Saperi

Solo a una stella

Narrazioni. Le donne, mai considerate più di tanto. Per me è sempre valsa l’equazione donne uguale sesso. Di amore neppure l’ombra. Neanche nella mia famiglia avevo visto amore tra i miei genitori

Mariapia Frigerio

Solo a una stella

Non so neppure io perché lo avessi deciso. Ricordo però benissimo la mattina in cui mi svegliai con quell’idea in testa. La ricordo perfettamente.

Rivedo la scena. Luiza-Gabriela che entra col caffè e io nel grande letto che mi stiro e mi ripeto: «Solo a una stella».

Ero stato un ragazzo ricco. Corteggiatissimo. Che dico? Pieno di donne. Poi ero diventato un uomo ancora più ricco e non solo per i soldi di mio padre.

Il mio primo lavoro in una importante società di Milano.

Bocconiano, laureato a pieni voti, non avevo che la scelta. Inimmaginabile oggi. Ma a trentacinque anni già la grande decisione. Trasferirmi in Toscana.

Mi ero trovato una villa a Pedona, sopra Camaiore.

La guardavo fin da quando venivo in vacanza in quella dei miei al Forte. Da Roma Imperiale con la mia prima BMW, capelli lunghi al vento, respiravo un’aria di libertà mentre percorrevo veloce il viale Morin, poi tutto il viale Apua fino a Pietrasanta da dove imboccavo la Sarzanese. Deviavo infine per Camaiore. E là, in alto, Pedona. Uno spettacolo unico.

La casa era grande, di pietra, con molte finestre. Io fermavo la moto e la guardavo. Poi ridiscendevo e avevo il mare sulla sinistra.

Immaginavo che da quella abitazione mi sarei potuto godere la vista del mare fin dal primo mattino. Semplicemente affacciandomi.

Avevo firmato il contratto d’acquisto lo stesso giorno in cui avevo firmato quello di Amministratore Unico della Masini S.p.A.

Le barche. Altro sogno che si avverava. Lavorare per un cantiere navale di quell’importanza.

Fino a quel momento il mio rapporto con le imbarcazioni era stato solo di acquirente.

Come di donne, anche di barche ne avevo avute di tutti i tipi, da quelle da regata per finire con un gozzo.

Poi avevo chiuso con le une e con le altre.

Nel senso che mi ero stancato di essere proprietario di quei mezzi costosi. Costosi in tempo e in denaro. Mi accontentavo di fare qualche giro su quelle di amici. Ma molto di rado. Perché sono uno che, se chiude, chiude definitivamente.

E, riguardo alle donne, a cinquant’anni ci sono ancora certe esigenze, d’accordo, ma senza né l’emozione né la forza degli anni precedenti.

Da quando me ne sto a Pedona non ho più voluto, in ogni caso, una donna in casa con me.

Le donne… Mai considerate più di tanto.

Per me è sempre valsa l’equazione donne uguale sesso.

Di amore neppure l’ombra.

Neanche nella mia famiglia avevo visto amore tra i miei genitori. Mio padre, come molti uomini del suo livello, non si era mai fatto mancare nulla. Ma signorilmente, come la sua posizione di giurista di fama gli imponeva.

Mia madre non so. Quello che so e che non sopportavo in lei era quella sua superiorità. Su tutto. Sentimenti compresi. La gelosia! Da plebei… Usava proprio questi termini in epoche ancora lontane dal politically correct. Mandando comunque fuori dai gangheri anche mio padre.

Così, quando si apprestava a uscire, la sentivo dire alla donna di turno: «Mi do una sistemata alle corna e vado. Prepari per l’una e trenta».

Trovavo insopportabile quel suo tono da milanese disinibita. Forse pensava di essere spiritosa. A me lasciava addosso un senso di estrema sgradevolezza.

Se non fosse per il lavoro trascorrerei qui a Pedona il mio tempo in totale solitudine.

Tante stanze, tanto spazio per un uomo solo e senza programmi di mettere in piedi una famiglia.

Ma questa solitudine mi appaga. Camminare attraverso queste stanze, anche.

Poi ascoltare la musica, sistemare i libri, guardare l’infinità di quadri alle pareti.

È talmente grande questa casa che cammino più al suo interno che non fuori.

Quando Luiza-Gabriela venne da me aveva poco più di vent’anni. Me l’aveva raccomandata un impiegato della Masini.

«Fidata, dottore. Fidatissima. Poi grande lavoratrice, ottima cuoca e anche con una certa cultura. Sa, in Romania, aveva già terminato le scuole superiori».

La cultura sarebbe stata il punto dolente tra noi. In questi nostri quindici anni insieme. Per il resto sono ancora grato a chi me la consigliò.

Le diedi da subito due grandi stanze con bagno e cucina. Insomma un piccolo appartamento all’interno di questa enorme casa. E la possibilità di avere un ingresso privato, visto che una camera si apre direttamente sul giardino. Poi due giorni la settimana completamente liberi, ma in modo elastico, a seconda delle mie esigenze di lavoro.

Credo che tutto sommato non si possa lamentare visto che a tutto questo si aggiunge un discreto stipendio.

Di sposarsi, però, non ne parla. Del resto so benissimo che riceve uomini nelle sue stanze. Molto discreta, comunque, e soprattutto attenta a chi fa entrare.

Non parla mai di sposarsi perché il suo marito ideale so benissimo di essere io. E per certi aspetti usa con me atteggiamenti da moglie.

Non tralascia di dirmi il suo parere sugli acquisti che faccio, sulla disposizione dei mobili, sui libri da leggere. Poi mi riempie la casa di fiori. Insomma in tutto e per tutto un’ottima moglie.

Per giunta anche di gradevole aspetto. Gambe forse un po’ troppo secche, ma busto imponente.

Ci sono, però, dei comandamenti che ci vengono dati in famiglia e che si imprimono in noi più di quanto si impressero quelli di Dio sulle tavole di Mosè.

Mio padre diceva che non c’è cosa peggiore che andare con una donna di livello inferiore. Peggio del peggio se una nostra diretta dipendente. Lui, uomo libero da ogni punto di vista, rifiutava gli amori ancillari.

«Roba da Ottocento! Basso sfruttamento! Una donna deve essere alla pari… almeno a letto».

Sarà per questo, sarà per timore di mettermi in qualche casino, sarà – soprattutto – per amore della mia libertà, che io con Luiza-Gabriela non ci sono mai stato.

A volte, quando stranamente mi sento solo o, banalmente, in preda al desiderio, penso di scendere a chiamarla. Ma fortunatamente finora mi sono trattenuto.

Lei comunque non demorde e nei modi più subdoli che una donna sappia usare, intendo quelli travestiti da interesse per te, da entusiasmo verso qualunque cazzata tu dica, mi girottola sempre intorno, è piena di premure.

Ma non m’incanta. E forse è proprio per lei e, ovviamente, per la famosa equazione donne-sesso che in quella mattina presi la decisione: «Solo a una stella».

La prima volta fu con Allegra. L’avevo ritrovata a Milano. Avevamo cenato insieme. Il tempo a tavola era stato solo un racconto delle sue estati tra il Forte e Porto Cervo e dei suoi inverni a Cortina. Vedevo come mi guardava. So di piacere alle donne. Ma quella sera me ne tornai ugualmente a dormire nel mio studio a Brera. Da solo. Le proposi, però, di venire con me in Toscana, il sabato.

Accettò, naturalmente.

«Ma domenica devo rientrare. Lunedì lavoro. Prenoterò un volo da Pisa».

E cosa ci viene a fare una donna per una sola notte da Milano in Toscana? Credeva la cretina che l’avrei portata a Pedona?

Prima di passarla a prendere nel pomeriggio, prenotai l’Hotel Sauro di Viareggio. Mi informai se le camere avessero o meno il bagno.

«Tutte con bagno» mi rispose un po’ seccato il proprietario.

«Peccato» pensai tra me e me.

Il viaggio fu noioso. Nulla di più faticoso che avere a fianco una donna che vuole parlare e che tu non vuoi ascoltare. Cenammo in un bel ristorante. Di nuovo noia mortale. Avevo comunque una maledetta voglia di lei, ma di più di vedere la sua reazione di fronte all’alberghetto che mi ero un po’ sadicamente imposto di adoperare per quella occasione.

Quando dal lungomare girammo in via Vespucci e mi fermai davanti all’insegna al neon a una sola stella vidi il suo sguardo perplesso.

Entrai disinvolto nello stretto corridoio. Chiesi la chiave. Poi attraversammo la sala da pranzo con le tovaglie azzurre ricoperte di plastica trasparente. Era allibita.

Salimmo al primo piano ed entrammo nella stanza.

Mi spogliai rapidamente e mi misi sul letto.

Lei intanto si era levata quegli strettissimi pantaloni e si guardava intorno senza sapere dove appoggiarli.

Del resto l’unica sedia disponibile l’avevo occupata io con i miei abiti.

Lo stesso quando si tolse il maglione di cashemere.

Era bella. Un corpo perfetto. Rimase con dei ridottissimi slip e un reggipetto che le aumentava il volume del seno.

Poi si levò anche la biancheria.

Ero eccitatissimo. La desideravo. Pensavo a come… Nello stesso tempo ne ero infastidito. Ma il desiderio superava il fastidio.

Me la trovai addosso.

Quando tutto fu finito mi venne accanto. Che voleva? Tenerezza? O cercare di rifarlo?

Sia chiaro. Sui trenta-quarant’anni una volta sola non mi bastava. Ora una volta mi è più che sufficiente.

Avrei pagato non so cosa per levarmela dai piedi e dormire.

Niente. Lei mi stava appiccicata. La strinsi svogliatamente.

Nessuna donna riesce a capire che per me scopare è una semplice esigenza fisiologica. Che non m’innamoro mai.

La cosa più patetica è vedere la loro totale disponibilità – come in Allegra – a soddisfare il mio piacere fisico. Qualunque cosa chieda mi dicono sempre di sì. Credono col sesso di sedurmi…

Finalmente si addormentò. Io continuai a guardare il soffitto.

Poi non ce la feci più. La sua vicinanza mi era insopportabile.

Mi alzai. In silenzio mi rivestii e scesi.

Trovai il padrone del Sauro appisolato su una delle due poltrone della zona bar.

Lo svegliai e gli chiesi il conto.

«E la signora?».

«Dorme. Le pago anche la sua prima colazione».

Sapevo benissimo che mai l’avrebbe fatta da sola in un luogo simile.

Risalii in auto e tornai a Pedona.

Il mattino dopo trovai un suo sms: «Non ti credevo così stronzo. Non mi cercare più».

E chi l’avrebbe mai ricercata? Ovviamente non le risposi.

La seconda volta fu con la Ginevra Scurati Manzoni. Eravamo entrambi per lavoro a Firenze. La invitai da me. Partimmo la sera stessa dopocena. Lei pensava di essere mia ospite a Pedona. Pensava che l’avremmo fatto nella mia casa di Pedona… Pazza!

Quella volta avevo prenotato I 4 cuori. Sempre a Viareggio.

Giungemmo in via Leonardo da Vinci verso le 23 e 30. L’albergatore disperava ormai del mio arrivo.

Lo vidi guardare ammirato la tipa che mi portavo appresso. Il luogo era squallido al punto giusto.

Mobili ricoperti di fiori finti, palladiana dall’ingresso alla sala da pranzo con seggiole di plastica simil legno, orrendi arazzi alle pareti.

Ginevra fu più loquace di Allegra.

«Ma che posto è? Non dicevi di avere una villa sulle colline sopra Camaiore?».

«Ma dai, che sei una donna di mondo! Qui andrà benissimo. Non mi dirai poi che vieni con me per una casa?».

Le donne accettavano tutto da me e questo mi allontanava sempre di più da loro. Eccetto farne l’uso che si sa.

Si diede molto da fare Ginevra. Grande maestra. Nulla da dire. Ma dopo? La solita nausea.

Volevo disperatamente il mio letto dove dormire solo.

Le riservai così lo stesso trattamento di Allegra.

Lei, più a sangue freddo dell’altra, non mi degnò nemmeno di un sms.

Fu poi la volta del Camargue, in via Buonarroti.

Quando vi entrai con Gail fui felice. L’ingressino era occupato da un osceno acquario. La stanza aveva mobili di compensato, letto matrimoniale con Madonna sopra la testata e altro letto a una piazza accanto.

La mia miliardaria ebrea fu – devo ammettere – molto spiritosa.

In quanto a puttana non lo era meno delle altre, ma, almeno, lo facemmo ridendo.

Quella volta passai la notte intera con lei. Non per amore, ovvio, ma perché fra la nostra attività fisica e le risate ero veramente stanco.

Il mattino dopo, prima di salutarci, facemmo colazione in passeggiata.

Gail aveva comunque insistito per farla al Camargue, nel microscopico cortile con pretesa di giardino dalle seggiole di plastica e mega ombrellone.

L’ultimo incontro a una stella fu al Frenzy di Massarosa. Ero sempre stato attratto da quel nome hitchcockiano. Immaginavo che prima o poi avrei letto sui giornali locali di qualche fatto di sangue consumato in una di quelle stanze.

Ci andai con Albertina, la torinese. L’avevo conosciuta andando in Corsica sullo «Smania» di un cliente della Masini. Una statua: lì distesa a prua del grosso cabinato. Di poche parole, sempre sulle sue. Ma che era una che ci stava l’avevo capito subito.

Arrivammo all’albergo di pomeriggio.

Rimase sconcertata dal posto. Quando poi salimmo in camera con moquette di gusto orrendo e tremendi copriletti a fiori, iniziò col muso.

Ripensai con nostalgia a Gail… Altro che musi! Ci saremmo fatti delle matte risate.

D’altronde il mio scopo era uno e non avevo nessuna intenzione di rinunciarvi. Le dissi allora quelle due o tre cose che alle donne fanno piacere e poi… poi non ci sarebbero volute le scale di seta neppure con lei!

Bastarono infatti due o tre carezze un po’ più spinte perché lei tracimasse completamente.

E in quanto a essere stronzi con lei lo fui totalmente quando la costrinsi a prendere un taxi per andarsene, mentre io me ne ritornavo a Pedona chiedendomi, lungo la strada, da chi avessi sentito l’espressione con la tale non ci vogliono le scale di seta. Dal vecchio giardiniere del Forte o dall’aiuto bagnino del bagno Costanza?

Dopo le mie avventure a una stella, ripresi la mia vita solitaria. Non cercai più donne. Non ne sentivo il bisogno.

Una sera, però, dopo aver cenato in casa, mi sentii tremendamente solo. Per la prima volta nella mia vita la solitudine mi pesava. Salii in macchina e pensai di andare a bere qualcosa al Forte. Poi decisi che mi sarei fermato a Marina di Pietrasanta, al caffè Rosita. Del resto non ero in cerca di avventure. Semplicemente sentivo la necessità di stare in mezzo alla gente. Di vedere qualcuno.

La mia scelta non fu delle migliori. Quando vi giunsi verso le 22 il caffè stava infatti chiudendo. La stagione estiva con i suoi orari allungati era ancora lontana.

Mi informai dalla cameriera che mi venne incontro se era ancora possibile entrare.

«Se non la disturba vedere fare le pulizie si accomodi pure» mi disse indicandomi un tavolo.

Mi sedetti e ordinai un baby.

Intanto mi guardavo in giro. Ero l’unico avventore. Se non fosse stato per l’ora avrei telefonato ad Amin per venirmi a fare compagnia.

Ma a quell’ora era sicuramente già a letto con sua moglie. Forse stava facendo l’amore. Lui… lui faceva l’amore.

Con Amin ero stato spesso in viaggio di lavoro nei paesi arabi. Era un operaio specializzato della Masini. Il suo aiuto mi era indispensabile anche come interprete.

Aveva poco più di trent’anni, ma una calma e una filosofia di vita che mi affascinavano.

Devo dire che tra le tante persone che conoscevo era solo con lui, negli ultimi anni, che mi trovavo bene.

Parlavamo anche di donne quando eravamo insieme. Due concezioni opposte le nostre. Le mie da misogino incallito. Le sue da uomo che ne subiva il fascino.

Un fascino che non aveva niente a che vedere con l’attrazione che proviamo noi occidentali per loro.

Innanzitutto la diversa visione estetica. Per noi devono essere alte, slanciate, toniche. Senza pancia. Fianchi stretti.

Lui mi spiegava la bellezza delle curve.

«Beh, se è per questo anche noi siamo attratti dai seni».

«No, no» puntualizzava «a voi piacciono quei siluri veri o finti che hanno davanti. Non sono queste le curve che intendo. Sono i fianchi morbidi, le pance morbide, le cosce morbide, i seni morbidi. È la morbidezza che per noi conta in una donna. Una morbidezza esteriore che corrisponda a una morbidezza interiore. Amiamo le donne accoglienti. Senza contare che per voi l’altezza è importante. Non dite forse “altezza metà bellezza”? Per noi piuttosto i capelli che, non a caso, le nostre donne nascondono. Un’arma di seduzione formidabile. E la voce? Chi di voi dà importanza alla voce?».

Pensai rapidamente alle voci metalliche – più o meno col birignao – delle ricche che sempre mi avevano circondato. E subito alla volgarità e ai toni troppo alti di quelle locali. Mai avevo pensato all’importanza della voce.

«Ci vuole la voce, il tono giusto per dire certe cose… per parlare d’amore».

Poi mi diceva di una impiegata della Masini non più giovanissima, l’unica che lui guardava perché, col sopraggiungere dell’estate, aveva una camicetta che lasciava intravvedere, dal giromanica, un seno non più perfetto – forse anche un po’ cadente – ma molto attraente.

«Non come le altre che, con i loro pochi o tanti anni, cercano di adeguarsi ai vostri ideali. Sempre fasciate in abiti troppo stretti».

Non la pensavo come lui, ma mi piaceva sentirlo parlare così.

E mi piaceva anche l’idea che fosse fedele a sua moglie.

A volte lo stuzzicavo. «Dai, Amin, non mi dire che con tutte quelle che si vedono in estate da noi tu non abbia mai pensato di tradirla. Almeno col pensiero».

«Non cerchi la felicità altrove se già ce l’hai in casa».

E lo diceva, come sempre, con grande pacatezza. Soprattutto convinto.

In ogni caso quella sera avrei dovuto fare a meno di lui.

La cameriera ritornò da me chiedendomi se desiderassi altro. Capii che avevano fretta di chiudere. Le dissi di no e le chiesi il conto.

«Mi dispiace molto, mi creda, ma il proprietario… ».

Ritornò quasi subito con lo scontrino. Pagai.

«Il resto è per lei» aggiunsi distrattamente.

«È gentile visto che l’accoglienza non è stata delle migliori. Comunque può venire prima la prossima volta. Se le può interessare serviamo anche dei piatti caldi».

Notai il suo sorriso e il garbo della voce con cui mi aveva dato quell’ultima informazione.

Poi presi la mia giacca e uscii.

Non so dire il perché, ma la sera successiva tornai al Rosita.

E anche la sera dopo. E quella dopo ancora.

E ci tornai per cenare.

Mangiai degli orribili tordelli riscaldati nel microonde. Per tre sere di seguito.

«Perché non prova i nostri spaghetti allo scoglio la prossima volta?» mi chiese Stella la terza sera.

Avevo saputo il suo nome sentendola chiamare dagli altri tavoli. Ma l’ultimo dei miei pensieri, in quelle sere, era per il cibo.

Senza rendermene conto andavo al Rosita per lei. La guardavo girare tra i tavoli. Mi piaceva vedere come si muoveva, come si rivolgeva ai clienti, come sorrideva. Ma se avessi dovuto descriverla non avrei saputo da che parte cominciare. Non la guardavo con gli stessi occhi con cui avevo sempre guardato le altre donne. La guardavo senza vederla, ma con la strana, piacevolissima sensazione di essere accolto da lei in un’atmosfera calda e rasserenante.

Il quarto giorno andai al Rosita per un aperitivo. Non ce la facevo ad aspettare l’ora di cena.

Fu solo allora che mi accorsi dell’attrazione che il suo fisico suscitava in me.

Nulla a che vedere con quello delle altre. Sui jeans bassi i fianchi si adagiavano comodamente. Nessuna delle mie amiche avrebbe indossato simili pantaloni se non fosse stata asciutta come un’acciuga.

Poi una pancia lievemente sporgente, un po’ di stomaco, un petto morbido… Ecco cosa mi attraeva in lei! La morbidezza delle forme e quel suo muoversi in quel modo naturalmente ondeggiante.

L’attrazione che provavo per il suo fisico divenne ancora più forte quando le parlai.

L’ora ci era stata favorevole. Clienti ancora pochi. Si era – su mio invito e visto che il proprietario non c’era – seduta al tavolo con me.

Avevo saputo che aveva una bambina di dieci anni e che, dopo essere stata lasciata dal marito, se n’era tornata a vivere dalla madre. Laureata in lettere, con lavoro saltuario, era stata costretta dalla necessità ad arrotondare con quest’altra occupazione.

«Certo per una laureata fare la cameriera!» avevo interrotto il suo racconto.

«Non è mica un brutto lavoro. E poi come farei altrimenti?».

Mi resi conto dell’insensatezza di quanto avevo detto. Mi resi conto anche di averlo detto perché mi imbarazzava tremendamente starla a sentire e avevo avuto bisogno di un’interruzione. Per quanto cretina.

Mai successo prima di provare imbarazzo con una donna. Mai successo prima di desiderarla prepotentemente senza volermela portare a letto.

Per la prima volta, invece, mi capitava di desiderare stringerla a me con forza o forse di abbracciarla con tenerezza o forse ancora di appoggiare la mia testa sul suo seno.

Sono un pragmatico.

Ma quella sera rientrando a Pedona sognai che venisse ad abitare qui. E sognai che con lei venissero pure la figlia e la madre.

La sera dopo, a cena al Rosita, le ordinai gli spaghetti allo scoglio.

«Non saranno di certo quelli che lei è abituato a mangiare!».

«Perché? Saranno sicuramente buonissimi».

Sorrise scuotendo il capo.

Mi sentivo scoperto. Il viziato che si finge di gusti semplici. Ma che imbecille!

Poi di nuovo parlammo. Le chiesi la sua età, lei mi chiese la mia.

Quella notte non dormii. Mi svegliai il mattino e avvertii subito la Masini che mi prendevo la mattinata libera.

Scesi a Camaiore e, in preda a una strana euforia, mi presentai nel negozio di Cloe.

Era stata Luiza-Gabriela a parlarmene. Lei che mi teneva sempre informato sulle vicende del luogo e su tutti i pettegolezzi locali.

Io l’ascoltavo distratto, fingendo un formale interessamento. Ma quella volta le fui mentalmente grato per avermi in passato annoiato con l’apertura di quel negozietto di ceramiche specializzato in targhe di ogni tipo.

«Avrà di certo notato, Giorgio, che tutti i numeri civici della zona, gli ‘attenti al cane’, i nomi delle ville sono opera di quella ragazza».

Non me n’ero mai accorto, ma mi guardai bene dal dirglielo altrimenti il tempo della mia cena si sarebbe raddoppiato. Per cui tacitamente annuii. Come sempre.

Ora, però, era venuto il momento di conoscere questa Cloe.

Posteggiata la macchina nella piazza del paese, presi la via di Mezzo e mi fermai fuori dalla vetrina. Sulla porta la ragazza sembrava mi aspettasse.

«Mi servirebbe un’insegna con la scritta “Stella”».

«Non so se questa fa al caso suo. Era per un albergo del Lido che poi non hanno aperto». E mi mostrò la targa con la scritta e, sotto, una stella marina – entrambe in blu – su fondo rosso.

«Va benissimo». Pagai e ritornai alla macchina.

Mi diressi subito da Giulio, un vecchio muratore in pensione, che stava a Capezzano.

«Un piccolo lavoro» gli dissi «ma urgente. Mi mette questa insegna su uno dei pilastri del mio cancello e la riporto immediatamente a casa. Prenda quello che le occorre. Io l’aspetto fuori».

Partimmo dopo neanche dieci minuti. Mi parlò dei nipoti. Mi chiese se ero sempre contento di starmene lassù.

«Contentissimo». Non avevo voglia di parlare. Ero troppo preso dal mio unico pensiero.

Quando sentì l’auto, Luiza-Gabriela – come sempre – si precipitò.

Guardò Giulio in modo interrogativo.

L’uomo si mise subito al lavoro. La rumena non pensava minimamente a lasciarci soli.

«Cos’è questa pacchianata?» intervenne senza che nessuno avesse richiesto il suo parere.

Già, pensai, la cultura… la cultura che le permetteva di dare giudizi su cose che non la riguardavano.

Sarà stato allora per il pensiero fisso a Stella, ma quella volta non tacqui e sbottai: «Piace a me. E questo basta e avanza». Lei se ne rientrò tutta impettita.

Seguivo il lavoro del vecchio muratore con attenzione. Lo seguii fino a che fu lui a dirmi: «Ecco fatto, dottore. Che le sembra?».

«Lavoro egregio come tutto quello che fai». Lo vidi contento del mio apprezzamento.

Contento come ero io, ora che la mia casa aveva un nome. Ed era quello della donna che occupava da giorni – ininterrottamente – i miei pensieri.

Poi, come promesso, riaccompagnai Giulio a Capezzano.

Tornai ancora a mangiare al Rosita. Questa volta con uno scopo ben preciso. Quello di invitare a cena, qui da me, Stella. Avrei dato – in quell’occasione – la libera uscita a Luiza-Gabriela per non averla tra i piedi e sarei stato io a cucinare per lei.

Del resto me la sono sempre cavata bene in cucina.

E, inverosimile, senza l’idea di finire la serata come con le mie amiche a una stella. No, con lei sentivo che sarebbe stato diverso.

Con grande imbarazzo, mentre mi portava delle trenette al pesto, le chiesi quale fosse il suo giorno libero.

E con imbarazzo ancora più grande riuscii a farle la proposta.

Lei sembrava invece tranquilla.

Tanto che mi rispose: «Non penso di avere problemi».

Mentre tornavo a Pedona con addosso un entusiasmo mai provato prima, non potei fare a meno di telefonare ad Amin.

«Credo che sia successo anche a me… » gli dissi timidamente. Poi come se avessi quindici anni anziché cinquanta, gli raccontai tutto. Per filo e per segno.

Lo sentii contento.

Sul pontile continuavo a guardare l’ora. Ero agitato. Sono una persona puntualissima. Sempre cinque minuti prima a un appuntamento. Per educazione o per retaggio della mia milanesità.

Ora invece l’orologio segnava già dieci minuti dopo le venti che, insieme con Stella, avevamo concordato per il nostro incontro.

Cercai di consolarmi al pensiero che le donne si fanno aspettare o che sono ritardatarie per natura.

Ma non mi consolai affatto. Anzi, la mia ansia mista a paura aumentò sempre più.

Di più, di più, di più… fino a che divenne certezza.

Lei non sarebbe venuta.

Alle ventuno presi il cellulare e chiamai Amin. Sapevo che per lui la sera in famiglia era sacra. Ugualmente lo pregai di venire. Non abitava lontano. Dalla mia voce capì che ero disperato.

Dopo dieci minuti lo vidi arrivare sulla sua vecchia Punto.

«Non è venuta?».

«No».

«Vuoi che ci andiamo a sedere da qualche parte?».

«No. Preferisco camminare».

Ci avviammo lungo il pontile.

«Non me lo so spiegare… non capisco. So… so che non sono mai stato così male».

«Non puoi comandare alla vita. Devi solo seguirla, lasciare che sia lei a guidare te».

«Basta, Amin, con le tue filosofie!».

«Scusami, scusami».

«Scusami tu. Lo sai che ho bisogno del tuo consiglio. Ho bisogno di capire. Mi sembrava contenta… ».

«Tu eri contento. Lei forse… ma non quanto te».

«Ho sbagliato qualcosa? Sai, io non so come ci si comporta quando si… si… niente!».

«Quando si ama una donna? Non aver paura a dirlo… ».

«Lo dico, lo dico se vuoi. Come?».

«Tu hai sempre fatto tutto da solo con le donne. Prese. Lasciate. Se era per divertirsi poteva anche funzionare, ma quando c’è di mezzo un sentimento è diverso. Non è un gioco da albergo a una stella».

«Non ho pensato un solo attimo di divertirmi con lei! O di godere nell’umiliarla… ».

«Ma le donne sono più sagge di quanto tu non creda. Stella è una che lavora, che fatica. Sa che uomini come te sono viziati. Credi che non avrà pensato di essere l’avventura di una sera?».

«Non può averlo pensato!».

«Tu non l’hai pensato di lei, ma non ti sei chiesto se lei non l’avesse pensato. Tu parli e dici “io”. In amore si dice “noi”».

«Per favore, non riprendere a filosofeggiare. Aiutami, Amin. Dimmi un solo motivo valido… ».

«Sei un occidentale e vuoi cose concrete. Giusto. Allora, ricordi che mi dicesti che lei ti chiese la tua età?».

«Sì, quando io le chiesi la sua».

«Bene. Tu hai cinquant’anni. Lei trentacinque. Perfetto. Perfetto… ora. Ma in un rapporto duraturo quindici anni di differenza sono troppi».

«Qui sei proprio fuori strada! L’uomo invecchia più tardi della donna. I quindici anni di differenza si sarebbero annullati nel tempo».

«Non filosofeggio, ma ti dico un proverbio arabo “Se un uomo quando nasce ha un diavolo accanto a sé, a 40 anni non ne ha nessuno, mentre una donna quando nasce non ne ha nessuno, ma a 40 anni ne ha altrettanti” ».

«Spiegati perché questo proprio non lo capisco».

«È semplice: il diavolo che l’uomo ha accanto a sé quando nasce (e quando è giovane) è il sesso. La donna da giovane (quando nasce) non ha nessun diavolo, ma a quarant’anni ne ha quaranta di diavoli! Cioè inizia per lei l’importanza del sesso».

«Mah, andrà bene per voi arabi… ».

«Non ti ho detto, però, che questo proverbio arabo me lo ha insegnato un cliente della Masini, un fiorentino, dopo che la moglie, di quindici anni più giovane, se n’è andata con un altro… ».

«Insomma il motivo, secondo te, è che sono troppo vecchio per Stella?».

«Forse sei “troppo” vecchio, forse sei “troppo” ricco, forse sei “troppo” viziato. Non ho una risposta certa. Ma una donna come Stella, già ferita dalla vita, non si butta allo sbaraglio. È normale. Come d’ora in poi deve essere normale per te sentirti dire no».

Lo ringraziai.

«Coraggio, Giorgio» mi disse mentre ci salutavamo.

Risalii in macchina, percorsi il lungomare del Lido e deviai per Camaiore. Poi imboccai la strada di Pedona.

Davanti al cancello i fari dell’auto illuminarono la targa Stella con la sottostante stella marina. Mi venne un nodo alla gola. Ora sapevo che non ci sarebbe stata nessuna stella per me.

Mi feci forza. Presi il telecomando e aprii.

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