Saperi

Tre signori e un cannocchiale

Racconto. In cima alla salita o all’inizio della discesa nel bosco, comunque lo si guardi appare un foro che attraversa il tronco di un ulivo, né vecchio né giovane, privo di cure, sempre sul punto di rendere l’anima

Nicola Dal Falco

Tre signori e un cannocchiale

La strada sale dentro un bosco dove, pian piano, l’anarchia dei fossi ha conquistato i rami più alti: un bosco abbandonato che cresce senza cure, che alita tetraggine ad ogni tornante, un odore di giardino dimenticato.
Assomiglia a quelle case che non hanno avuto un cantiere, ma un destino di continue, non definitive, modifiche, un’esuberanza a cavallo di due epoche, una ricchezza breve, inaspettata, confusa.

Non un bosco selvaggio, ma un bosco inselvatichito, cieco, perché privo di sentieri, di visitatori, lasciato solo come se fosse sul punto di incubare qualche strana infezione.
Oltre il bosco, però, compaiono gli uliveti, padroni di un ampio poggio e la vista s’allarga, corre con le colline verso il mare e l’Appennino.

Sul ciglio delle curve, dove l’asfalto forma come all’inguine una piega, si ergono alcune grandi querce, una ogni due o tre tornanti così da formare un’immaginaria retta che ne intersechi le chiome.
È un caso, anche se sembra la decisione di un giardiniere: più ci passi, andando in su o in giù, più ti affezioni e le guardi, aspetti che ti compaiano innanzi, dopo aver girato completamente il volante.

Sono i tre signori, alti una ventina di metri, liberi sul lato che dà verso la strada e per questo motivo, visibili in tutta la loro maestà.
E di una porpora si tratta, di un’unzione, non c’è altro concetto che possa spiegare l’estraneità di queste tre piante e al tempo stesso la comprensione, la pietà che le lega al resto del bosco.
Probabilmente, non devono la loro posizione ad un giardiniere, ma a chi con altrettanto occhio ha tracciato la via che precede l’attuale, fissando ai loro piedi il cambio repentino di direzione, in modo da addolcire la salita.
Chissà se la necessità di curvare, quasi un tornare sui propri passi, conquistando qualche metro di quota, non sia stata determinata proprio dal rispetto, dal timore di simili orchi gentili?

Il loro durare, indifferenti alle stagioni, genera un fascino ambiguo come le frasi in bocca ai dormienti, come pensare al silenzio o abbandonarsi al freddo di una panca…
Due, le possibili misure che, simili ad enigmi, si celano all’interno dei corpi: quanti quintali di legna o quale intimo rapporto intercorre tra spazio e tempo?
In definitiva, la stessa domanda – a quale scopo che dia sale all’esistenza?
Se cerchiamo, giorno per giorno, traccia di una mappa, di un percorso che si palesi di segno in segno, in terra come il cielo, per studio o sovrana coincidenza, allora quegli alberi messi lunga la strada, che la precedono anche in quanto idea, sono la rappresentazione non di un bisogno, ma di un’essenza.

Sono l’essenza della nostra estraneità al mondo e dell’incommensurabile pietà che ad esso ci avvinghia; al contrario, se la domanda assume un tono utilitaristico, di quantità, allora, è meglio correre a far legna, impilando a strati terra e cielo.

Sarebbe questo il dilemma, il bivio su cui meditare nelle fatiche d’Ercole se non apparisse chiara, solo qualche metro più in su, la giusta direzione, scioglimento d’ogni facile indugio.
In cima alla salita o all’inizio della discesa nel bosco, comunque lo si guardi appare un foro che attraversa il tronco di un ulivo, né vecchio né giovane, privo anch’esso di cure, sempre sul punto di rendere l’anima eppure lì con il suo cannocchiale puntato esattamente lungo l’asse solare.

A modesto avviso di certi viandanti che dalla fonte del Merlo salgono fino alla pieve di Giovanni Battista, quel foro invita l’occhio a non perdere lo spettacolo d’albe e tramonti, a indugiare sulle mappe del tempo.

La foto di apertura è di Giorgio Sorcinelli

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