Storie di vita contestualizzate per ripensare lo sviluppo di comunità e territori
Raccontare il proprio vissuto è sicuramente fare storia. Tuttavia, tra storico e vissuto ci sono differenze intrinseche. La storia degli storici è sviluppo periodizzato, catalogato e ragionato. È storia storica. Il vissuto rimescola presente e passato; è, nello stesso tempo, memoria, rievocazione, ricostruzione e anche reinvenzione del passato come presente
Scrive Franco Ferrarotti: «Nel ricordo il passato-passato si fa passato-presente, rivive non solo come passato, ma con tutte le potenzialità, già presenti nel passato-passato ma che ora, nel passato vissuto che viene ora rivissuto, si prospettano come semi d’avvenire, possibilità aperte al futuro».
Ne parlava il filosofo napoletano Giovan Battista Vico nella sua dura polemica contro la ragione del «signor Renato Delle Carte» (René Descartes) per fissare un punto decisivo e dirimente: nessuna verità assoluta o “more geometrico demonstrata”; l’uomo può comprendere non soltanto ciò che fa, ma ciò che del suo fare è visibile, pubblicamente accertabile come verità umana, non assoluta, definibile in rapporto al tempo e alle circostanze determinate. Il rapporto con l’altro da sé sta a significare in Vico l’emergere della ragione da una sua intrinseca latenza. Identità e alterità, soggettività e oggettività, ragione e coscienza della razionalità sono compresenti e chiamate in causa nel radicale superamento della distinzione scolastica fra verità teoretica e verità empirica, fra coscienza cognitiva e certezza esistenziale.
Nelle autobiografie ogni vita si distingue per la sua irripetibilità pur nelle uniformità di vicende contrassegnate da costanti confermate. E questo perché ogni storia di vita raccoglie e rappresenta un itinerario esistenziale in cui ogni soggetto si riconosce in una singolarità mobile, creativa e anche imprecisa. Ogni autobiografia diventa un ritratto sociologico che testimonia un’esperienza non scontata. Ogni storia di vita emerge anche come emozione e scoperta portando alla luce verità impreviste.
Lo storico Arnaldo Momigliano aveva sempre fatto valere uno stacco preciso e di merito fra storia e biografia. Tuttavia, ha successivamente riconosciuto che «la problematica storica non è mai, se non al caso limite, uno studio dei fatti in quanto tali, ma uno studio delle fonti in quanto in un modo o nell’altro ci diano i fatti». Tale acquisizione lascerebbe intendere che anche l’autobiografia, in quanto fonte, può contribuire alla ricostruzione dei fatti, rendendo così meno netti i confini tra storico e vissuto.
Max Weber ha scritto: «Se manca un problema da risolvere, se manca una domanda da rivolgere al proprio materiale documentario, i fatti restano muti. Una conoscenza della realtà che sia priva dei presupposti non potrà che registrare l’apparente caos dei fenomeni e non supererà mai la selva delle osservazioni particolari e dei giudizi soggettivi». Non basta dunque la storia di vita per assicurare il nesso tra biografia e storia. Occorre concepire la biografia come biografia contestualizzata, a più livelli, sia essa il racconto della vita di una persona anonima o di un grande personaggio, in modo tale che la biografia si pone come l’indice segnaletico di tutto un ambiente, di una struttura sociale e di una cultura come insieme coerente di norme ed esperienze.
Osserva Franco Ferrarotti: «È evidente che una biografia contestualizzata non può più risolversi né limitarsi a scorgere nell’individuo un “unicum”; esso diviene invece una realtà dinamica all’interno di un gruppo primario e con questo gruppo primario di appartenenza originaria si integra, cresce e si sviluppa».
Quando Nuto Revelli, nel 1977, finì di scrivere Il mondo dei vinti, un lavoro basato su lunghe interviste biografiche coi contadini delle vallate cuneesi nell’ambito del grande esodo dalle campagne, volle informare dell’imminente pubblicazione il suo amico Manlio Rossi-Doria. Nella lunga lettera che gli inviò, lo scrittore annunciò che stava per intraprendere un nuovo lavoro, con caratteristiche simili a quello appena concluso, ma questa volta diretto a raccogliere lunghe interviste biografiche con le “calabrotte” che, nel decennio precedente, avevano accettato matrimoni combinati con contadini di Langa rifiutati dalle piemontesi che preferivano gli operai. Gli elaborati confluiranno nell’opera L’anello forte del 1985.
Il professore di Portici ne restò affascinato. E chiese, nella sua lettera di risposta a Revelli, di trovare il nome dei poveri paesi meridionali di origine per poterli insieme visitare e «riscoprire i legami antichi e forse cercarne di nuovi». Egli aveva intuito che le ricerche di Nuto Revelli (a partire da quelle sulla grande esperienza dei contadini nella seconda guerra mondiale) erano essenziali per dare forza ad un progetto che voleva realizzare con l’amico e alcuni suoi collaboratori: «è mia convinzione – e oggetto di fantasiose costruzioni mentali – che tra gli esiliati all’estero o nelle grandi città dall’”industrializzazione selvaggia e caotica”, la memoria di quello che hanno perduto possa – non dico in tutti, ma in molti – trasformarsi in interessamento e fors’anche in partecipazione a razionali processi di riordino, di rimessa e di sviluppo delle contrade, nelle quali hanno ancora il cuore e le radici».
Non se ne fece nulla: nemmeno dopo il tragico terremoto del 1980 che aveva distrutto la Basilicata e l’Irpinia e la stesura di un progetto di ricostruzione e sviluppo delle campagne, a cui Rossi-Doria e i suoi collaboratori di Portici si erano dedicati nelle prime settimane successive al sisma.
Ma resta valida l’idea che la raccolta di biografie contestualizzate sia un’indicazione essenziale per percorsi di ricerche sociologiche qualitative proiettate al conseguimento dello sviluppo di comunità e territori.
In apertura, paesaggio ligure: Lucinasco. Foto di Luigi Caricato per Olio Officina ©
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