pedio appare incerta tra l’accettazione incondizionata del programma del Psiup e un’ideologia libertaria vagamente anarchica. Quello di Scotellaro, invece, è un atteggiamento positivo nei confronti dei partiti. “Se vogliamo rappresentare… una forza minima di critica, nel partito che ci può apparire traviato da manovre ascose, ebbene entriamoci dentro a vedere con i nostri occhi, per correggere se possiamo e se qualcosa c’è che sia da correggersi e smettiamola di fare gli intellettuali d’un partito che ha bisogno anzitutto di opera ed azione”. Nigro annoterà come dalle lettere “emerge la figura di uno Scotellaro legato alla concretezza, a una progettualità politica realistica, e che alle astrattezze delle alchimie ideologiche e delle utopie privilegia il tornaconto immediato delle comunità di braccianti, contadini, artigiani, e un Pedio abbarbicato alle ragioni teoriche del marxismo”. Egli vuole migliorare le condizioni di vita dei contadini a dispetto delle idee astratte e dei grandi concetti: “Bisogna rinunziare a qualcosa – scrive in una lettera indirizzata allo storico potentino – se si vuole raggiungere uno scopo nell’interesse di quelli che tu hai sempre definito i paria e i diseredati”.
Si impegnò così in un’azione politica quotidiana, collegandosi con Vincenzo Milillo che dirigeva il partito a Matera e costruendo iniziative e movimenti a Tricarico, Irsina e Calciano. Nella primavera del 1946 fu eletto sindaco e incominciò a girare la Basilicata per partecipare a conferenze e svolgere “l’impegno gravoso di ispettore regionale per il lavoro giovanile”.
Amministrò Tricarico per quattro anni con una breve interruzione a seguito delle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Nel primo periodo lo sostenne una maggioranza che comprendeva anche repubblicani e indipendenti. L’equilibrio politico si reggeva con facilità. Era il tempo della vittoria referendaria a favore della Repubblica, della formazione dei governi di unità nazionale, della scrittura della Carta costituzionale. Anche il confronto pubblico sui problemi dell’agricoltura era improntato al dialogo.
Solo che, a differenza di quanto avveniva in altri Paesi europei, esso si concentrò sulla distribuzione della terra e sui contratti agrari e trascurò del tutto il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo economico del Paese, il progresso tecnico, l’attenzione al mercato. Questa impostazione riduttiva derivava dal fatto che i principali protagonisti dell’agone politico e sociale del tempo erano vissuti per lunghi periodi o in carcere o all’estero e davano una lettura fortemente ideologica dei problemi economici e sociali. La parola d’ordine “la terra a chi la lavora” era patrimonio sia della Democrazia cristiana che dei Partiti comunista e socialista, che interpretavano la questione agraria essenzialmente come distribuzione della terra. Solo il Partito d’Azione, con Manlio Rossi Doria, aveva una visione più ampia che metteva in relazione le modifiche dell’assetto fondiario con quelle infrastrutturali e di riequilibrio idrogeologico da finalizzare a progetti integrati di sviluppo economico.
Rileggendo un discorso tenuto dallo studioso al Teatro Stabile di Potenza nel 1947, si può constatare come egli inciti i contadini lucani ad intraprendere le loro attività con ottimismo, cercando di innovarsi sul piano della tecnica. Egli è convinto che, attraverso il progresso tecnico, si sarebbero potute creare le condizioni per un’agricoltura più equilibrata ed integrata con il territorio, anche sui terreni più difficili dal punto di vista ambientale. Ulteriori motivi di ottimismo, secondo Rossi-Doria, potevano derivare da nuove forme di organizzazione dei coltivatori e da un maggiore e incisivo intervento dello Stato, sia dal punto di vista finanziario che dell’elaborazione ed attuazione di politiche adeguate. In uno scritto dello stesso anno è sintetizzata così la sua idea di riforma agraria: “agire con interventi diversi per territori diversi con criteri tecnici, evitando astratte norme giuridiche avulse dalla realtà”.
Il compromesso politico tra le componenti di ispirazione cattolica e marxista portò soltanto alla definizione dei principi dell’azione pubblica in agricoltura, così come sono individuati nell’articolo 44 della Costituzione. Venne meno, invece, quando si passò alla traduzione legislativa di tali obiettivi, a causa delle diverse e opposte posizioni, che convivevano anche all’interno delle differenti formazioni politiche.
Il confronto divenne ancor più difficile con la divisione del mondo in blocchi contrapposti, che portò ad una divaricazione profonda anche tra le forze antifasciste del nostro Paese. Ma gli scogli maggiori derivavano dalla scarsa capacità di comprendere la realtà economica italiana e dal peso delle ideologie nell’azione politica quotidiana.
L’area cattolica pervenne rapidamente ad una composizione dei contrasti, ridimensionando le ipotesi di riforma agraria e puntando ad obiettivi più realistici: riattivare la bonifica, istituire la Cassa per la formazione della proprietà contadina, definire tre interventi territorialmente circoscritti di riforma (Sila, Sicilia, e poche aree nella parte restante del Paese), avviare una serie di interventi per la montagna e prorogare la durata dei contratti agrari.
La sinistra, invece, non seppe tradurre gli obiettivi generali contenuti nella Carta Costituzionale in una piattaforma realistica e si avvitò in un dibattito inconcludente su quali figure sociali privilegiare, senza riuscire ad individuare le specifiche ed autonome esigenze del coltivatore produttore per il mercato. Un ritardo nel comprendere i diversi interessi in gioco che derivava dalle rigidità della dottrina marxista e leninista e che la condusse a compiere una sfilza di errori. Il primo riguardò le forme organizzative.
Mentre nell’area cattolica si dette vita alla Coldiretti, conferendo ai coltivatori pari dignità rispetto alle altre categorie, la sinistra lasciò convivere nella Confederterra, risorta dalle ceneri della vecchia Federterra, tutte le figure sociali delle campagne. Tale scelta sbagliata arrecò un vantaggio enorme all’organizzazione di Bonomi, che si radicò nelle zone rurali in modo diffuso. E ciò non va considerata una causa trascurabile della vittoria della Dc alle elezioni del 18 aprile 1948.
Anche in Basilicata il consenso si spostò verso il centro e la destra. A Tricarico la sconfitta elettorale della sinistra provocò la crisi politica al Comune, con la fuoriuscita dalla maggioranza dei repubblicani e degli indipendenti, e Rocco si dimise. Ma a novembre si tornò a votare e venne rieletto sindaco.
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Rocco conservava il consenso per la sua particolare concezione della civiltà contadina. Non un mito o un’ideologia, ma una cultura reale, viva nel tempo e nella storia, con cui egli si confrontava quotidianamente, fatta di valori essenziali, come il senso profondo dei legami familiari, la coscienza della vita e della morte, del destino e della condizione umana, della felicità e della saggezza. Ma soprattutto valorizzava quella capacità autonoma che manifestano i contadini di elaborare i valori del proprio mondo per riscattarsi dalle condizioni di subalternità ed oppressione. Nel suo bel libro “Lettera a Carlo Levi”, Giovanni Russo osserverà che, soprattutto nel sodalizio con Scotellaro, Levi teorizzò la civiltà contadina non più soltanto come mito della memoria, ma anche come fattore politico, realtà in movimento.
E’ emblematica una poesia di Rocco, in cui si richiamano la storia delle rivolte contadine finite tragicamente, come il brigantaggio post-unitario, e la speranza di un futuro migliore con accenti così vibranti da spingere Carlo Levi a lodarla come la “Marsigliese contadina”: “Spuntano ai pali ancora/ le teste dei briganti…/ Ma nei sentieri non si torna indietro./ Altre ali fuggiranno/ dalle paglie della cova/ perché lungo il perire dei tempi/ l’alba è nuova, è nuova”. Rileggendo questi versi possiamo più facilmente comprendere il carattere del coinvolgimento delle masse contadine nei fenomeni delle insorgenze e del brigantaggio. Rocco pone in relazione tali episodi con l’aspirazione dei contadini al cambiamento, all’avanzamento delle condizioni della società. Egli ci mette in guardia dal dare credito all’immagine mitizzata dei contadini che usando la violenza cieca e bruta si oppongono al progresso. Questa rappresentazione era stata costruita ad arte per nascondere l’incapacità o l’indisponibilità della borghesia illuminata di integrare l’insieme del mondo rurale nelle pubbliche istituzioni. Mettendo in luce la volontà autonoma dei contadini di cambiare la propria condizione e, così facendo, di contribuire coscientemente al mutamento e alla crescita sociale, Scotellaro confuta clamorosamente l’inconsistenza del marchio infamante di massa reazionaria e distruttrice delle idee di progresso, con cui essi erano stati e continuavano ad essere bollati da parte di chi li aveva sempre dominati o pretendeva di guidarli.
Rocco sa, dunque, cogliere nella “civiltà contadina” i valori dell’autonomia, della libertà dell’individuo, dell’intangibilità della persona umana e li pone al centro della sua azione politica. Egli, quindi, non aderisce né allo schema secondo il quale il riscatto del Mezzogiorno è perseguibile solo nel quadro di un’alleanza dei contadini con la classe operaia e di un loro assoggettamento alla sua direzione, né all’altro che individua nella borghesia intellettuale la forza capace di coalizzare e dirigere i ceti popolari. E’ convinto viceversa che il Mezzogiorno ha al proprio interno le energie capaci di determinare la sua rinascita e che la partecipazione diretta dei contadini alle iniziative volte ad espandere le occasioni di lavoro, i servizi sociali, la crescita culturale è la condizione per favorire lo sviluppo. Qui l’originalità del suo metodo politico e culturale, che assicura il consenso della popolazione alla sua iniziativa e permette ai contadini di considerare il poeta uno di loro, nonostante egli fosse figlio di un ciabattino e di una sarta e non provenisse direttamente dal loro mondo.
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Rieletto sindaco, Rocco si impegnò con maggiore impeto nel portare avanti l’esperienza partecipativa intorno all’Ospedale civile di Tricarico, frutto di una vasta mobilitazione popolare da lui suscitata due anni prima. Si trattava di una grande opera fortemente voluta dai contadini come un segno visibile e concreto del progresso in una comunità ancora per tanti aspetti ai margini di esso. Rocco aveva dato vita ad un Comitato promotore che avrebbe raccolto i fondi e gestito per alcuni anni l’Ospedale. Favorì l’iniziativa anche l’anziano e prestigioso Raffaello Delle Nocche, vescovo di Tricarico. Dalla capitale non mancò di assicurare il suo appoggio il Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, che in una lettera al sindaco ebbe a sottolineare la “sua considerazione per la terra della Lucania che diede i natali al filosofo Tito Lucrezio Caro (sic!)”. Ma l’opera si realizzò soprattutto per la lunga e appassionata campagna di sensibilizzazione condotta da Scotellaro e si consolidò per l’originale ed efficace modello di gestione adottato, su cui avrebbe raccolto una vasta documentazione e numerose testimonianze Rocco Mazzarone.
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Il poeta si dedicò anche alla costruzione del movimento meridionalista. Fu eletto membro del Comitato regionale lucano delle Assise per la Rinascita del Mezzogiorno e nell’autunno del 1949 partecipò all’occupazione dei feudi di Policoro. “E’ fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi/ con i panni e le scarpe e le facce che avevamo”. Dirigente e novello rapsodo dell’epopea contadina, esprime in questi versi l’entusiasmo di un mondo a cui si riconosce finalmente un posto nella storia.
Per la prima volta, la mobilitazione per la terra, pur conservando l’antica ritualità – intere famiglie in “nero” che si incamminavano di notte, tra tamburi, bandiere e campane che suonavano a stormo, verso le terre da occupare – non aveva un carattere ribellistico e insurrezionale, né era diretta in modo strumentale da altri ceti e poteri dominanti, ma si svolgeva sul terreno democratico della tutela legale di diritti costituzionalmente garantiti. E’ per questo che gli eccidi di contadini a Portella della Ginestra, a Melissa e a Montescaglioso furono avvertiti dalla coscienza civile dell’intero Paese come insopportabili mostruosità. Una lirica di Rocco, pervasa da anelito religioso, trasfigura il giovane Giuseppe Novello caduto a Montescaglioso in un nocchiero che guida la nave del suo paese verso un nuovo giorno: “Cammina il paese tra le nubi, cammina/ sulla strada dove un uomo si è piantato al timone/ all’alba quando rimonta sui rami/ la foglia perenne in primavera”.
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Le lotte per la terra costrinsero il governo ad agire. A distanza di pochi mesi – tra il maggio e il dicembre 1950 – il Parlamento approvò i provvedimenti di riforma agraria. Ma la sinistra, che pure aveva guidato politicamente la protesta, non seppe approfittarne e commise l’errore di votare contro queste leggi. Non comprese la portata dei provvedimenti, che avrebbero arrecato modifiche profonde all’intera struttura produttiva nazionale. Pesarono anche in tale occasione le rigidità ideologiche e la scarsa attitudine a leggere i dati della realtà.
Non solo si disconoscevano così facendo i risultati di lotte condotte prevalentemente dal movimento democratico, costate sacrifici enormi e perdite di vite umane negli scontri con la polizia, ma si pregiudicava irrimediabilmente la stessa possibilità di gestire le conquiste, organizzando in forme autonome gli assegnatari. Sicché il processo di formazione di un nuovo ceto proprietario nelle campagne, cioè di imprenditori agricoli professionalmente capaci, venne gestito da una parte politica contro l’altra e non determinò un rafforzamento dei vincoli di appartenenza alla nazione che aveva mobilitato le risorse per le operazioni di riforma.
L’accesso alla terra è storicamente alla base delle democrazie dell’Occidente: dalla rivoluzione americana a quella francese e poi negli altri paesi europei, la proprietà coltivatrice e l’ordinamento repubblicano sono state le due facce della stessa identità nazionale. Ma nel caso italiano l’accesso alla terra non ha avuto l’effetto di rinvigorire e stabilizzare il processo di crescita dell’identità nazionale. Riflettendo sugli errori commessi in quegli anni, le personalità più avvedute della sinistra avvieranno, tra enormi contrasti, un lungo e travagliato percorso politico e organizzativo per guadagnare le posizioni perdute. Bisognerà attendere il 1977, quando la Cgil finalmente prenderà atto della decisione della Federmezzadri di dar vita con l’Alleanza e l’Uci alla Confcoltivatori e si riconoscerà anche da parte della sinistra l’autonoma capacità degli agricoltori di autorappresentarsi.
Dunque, la nascita della Confcoltivatori – che assumerà successivamente la denominazione definitiva di Confederazione italiana agricoltori – va considerata nella storia dell’Italia repubblicana come un contributo, tardivo ma non per questo meno pregnante, al rafforzamento della democrazia italiana e una condizione nuova perché i valori della cultura rurale – al riparo dalle contrapposizioni ideologiche – potessero arricchire l’identità nazionale. E ciò va ascritto a merito delle personalità che si impegnarono nel promuovere quell’evento, a partire da Giuseppe Avolio.
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Rocco Scotellaro mostrò una sensibilità non comune nell’avvertire per tempo i limiti di un’azione politica fortemente condizionata dal muro contro muro e da una insufficiente elaborazione teorica nella sinistra sui temi dell’agricoltura e, in generale, su quelli dello sviluppo.
Quando venne arrestato, a seguito di una calunnia diffusa dalla parte politica avversa e di un’inchiesta della magistratura in parte complice, e poi prosciolto con la dichiarazione della sua assoluta innocenza e l’ammissione del motivo politico e non giudiziario del procedimento, Rocco decise di lasciare la carica di sindaco e l’impegno politico diretto.
Nel subire l’onta dell’accusa di peculato, della persecuzione politica e della carcerazione preventiva, percepì l’ostilità persistente delle istituzioni che aveva ritenuto di servire a favore dei contadini. Egli, che aveva imperniato la sua azione sulla puntigliosa regolarità democratica di un’operosa amministrazione comunale e sulla diretta partecipazione dei contadini nella condotta sia delle vicende amministrative, che delle questioni essenziali della loro esistenza, ossia dei problemi della terra, dovette prendere atto che non era sufficiente avere il consenso della maggioranza degli elettori per poter soddisfare l’interesse generale. “Noi siamo – dirà più tardi – degli acini maturi, ma piccoli in un grappolo di uva puttanella”. Ed un altro rovello aveva preso a tormentarlo che andava al cuore della stessa azione politica per il Mezzogiorno, se annoterà tra gli appunti per un comizio: “Dominata dalla dottrina dell’unità operai-contadini e da quella dello Stato benefico e paterno, la polemica meridionalista, cessata e abbandonata con la scomparsa del Partito d’Azione, è invece una via da battere”.
Con estremo realismo, Rocco comprese che la battaglia per affermare i valori e i diritti dei contadini nella società non si poteva vincere con lo scontro frontale. Andavano, invece, creati strumenti culturali nuovi per calibrare meglio gli obiettivi politici rispetto alla realtà socio-economica ed ai rapporti di forza nella società.
Scelse così di impegnarsi nella tutela degli interessi del mondo che aveva rappresentato fino a quel momento andando a studiare economia agraria con Manlio Rossi-Doria a Portici e preparando per l’editore Vito Laterza un libro sulla cultura dei contadini del Sud. Nel formarsi come scienziato sociale, partecipò al lavoro di un gruppo di giovani studiosi italiani e stranieri che compivano ricerche importanti e di impianto nuovo sulla realtà del Mezzogiorno.
Partendo dal presupposto che “i contadini dell’Italia Meridionale – come egli scrive in un appunto inviato all’editore barese – formano ancora oggi il gruppo sociale più omogeneo ed antico per le condizioni di esistenza, per i rapporti economici e sociali, per la generale concezione del mondo e della vita”, e che tuttavia “la cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista”, Rocco Scotellaro elaborò un metodo di indagine, fondato sull’intervista e sul racconto autobiografico, per ricostruire – come è precisato in una lettera a Ruggero Grieco – “la storia delle lotte, delle speranze e delle aspirazioni dei contadini”.
Individuato tale schema, si dedicò contestualmente alla stesura del romanzo autobiografico “L’uva puttanella” e di “Contadini del Sud”, una inchiesta sulla ricchezza della civiltà contadina ritratta mediante episodi, personaggi, tradizioni dei differenti comprensori del Mezzogiorno. Ma a causa della morte improvvisa, entrambe le opere rimasero incompiute. Esse colpiscono per l’originalità del metodo adottato, che sta nel non facile tentativo di integrare tanti e diversi approcci possibili: quelli dell’economista, del geografo economico e sociale, del sociologo e dell’antropologo culturale, così come quello del politico e dell’organizzatore di movimenti sociali. Si colloca, perciò, nel solco di una lunga e prestigiosa tradizione del pensiero economico-agrario, definito sistemico, che affronta i problemi dell’agricoltura tenendo conto delle diverse realtà locali, a cui si devono applicare politiche specifiche, al fine di valorizzare le risorse umane e ambientali endogene. Entrano, altresì, a far parte di quella letteratura sul Mezzogiorno, sensibile al fattore umano dello sviluppo, che si è occupata della civiltà contadina per fare in modo che i processi di modernizzazione si potessero affrontare senza laceranti trapassi culturali.
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Quelle ricerche saranno duramente osteggiate dalla cultura dominante. Agli spiriti progressisti ed al positivismo economicistico, la civiltà contadina apparirà come un oscuro relitto del passato, una barriera insormontabile alla crescita del sistema economico ed al processo di modernizzazione. Come vuole l’ottimismo storicistico di stampo sia idealistico che marxista, lo sviluppo economico è distruzione cieca, quasi euforica, del passato. Ad esso va sacrificata ogni verifica critica delle compatibilità ambientali e dei valori culturali e identitari da salvaguardare e rielaborare. E così, pur con giudizi diversi, Rossi-Doria, Levi, Scotellaro, Ceriani-Sebregondi e Dolci saranno indicati come portatori di una posizione conservatrice, se non proprio reazionaria.
Si sancirà il declino irreversibile della civiltà contadina e si punterà, con la politica dell’intervento straordinario, principalmente sull’incentivazione degli investimenti esterni. Ma saranno spesso scelte industriali sbagliate o, peggio, vere e proprie azioni di sciacallaggio imprenditoriale, mirate alla mera acquisizione degli incentivi. All’agricoltura non sarà mai rivolta un’attenzione adeguata, riservandole interventi settoriali scollegati dalla politica economica più complessiva e lasciando sostanzialmente soli gli agricoltori nel loro sforzo di crescere sul piano imprenditoriale e qualificare il sistema agricolo del Paese tra i primi posti in Europa.
Nonostante questi limiti, il Mezzogiorno è profondamente cambiato. Si vanno finalmente abbandonando atteggiamenti vittimistici e rivendicazionistici. Molti giovani mostrano una propensione a rimanere in agricoltura come imprenditori. Non è più diffuso l’atteggiamento di attesa di interventi “speciali” dall’alto, ma si sono attivati strumenti partecipativi per promuovere una progettualità condivisa e cogliere le opportunità derivanti da politiche nazionali ed europee orientate all’innovazione, alla ricerca, alla formazione e alle infrastrutture.
Con l’avvento della società della conoscenza e l’importanza assunta dalla dimensione territoriale dello sviluppo, la riscoperta dei valori della civiltà contadina diventa una condizione ineludibile per costruire, senza banalizzazioni e approcci approssimativi, quella nuova ruralità di cui i cittadini dei paesi sviluppati avvertono un bisogno impellente.
Rocco Scotellaro aveva già tracciato il percorso e avviato l’immensa opera di recupero. Aveva compreso il valore del capitale umano nei processi di sviluppo, l’esigenza di puntare sulla capacità autonoma delle forze del Mezzogiorno di determinare condizioni di sviluppo, l’importanza dei legami sociali, della particolare concezione del mondo, dell’attività delle persone e dei rapporti di produzione precapitalistici, come la colonìa parziaria, per comprendere le dinamiche di quelle geocomunità che oggi definiamo “distretti agroalimentari e rurali” e che egli si era già apprestato ad indagare.
Il suo lascito va ora ripreso e riposto come lievito nei programmi culturali volti a valorizzare le risorse legate alle diverse forme del sapere, a tutelare le produzioni artistiche, a educare alla creatività e a ridisegnare il profilo dei territori, la memoria sociale e le vocazioni di sviluppo delle comunità. Come già aveva intuito cinquant’anni fa il “poeta della libertà contadina” si fa finalmente strada il convincimento che dare dignità alle diverse culture, farle dialogare, puntare sull’istruzione, la formazione e la ricerca per fare in modo che le persone e le comunità possano edificare il proprio futuro direttamente costituiscono l’investimento più sicuro e fruttuoso di ogni politica di sviluppo, la premessa inderogabile di ogni intervento di sviluppo, perché sviluppo è libertà.
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