Saperi

Terra di Maremma

Racconto. Non ho mai capito né chi disprezza la campagna né chi ne difende ad oltranza una presunta integrità. Può disdegnare la campagna una società fanatica del moderno ad ogni costo, oppure una società disarticolata. Può amare in modo solo idilliaco, arcadico, la campagna, chi contrappone ancora la Natura alla Storia, ovvero quei ridicoli nostalgici di presunti mondi “puri”, incontaminati

Daniela Marcheschi

Terra di Maremma

Fin da piccola, quando studiavo a memoria certe poesie di Giosue Carducci o sentivo parlare padre Ernesto Balducci, scabro ed energico, mi immaginavo la Maremma – tutta – come un paesaggio luminoso e ricco di corpo, di volumi, animato dalla potenza viva del vento: il vento spirito di Dio o alito della natura, entro cui si potevano muovere libere le mandrie dei cavalli, gli animali che amo di più.

Una celebre canzone popolare suggeriva, per la verità, anche l’idea di “una Maremma amara”, dove un tempo – a me pareva allora solo favoloso, mentre non era poi così remoto – animali e uomini erano stati provati se non schiantati dallo sforzo nelle miniere, da una natura ostile in cui dominava maligna la malaria.

Quando, durante una “dolce” primavera, a dodici anni potei visitare la Maremma con agio e maggiore consapevolezza, rimasi colpita proprio dalla luce forte e tersa e dall’armonico movimento delle alture che esaltavano la felicità fantastica della mia immaginazione infantile. C’erano nel paesaggio una tale bellezza, una tale solitudine e asciuttezza che la natura maremmana mi apparve
come un vero “Rex tremendae maiestatis”, capace di unire grandezza, magnificenza ed inesorabile durezza. Natura splendente e “agra” vita di fatica, dolore e morte degli uomini nella storia di quel teatro naturale, tanto diverso dalla mia Lucchesia dove, in un insieme ordinato, popoloso e ricco, la campagna ha sempre avuto qualcosa di rassicurante e generoso, pur non celando l’ingrato
impegno del lavoro contadino.

Non ho mai capito né chi disprezza la campagna né chi ne difende ad oltranza una presunta integrità. Può disdegnare la campagna una società fanatica del moderno ad ogni costo, oppure una società disarticolata, le cui élites spregiano il popolo, ignorando che solo una visione appunto populistica e “simpatetica” è in grado di cementare l’azione dello stato, collegando proficuamente i ceti alti a quelli meno abbienti. Può amare in modo solo idilliaco, arcadico, la campagna, chi contrappone ancora la Natura alla Storia, ovvero quei ridicoli nostalgici di presunti mondi “puri”, incontaminati, di una realtà ideale che non è peraltro mai esistita da quando è apparsa la specie
umana. Con la presenza dell’essere umano non può che esserci una natura storicizzata: sfidata, esplorata, lavorata, vissuta, patita dagli uomini!

Trovando diversi libri nella biblioteca di mia sorella maggiore – Alberta, la grande lettrice – mi misi così quasi subito a leggere con attenzione Carlo Cassola, Mario Pratesi e Luciano Bianciardi, in cui mi pareva di ritrovare una simile consistenza pietrosa e un comune, dolente, amaro sapore dello stare al mondo.

Eppure, da quello spietato ventre dell’Amiata, da quella Maremma – che fu desolata, inclemente e mefitica, tanto quanto oggi appare al turista accogliente nel suo silenzio e nella sua placida grazia paesaggistica – si sono levate le voci diversamente critiche e profetiche di Davide Lazzaretti, il
“Cristo dell’Amiata”, e di padre Balducci, un intellettuale in grado di guardare addentro e ben oltre la nostra “terra del tramonto”.

Bastano le loro nette esperienze e parole per smettere di credere nelle consolanti mistiche del naturalismo verista, secondo cui l’individuo sarebbe tutt’uno con il paesaggio, e quest’ultimo lo determinerebbe in pulsioni, credenze, atteggiamenti.

Mi piace invece immaginare che i poveri Davide Lazzaretti ed Ernesto Balducci abbiano forse visto un giorno, in modo nuovo, correre sfrenati dei cavalli maremmani. Allora probabilmente sorrisero della gioia segreta, ma possente, di aver compreso che serviva solo una piccola parola – “sì”, “no” – per non farsi più schiavi e pensare in maniera inusitata quella loro terra e la nostra cultura.

Questo racconto è integralmente tratto dall’antologia Tutti dicono Maremma Maremma. Venti scrittori italiani ne raccontano la terra, le persone, gli umori, edita nel 2010 dalla Provincia di Grosseto, in collaborazione con Eizioni Effigi.

L’antologia curata da Luigi Caricato, comprende i racconti, inediti, di Roberto Barbolini, Laura Bosio, Luigi Caricato, Andrea Carraro, Guido Conti, Maurizio Cucchi, Carlo D’Amicis, Andrea Di Consoli, Omar Di Monopoli, Francesca Duranti, Antonio Franchini, Nadia Fusini, Bianca Garavelli, Silvana Grasso, Daniela Marcheschi, Giuseppe Pontiggia (inedito pubblicato postumo alla scomparsa, nel 2003, dell’autore), Lidia Ravera, Ugo Riccarelli, Clara Sereni e Alessandro Tamburini.

Con i racconti dell’antologia Tutti dicono Maremma Maremma, c’è la dichiarata intenzione – espressa da Luigi Caricato – di invertire la rotta e occuparsi finalmente del mondo agricolo, ambientando storie, immaginarie, o realmente accadute, che abbiano come teatro la campagna. Lo scopo, neanche tanto velato, è di risvegliare un interesse diverso e nuovo all’interno dello stesso mondo intellettuale, prima ancora che tra i lettori.

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