Saperi

Thérèse et moi

Narrazioni. «Per favore, qualcuno può suonare a Thérèse Lafôret, piano secondo? Mi serve un piccolo aiuto». Ebbi la sensazione che fosse contenta di vedermi e la cosa non mi dispiacque. Il suo era un appartamento molto diverso dal mio, il tipico ambiente borghese con libri ben ordinati, pieno di oggetti, con divano e poltrone a fiori. Su una di queste volle che mi accomodassi

Mariapia Frigerio

Thérèse et moi

«Per il decoro», fu la prima cosa che mi disse quando la incontrai nell’ingresso del 5 di rue ***.

Non aveva torto. Avevo attaccato il mio nome con uno scotch da pacchi sulla cassetta delle lettere. Un foglietto con Gonzague Muratori che pendeva miseramente al posto di un’etichetta ben scritta.

Conoscendomi avrei dovuto trovarla odiosa, invece mi scusai con educazione.

Fu qualche giorno dopo che vidi – sempre sopra la cassetta delle lettere (non la mia in particolare, ma sopra tutte) – un biglietto: «Per favore, qualcuno può suonare a Thérèse Lafôret, piano secondo? Mi serve un piccolo aiuto».

Ero rientrato tardi dal lavoro. Sperai vivamente che qualcuno avesse già provveduto ad aiutarla. Ne ebbi la conferma quando, la sera successiva, vidi che il biglietto era sparito. Ma fu una falsa informazione o, meglio, una temporanea informazione, perché, la sera ancora dopo, il biglietto era di nuovo sopra le cassette delle lettere.

Entrai in casa, mi feci una rapida doccia, poi decisi di scendere al secondo piano per aiutare Thérèse.

Quando le suonai sentii la sua voce flebile e infastidita dire che era già a letto. Solo dopo chiese chi fosse.

«Il suo coinquilino Gonzague Muratori. Ho letto il suo biglietto…».

Non sembrava convinta.

«Se non è sicura, ripasso domani mattina», aggiunsi.

Trafficò un po’ con lo spioncino, e finalmente aprì. Indossava una lunga vestaglia rosa un po’ délabré.

Ebbi la sensazione che fosse contenta di vedermi e la cosa non mi dispiacque.

Il suo era un appartamento molto diverso dal mio, in primo luogo perché si capiva che era da lungo tempo che abitava lì, poi per l’arredamento: il tipico ambiente borghese con libri ben ordinati, pieno di oggetti, con divano e poltrone a fiori. Su una di queste volle che mi accomodassi.

Sembrava che il favore per cui aveva cercato aiuto ora non avesse più importanza. Sembrava che le importasse di più qualcuno con cui parlare.

E non mi sbagliavo, perché in quella sera chiacchierammo a lungo.

Sapeva infatti tutto di me: della mia vecchia fidanzata, della nuova, del mio lavoro…

Notai su un tavolino, tra gli altri, due libri: i racconti di Maupassant e quelli di Čechov.

«Gli amori di mia madre», non potei fare a meno di dirle.

Avevo ormai da tempo le chiavi dell’appartamento di Thérèse (a tutti i costi me le aveva volute dare): del resto, con tutte le volte che mi cercava, era più comodo così e poi «pour ma sécurité», mi aveva detto.

Quella sera aveva chiesto il mio aiuto per uno dei suoi misteriosi lavori alle 17. Io ero stranamente libero per cui puntuale scesi, suonai, e – visto che non mi rispondeva – aprii e l’aspettai.

Mi piaceva l’atmosfera di quella casa. Mi ricordava, per certi aspetti, quella dove fino ai vent’anni avevo vissuto con i miei. E mi piaceva ogni volta portarle qualcosa: una pianta, un dolce, un libro. Mi sedetti, quella sera, sulla “mia” poltrona a fiori davanti al solito tavolino, ma non vidi più né Maupassant né Čechov.

C’erano altri libri ordinatamente impilati insieme a strani quaderni neri con fogli tendenti al giallo…

Quella volta non resistetti. Risentii la voce di mia madre che mi diceva di non essere curiosa, ma di fronte a della carta, della carta scritta, della carta stampata, non poteva fare a meno di leggere. E continuava: dalle bollette, agli scontrini fiscali, ai post-it, a scritti veri e propri…

L’avevo, per questo motivo, a lungo detestata, soprattutto dopo che, con quella scusa, aveva letto un mio tema. Quella volta però mi sentii proprio suo figlio. Infatti li aprii…

Erano diari in cui la mia amica vergava, con scrittura regolare e obliqua, i suoi pensieri.

Dopo aver letto qua e là cercai le pagine con le date più vicine ai nostri incontri.

Vendredi, le…

Oggi, dopo la mia richiesta di aiuto, si è presentato da me un mio vicino, un quarantenne che mi ha suonato alle sette e trenta di sera quando io ormai mi sento libera dalla vita e, nel letto, prendo confidenza con la morte. Questa vita mi diventa ogni giorno più insopportabile… La solitudine è pesante e la compagnia pure. I ritmi delle persone non coincidono con i miei… tutti corrono e io non più. Mi è intollerabile questa vitalità, mi stanca… Amo i miei fiori che non parlano, che crescono lentamente… Mi ha dato fastidio quella suonata al mio campanello. A quell’ora, poi! Segno d’inciviltà, di maleducazione… L’ho fatto comunque entrare. Quando si è seduto in poltrona si è subito accorto dei miei libri e mi ha detto che anche sua madre ama gli stessi autori.

Nell’attesa che mi tornasse in mente il motivo per cui l’avevo chiamato, mi sono messa a parlare con lui. È un giovane uomo molto educato (ho dovuto immediatamente ricredermi) e ha un sorriso dolce seppur con una sottile piega di malinconia…

Scoprii che annotava minuziosamente ogni nostro incontro… Poi dovetti chiudere e assumere un’aria indifferente perché sentii Thérèse infilare con fatica le chiavi nella serratura.

Di nuovo non c’era un motivo vero e proprio alla sua richiesta di aiuto.

È vero, la lampadina sopra il lavello si era un po’ allentata e la luce le giungeva così a intermittenza, ma non era certo un motivo valido per chiamarmi per le 17 e trattenermi fino alle 20. Ripensavo alle parole appena lette: aveva dimenticato il suo appuntamento con il letto per «prendere confidenza con la morte»?

Mi fece una serie di domande, tutte concernenti mia madre. Malauguratamente gliela avevo fatta conoscere in una sua venuta a Parigi… E anche a lei era piaciuta.

Io invece vivevo un momento di totale disamore nei suoi confronti. Mi sentivo manipolato da lei. Da quando ero bambino lei aveva guidato le mie scelte. Era una persuaditrice (orribile il femminile di persuasore!) occulta. Se si fosse lanciata, se solo avesse avuto un po’ più di coraggio, sarebbe stata un’ottima pubblicitaria.

Condivisi questo mio pensiero con Thérèse.

La mia amica (ormai con le nostre regolari frequentazioni era a tutti gli effetti diventata mia amica) mi guardò in modo severo.

«Troppo facile criticare una madre».

Mi innervosì quella sua affermazione. Aggiunsi che mia madre aveva sicuramente molte doti, ma restava una manipolatrice. Mi guardò con la testa inclinata e aggiunse: «Perché lo è diventata? Te lo sei mai chiesto?».

No, non me lo ero mai chiesto. E non mi sembrava neanche dovessi chiedermelo.

Trascorse quasi una settimana, poi non resistetti e, sapendo che lei era andata da Sandrine, una sua vecchia amica, entrai in casa sua. I suoi diari stavano sempre sul tavolino. Li aprii e ne continuai la lettura.

Lundi, le…

C’è qualcosa che turba il mio giovane amico. Credo che ami e odi sua madre. Cercherò di farlo parlare. Voglio capirne il motivo. Gonzague, del resto, mi ricorda troppo Ferdinand… il mio amato Ferdinand. Sarà un caso che entrambi abbiano un nome spagnolo? Se riuscirò a capire qualcosa di lui forse mi spiegherò anche il rapporto tra me e mio figlio che…

Ho iniziato questi diari proprio dopo la sua morte. Ho usato la scrittura come terapia, anche se una terapia insufficiente a un dolore insormontabile…

Mi fermai a riflettere. Sì, mi aveva accennato al figlio morto come pure mi aveva accennato alla nostra somiglianza. Ma il fatto che attraverso me e i miei presunti problemi volesse capire il suo rapporto col figlio mi lasciò decisamente perplesso. Spensi l’abat-jour e me ne tornai a casa.

Non passarono che due giorni e Thérèse mi cercò nuovamente.

Scesi da lei. Le si era mossa la tavoletta del WC. Si scusò per aver chiamato per un’incombenza così poco nobile, ma aveva molta paura di scivolare. Trafficai con cacciavite e pinze e gliela risistemai. Poi volle a tutti i costi offrirmi un tè. Del Lapsang Souchong.

«Oh, non quello così poco affumicato della Kusmi. Questo me lo hanno portato direttamente da Londra».

Non amavo il tè, ma non osai dirglielo. Così ci sedemmo nel salotto a fiori, entrambi davanti a una tazza fumante. Riprese l’argomento di mia madre come se fosse interessata a qualcosa di diverso e più profondo che non il rapporto tra me e la mia genitrice. Qualcosa che doveva riguardare soprattutto lei.

Mi chiese, visto che mia madre era una bella donna, se non ne ero mai stato geloso. Subito precisò: geloso da uomo.

Non mi aspettavo una domanda del genere. E non posso dire di averle risposto con assoluta sincerità quando le dissi: «No, credo proprio di no». Continuò, seguendo un disegno ben preciso, domandandomi se il matrimonio dei miei fosse felice.

Nel mio cuore, dopo aver assistito per anni a liti furibonde, mi ero convinto che, con alti e bassi, non potessero fare a meno l’uno dell’altra.

Per cui le risposi: «Un matrimonio come tanti… ».

Non sembrò per nulla soddisfatta. Rincarò infatti la dose: «Come la prenderesti se sapessi che tua madre ha tradito tuo padre?».

Mi arrampicai sugli specchi. Non ci volevo proprio pensare. Ricordavo di aver visto fin da bambino mia madre corteggiata e di esserne stato orgoglioso. Ma quando questo successe nuovamente in mia presenza solo pochi anni prima, in un ristorante parigino, all’orgoglio del primo momento si sostituì immediatamente una rabbia malsana.

Risposi in modo evasivo qualcosa come che non mi ero mai posto il problema e che mia madre non era certo il tipo da tradimenti.

«E cosa credi di saperne tu? Tradire non vuol dire non essere per bene. La vita ti porta a tradire. Pensaci».

Aveva un tono deciso.

Le lasciai comunque un invito per il sabato successivo alla galleria d’arte che dirigevo.

«Una mostra su Basquiat. Non so se le può interessare, ma sarei felice se venisse. Il vernissageè alle 18».

Leggere i suoi diari era diventato per me quasi un’ossessione, ma il tempo non era dalla mia parte. La mostra che stavo allestendo, con tutto quello che comportava (inviti, assicurazioni, rinfresco, posizionamento dei dipinti), non mi lasciava un attimo di libertà. Rientravo a casa tardi e mi tuffavo nel letto con o senza compagnia.

Nonostante ciò, quando Thérèse mi cercava, ero sempre pronto per lei, per le sue insulse richieste.

Nei nostri incontri non parlò più di mia madre. Ne fui felice. Chiacchieravamo di tutto con grande serenità, una serenità che mai mi era appartenuta, per genetica, per le tensioni che avevo vissuto da bambino, per le mie angosce di uomo…

Con lei realmente mi rilassavo, anche se ogni volta che compariva il suo nome sul display del mio cellulare diventavo insofferente.

Ero consapevole, però, che mi faceva piacere esserle utile, che amavo stare da lei, condividere certi pensieri sull’esistenza o, più semplicemente, parlarle del mio vecchio amore per Basquiat e dell’emozione che provavo a dover organizzare una mostra proprio sul mio artista preferito.

Ma la sua frase «la vita ti porta a tradire» (e non che io non lo sapessi…) riferita a mia madre aveva aggiunto un ulteriore tarlo alla mia proverbiale irrequietezza.

Fu questo il motivo per cui, quando dalla finestra la vidi uscire in rue*** con il suo trolley per la spesa, ne approfittai per entrare in casa sua e continuare la lettura.

Mardi, le…

Ultimamente mi sono un po’ sbilanciata con Gonzague e non avrei dovuto: amo troppo quel ragazzo che potrebbe essere mio nipote. Ma quel suo astio verso la madre ha rimesso in moto in me una rabbia mista a dolore da cui mai sono riuscita a liberarmi.

Sì, sì, Ferdinand se n’era accorto…

Aveva solo (o dovrei dire: già) diciott’anni. Io poco più del doppio. Ero ancora piacente, ma non lo sapevo. So solo che lavoravo in biblioteca e quando tornavo a casa cucinavo non solo per la cena, ma anche per il giorno successivo, perché mio marito e i miei figli trovassero tutto pronto. La sera tornavo distrutta… Amavo i libri, ma il mio lavoro era pesante con una famiglia sulle spalle. Cinque figli non sono pochi.

Avevo smesso di pensare a me come donna.

Nel letto, mio marito ed io ci addormentavamo come due fratelli. I nostri rapporti intimi non esistevano da tempo. Io, a dire il vero, li coltivavo nei sogni: con lui o, più spesso, con altri. Uomini che magari mi passavano accanto per via o in métro…

La realtà, però, è più forte dei sogni: restavo così una moglie fedele a un amore che a fatica ricordavo di aver provato, una madre disponibile per i suoi figli, un punto di riferimento per tutti. La mia vita finiva lì.

Ma non era la mia vita… Era quella degli altri. Di altri che amavo moltissimo, ma che non erano parte delle mie esigenze.

C’era in me qualcosa di profondamente mio, qualcosa di non condivisibile in famiglia. Forse con altri…

Uno degli altri fu il direttore delle Biblioteche parigine, un quarantenne – come me all’epoca – elegante, colto e sportivo. Il suo sguardo mi fece rinascere e, già nel nostro primo incontro, facemmo un giro al Bois in bicicletta: io sulla canna della sua, con il suo braccio che mi sfiorava i fianchi. Come fosse la cosa più normale del mondo.

Credo di essere tornata a casa, quella sera, con dieci anni di meno.

Volle a tutti i costi, per la domenica successiva, fare nuovamente con me un giro in bicicletta. Gli dissi che non ne possedevo. Così, quando quella domenica dissi a tutti che avevo un convegno in biblioteca, lui me ne noleggiò una.

Facemmo un giro fino all’Abbazia di Saint Denis e l’amore dietro un vecchio casolare. Imparai a dire bugie per ritagliarmi del tempo con lui. E sempre, quando tornavo a casa, ero piena di energia.

Nessuno si accorse di niente. Mio marito, però, una sera disse, rivolgendosi ai ragazzi: «Avete visto come è bella la vostra mamma?».

Non si era minimamente posto la domanda sul perché.

Io avevo iniziato a vivere nella bugia in un totale stato di grazia.

Ma se mio marito era stato così superficiale, non altrettanto lo fu il mio figlio maggiore, il mio Ferdinand.

Avevo sempre avuto l’abitudine di scrivere dei diari: banali annotazioni sui fatti che scandivano la mia giornata. La bugia si estese a quelli: mai, infatti, feci il nome di Gerard.

Purtroppo scoprii che Ferdinand li leggeva. Perché? Cercava di scoprire qualcosa su sua madre? Un giorno poi ascoltò una mia telefonata. Ovviamente non dissi nulla di compromettente. Solo la mia voce era diversa: era la voce di una donna presa da un forte sentimento.

Quando riattaccai, lui mi chiese con chi fossi al telefono.

Balbettai: «Con una mia collega».

Vivevo nella bugia, ma non ne ero una maestra. Ferdinand scosse la testa. Io feci finta di niente.

Da quel giorno i nostri rapporti mutarono. I sensi di colpa mi sopraffecero e nel giro di breve tempo chiusi con Gerard.

La nostra storia era durata sei mesi. Sei mesi di felicità, di una felicità che né mio marito né i miei figli avevano saputo darmi.

Dieci anni dopo (dieci algidi anni che segnarono il rapporto tra Ferdinand e me), mio figlio morì. In un incidente d’auto.

E io? Rimani spezzata come solo può rimanere una madre che sopravvive al proprio figlio. Col pensiero fisso a quei dieci anni di freddezza. Piena di rimorsi.

Un giorno poi accadde qualcosa, una specie di miracolo: riuscii a perdonarmi. E perdonandomi capii che non ce n’era nessuna necessità, perché una donna, anche la più seria – come io reputavo di essere –, ha bisogno di amore, dell’amore di un uomo che le ricordi di essere innanzitutto donna e non solo moglie e madre.

Il dolore per mio figlio rimase. Intatto. Ma la mia vita, con le sue mille difficoltà, riprese.

Riprese nel lavoro, nella devozione a tutti, e, per la prima volta, anche a me stessa. Iniziai a capire che dovevo devozione più a me che agli altri e in nome di questa devozione mi abbandonai a piacevolezze…

Piacevolezze passeggere: Jean, Louis, Albert furono delle meteore e iniezioni di vita al tempo stesso. Avevo capito che l’amore pretende troppo da una donna, che lo si chiami coniugale o clandestino. L’amore è astratto, ma gli uomini sono concreti: per questo mai più avrei amato come credevo o avevo amato Gerard.

Mi bastavano delle comete: una scia di luce nel buio della quotidianità, ma senza strascichi.

Di queste non mi sentivo in colpa con nessuno, come invece mi ero sentita nella mia lunga storia col bibliotecario. E forse ho sempre collegato la morte di Ferdinand a lui.

Ma mi ero perdonata…

In ogni caso non sarebbe bastato un intero firmamento di emozioni a farmi dimenticare Ferdinand. Mi ero perdonata, sapevo di avere diritto al perdono, ma il dolore che in modo volontario o meno si arreca a un figlio non lo si dimentica. Mai.

Difficile esprimere quello che mi provocò la lettura di quelle parole. Thérèse con un amante! Uno e più di uno…

Mai e poi mai lo avrei pensato per una donna così dimessa, felice dei suoi fiori e dei suoi libri, per quella che io vedevo, in modo un po’ riduttivo, come una vecchia madre di famiglia.

Il tarlo della gelosia, intanto, continuava a scavare in profondità dentro di me. Non potevo non pensare a mia madre, a certe sue strane euforie…

Il 21 gennaio, con la mia flûte in mano, circondato da persone e da belle donne, guardando fuori dalle enormi vetrate dellaGaleriedi Boulevard *** vidi un taxi fermarsi. La portiera si aprì con lentezza e con altrettanta lentezza vidi scendere la mia amica.

Era… un incanto! Ne rimasi estasiato. Fino a quel momento per me Thérèse era stata solo una vecchia signora a cui, con spirito caritatevole, offrivo il mio aiuto e la mia compagnia. Ma ora…

Ora con quei bei capelli bianchi raccolti sulla nuca, un cappottino nero aderente, una volpe argentata al collo – quelle vecchie volpi che si mordono la coda –, con guanti di velluto e scarpe con un po’ di tacco, con un’andatura ondeggiante… ora, per la prima volta, mi accorsi che era una donna, une femme âgée, una quasi nonna per uno della mia età, ancora piacente.

Non me n’ero mai accorto prima, tra le sue vestaglie consunte e i suoi orribili pantaloni da tuta. Ora iniziavo anche a capire il perché di Gerard e degli altri…

Thérèse entrò a Les 400 coups, art contemporain con l’atteggiamento di una donna che sa di non passare inosservata.

Notai che aveva gli occhi leggermente truccati, le labbra tinte di rosa e le guance pure. Riconobbi anche il profumo,Bandit di Piguet: era lo stesso profumo che usava mia nonna, la madre di mia madre. Ne rimasi turbato. Mia nonna era stata una folle che, amata e odiata a un tempo, aveva avuto un ruolo importante nella mia formazione. Thérèse le assomigliava molto, quella sera.

Certo mia nonna non avrebbe mai usato tristi vestaglie in casa né brutti pantaloni da tuta. Ma mia nonna aveva un marito di cui era molto innamorata e a cui, fino a che le fu concesso vivere, aveva voluto piacere. Thérèse era invece vedova e questo spiegava molte cose.

Ora però – dopo le mie ultime letture – sapevo che aveva avuto il classico rapporto coniugale dove le passioni si spengono con troppa facilità.

Ma in Galerie, vedova o malmaritata che fosse stata, non era più lei, era come ricordavo mia nonna: bella e consapevole di piacere.

Facendomi una mezza gaffe, quando volle chiamare un taxi per il rientro le dissi che se non fosse stato per il freddo e per… (riuscii a non pronunciare la parola “età”) l’avrei riaccompagnata con il mio scooter.

La mostra andava benissimo. Les 400 coupscontinuò a riempirsi di gente anche nei giorni successivi al vernissage.

La mia mente, tuttavia, era presa da un solo pensiero: continuare la lettura dei diari, la lettura di quella che stava diventando la mia scrittrice preferita…

L’occasione me la offerse proprio la stessa Thérèse quando una sera mi suonò.

Era la prima volta che entrava in casa mia.

La ispezionò in lungo e in largo, curiosa di ogni cosa, di ogni oggetto e del fatto che sul mio scrittoio ci fossero due computer.

«Perché due?».

Le spiegai che uno era della mia ragazza. Fece una strana smorfia. Era tornata la Thérèse di sempre, spettinata e infagottata nella sua tuta. Ora anche acida.

Poi mi chiese di riaccompagnarla giù, al suo appartamento.

Senza nessuna scusa di aiuti.

Mi disse che era stanca, e che le avrebbe fatto piacere se mi fossi fermato da lei fino a che non si fosse addormentata.

«Non mi sento troppo bene».

Mi offrì addirittura di guardare il suo televisore, un vecchio cassone ricoperto di polvere.

Lasciai che se ne andasse in camera. Aspettai una decina di minuti e mi affacciai: si era addormentata. Respirava rumorosamente, ansimando.

Tornai in salotto e ripresi la lettura.

Samedi, le…

Mi vergogno molto ad ammetterlo, ma oggi, nella Galleria che dirige Gonzague mi sono come rituffata nella giovinezza. Il mio amico era particolarmente bello. Bello e affascinante. Io mi sono sentita come una ragazzina innamorata. Intorno a lui molte femmes fatales, ma io non mi sono sentita da meno.

Una vecchia ridicola? Sì, forse… non ha importanza. Mi guardavano… lui mi guardava. Mi sono trattenuta più del previsto e solo alle 22 ho chiamato un taxi. Gonzague mi ha detto: «Se non fosse per il freddo e per… sì, insomma, per il freddo… la riporterei io fra una mezz’ora con il mio scooter».

Avevo capito perfettamente che dopo quel “per il freddo” avrebbe voluto dire “per la vecchiaia”, ma la sua educazione, la sua sensibilità soprattutto, non glielo avevano permesso.

Nel mio viaggio in taxi avevo guardato la bellezza di Parigi, i boulevards, la Seine, le luci che illuminano la Tour Eiffel, la Gare d’Orsay, avevo visto le torri di Notre-Dame. Uno spettacolo fantastico! Era tanto, tantissimo tempo che non vivevo la Parigi dei ricchi e scoprivo che mi piaceva, che mi riportava alla mia infanzia dorata nel VI arrondissement. Poi la mia vita era cambiata, avevo dovuto lavorare come bibliotecaria, ed ero finita a vivere nel XVIII.

Avevo sempre avuto un grande spirito di adattamento. Ma quest’immersione nella vita, nella vita di lusso, non mi aveva lasciata indifferente. Quando sono salita al mio appartamento e, con la fatica di sempre, sono riuscita a rientrare in casa (difficile infilare le chiavi nella serratura…) mi sono seduta in poltrona e ho bevuto un bicchierino di Grand Marnier. Me lo sono proprio gustato, mentre ripensavo alla serata che avevo trascorso per merito dell’invito di Gonzague e che mi aveva portato fuori dalla mia abitazione da cui mi allontanavo raramente e da cui, da non so quanti anni, non mi ero più allontanata la sera.

Ero immersa in pensieri piacevoli, qualcosa che avevo dimenticato.

Uno, però, allontanò gli altri, anzi li vinse decisamente: l’idea che quella sera mi sarebbe pesato molto andare a letto sola come facevo da più di vent’anni…

Soprattutto sapevo che avrei voluto con me Gonzague…

E non certo per fare quello che lui faceva con le sue “fidanzate”. Ho ancora il senso del limite e del buongusto, ma non furono questi a porre freno a eventuali desideri illeciti per una donna della mia età.

Fu che io sognai, desiderai prepotentemente essere stretta da lui, dormire tra le sue braccia…

Poi mi sono alzata dalla poltrona, ho portato il bicchierino vuoto in cucina, mi sono spogliata con calma, ho riposto vestito, cappotto, volpi, guanti di velluto, scarpe.

Quando mi sono infilata la camicia da notte e sono entrata nel letto non l’ho fatto come sempre, cercando di prendere confidenza con la morte, ma continuando a cullarmi nel mio sogno.

Era l’ultima pagina: non aveva scritto altro.

Dire che ne rimasi scioccato è poco. Ma come aveva potuto pensare una cosa simile?

Mi alzai. Passai dalla sua camera. Sentii la difficoltà del suo respirare. Non mi fermai e me ne ritornai a casa mia.

La sorte mi fu amica. Lei non mi cercò più e io organizzai tranquillo il mio viaggio in Oriente.

Partii senza salutarla.

Al mio ritorno (era aprile inoltrato) mi accorsi subito che era successo qualcosa.

Nell’ingresso Thomas parlava a voce bassa con il suo compagno. Mi venne incontro: «Thérèse è mancata questa notte. Immagino il tuo dolore. So quanto era importante per te». Anche Jêrome mi sorrise. Poi mi abbracciò. Anche loro (i due “finocchioni” come li chiamavo quando ero con i miei amici) sapevano. Sapevano del nostro legame. Mi sentii perso, sovrastato da un senso indicibile di solitudine.

Thérèse…

Con tante donne che avevo avuto e che probabilmente avrei continuato ad avere Thérèse era quella che più mi aveva segnato e che mai avrei voluto perdere.

Avevo creduto di amare delle donne. La realtà era che mi affezionavo a loro, a volte anche molto, ma… come ci si affeziona a dei cani.

Con Thérèse era stato tutto diverso…

Pensai alla mia vita senza di lei: che ne sarebbe stato di me?

Le nostre chiacchiere, le sue misteriose lezioni di vita, le sue strane allusioni. Tutto questo non sarebbe più esistito. Con chi avrei sfogato, ora, i miei rancori? Chi avrebbe avuto il coraggio – come lei – di farmi riflettere, di farmi ritornare sulle mie inalienabili prese di posizioni, di illuminare il groviglio buio e misterioso della mia anima? Perché lei era stata una luce, l’unica nella mia vita, e ora si era spenta.

Mi sentivo gettato in un mondo di tenebre e non sapevo se mai sarei riuscito a uscirne.

Thérèse… che io che avevo sfuggita per paura, per perbenismo. Non avevo mai capito le donne. Ma questa volta mi pesava: un macigno aver lasciato morire Thérése sola…

Certo che in viaggio in Oriente ci sarei andato, ma salutandola come sempre, con un bacio sulla guancia. E invece no! Le sue parole mi avevano spaventato e io ero fuggito come un vigliacco, un vigliacco spaventato dai sentimenti di una donna non più giovane…

Depositai i miei bagagli. Poi uscii.

Avevo bisogno di un fioraio.

Riuscii a trovarlo e a trovare i suoi amati lillà. Mi feci fare un mazzolino di quelli viola. Sapevo che in quel colore significavano innamoramento e sapevo anche che, in alcuni luoghi del mondo, regalare fiori di lillà significava rottura di fidanzamento. Valevano entrambi i significati per me: ero un innamorato il cui fidanzamento si era rotto per colpa della vita.

Poi di corsa tornai a casa e mi fermai al secondo piano.

La porta dell’appartamento era aperta

Dei suoi quattro figli incontrai la figlia.

Mi disse poche parole della madre, severe come solo quelle dei figli possono essere, ma, aggiunse: «Che vuoto!». Gli occhi erano lucidi.

Thérèse era stata vestita con un abito nero. I capelli bianchi le incorniciavano il viso sereno nella morte. Mi chiesi se le fosse servito cercare di prenderne confidenza o se invece i rantoli, che io avevo sentito e sfuggito come le sue parole, le avessero reso il trapasso più tormentato.

Posai sui suoi piedi il mio mazzolino e scoppiai in singhiozzi.

La figlia mi venne accanto: «So che lei è stato molto vicino a nostra madre. Grazie, Gonzague. Sa, per i figli è tutto più difficile…».

Non so neanch’io come trovai il coraggio, ma glieli chiesi.

Le chiesi i diari della madre. Mi guardò stupita. Poi, con un tono pieno di comprensione: «Li prenda, li prenda pure. I figli è bene che non sappiano i segreti della madri: non sono mai troppo misericordiosi».

Presi tutti quei quaderni neri che mi avrebbero fatto sentire vicina la mia amica e che avrei letto e riletto per sentirne la voce.

Ringraziai e risalii a casa mia.

Quella sera, dopo tanto tempo, telefonai a mia madre.

Lucca, dicembre-marzo 2018

La foto di apertura (Riposo sotto la Tour Eiffel) è di Mariapia Frigerio

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