Saperi

Un bauletto di velluto a fiori

Narrazioni. Culi. Grassi, secchi, cellulitici, cadenti, sodi, vecchi, giovani, femminili, maschili; e sederini di bambini, anche. A intenerire di più sono quegli degli uomini. Quando però il gluteo si affloscia, subentra una sorta di commozione a vederli. Non sono mica tutti uguali i culi. Parola di Delphine Bouchard

Mariapia Frigerio

Un bauletto di velluto a fiori

Culi… Anche qui, davanti a questa finestra… davanti alle aiuole del parco, me li trovo davanti… senza… senza alcuna intenzione da parte mia. No, non c’è proprio intenzione. Li vedo: grassi, secchi, cellulitici, cadenti, sodi. Vecchi e giovani. Di donne e di uomini. E sederini di bambini. Pure dai loro, ancora piccoli, si capisce come diventeranno da adulti. Io, almeno, l’ho sempre capito. Mai sbagliata una volta. Se la sorte me li faceva ritrovare in età adulta ne avevo la conferma.

Mi hanno sempre intenerito quegli degli uomini… Non che io sia tenera. Né ora né quando ero giovane. La vita mi ha svezzata presto. Mai fatto il minimo sconto. Eppure quando il gluteo di un uomo si affloscia e si vede quella pelle che fuoriesce dagli slip io provo – provavo – una sorta di commozione. E le donne? Certo anche i loro culi crollano con l’età, ma non è la parte peggiore di una donna con anni. Soprattutto non così determinante. Sono gli uomini che legano a quel “crollo” l’inizio della loro discesa.

E la decadenza (qualunque tipo di decadenza) ha l’effetto di farmi pensare… di intenerire… anche… anche una come me.

Ora che sono qui immagino come siano quelli delle persone che mi stanno intorno. Di quelle che dividono con me queste ore interminabili. Poi la mia mente si perde… Allora mi accorgo che mi fa compagnia – molta più compagnia – ripensare a quelli del mio passato.

A tutti. A tanti. Perché tanti… sono stati tanti. È che la memoria non mi aiuta. Dico tutti e in realtà sono una minima parte quelli che rivedo chiaramente. Dico tanti, ma di pochi mi resta un preciso ricordo. Potrà sembrare strano, lo so. Poco nobile, diciamo meglio. Ma io sono convinta che anche i culi abbiano una loro poesia. Un loro spirito.

Non sono mica tutti uguali i culi, poi. Lo dico io, Delphine Bouchard, che per quasi trent’anni ho girato tra Crocetta, Vanchiglia, Borgo Po, Santa Rita. A volte mi sono spinta fino alle prime ville di Cavoretto.

Tutto nelle mie mani. Zone di lusso, popolari, impiegatizie. Tutta Torino nelle mani di una che si spostava a piedi o con i mezzi pubblici. Mai avuto un’auto. E chi se la sarebbe potuta permettere?

A volte mi chiedo cosa ci faccia ora in questa casa del Pino… Quando ancora lavoravo, mai una volta che avessi trovato il tempo di spingermi fino al Pino Torinese. Troppo lontano. Troppo di lusso. Ora invece ci vivo. E in una bella casa. Casa? Una grande villa. Talmente grande che non credo di averla mai vista tutta. O forse sì… È difficile dirlo. Come è difficile capire chi siano quelli che mi girano intorno. Ah, questo proprio non lo so. Mi chiedo come possa permettermi di abitare qui. La casa non è mia… o almeno non credo. E se non è mia come faccio a pagare l’affitto? Poi tutte queste persone di servizio… Mah! Per fortuna nessuno mi chiede niente. Intanto io me ne sto qui e aspetto. Chi o che cosa non saprei. Aspettare: l’unica certezza che mi è rimasta. E, quando la mia mente non è troppo offuscata, mi faccio compagnia con i ricordi… con quelli che vengono a galla. Così, all’improvviso.

Da qualche giorno (o da qualche mese? ma chi ha più la nozione del tempo?) tutti che mi fanno i complimenti.

«Averli io come li porta lei i suoi 95 anni!», «Arrivarci a 95 anni!», «Una salute di ferro per 95 anni!».

Allora penso che devo proprio avere 95 anni. Mi sembrano tantissimi. Beh, se non altro mi aiutano a capire tutta la stanchezza che ormai da tempo mi sento addosso. Se ho – come dicono – 95 anni, mi sento anche giustificata. Giustificata del niente che faccio.

Quello che proprio non mi spiego è perché ora viva in questa casa, con tutte queste persone che mi servono e tutti questi ospiti. Tutti qui da me.
Non ricordo di avere mai avuto amici.
Ricordo, invece, vagamente una casa. Un’altra. Un piccolo appartamento. Ingresso, cucina e camera. In via Blignj. Mi sembra che dovessi fare un mucchio di scale in un vecchio palazzo per raggiungerlo. Mi sembra di rivedermi salirle e scenderle non so quante volte al giorno… Io e il mio bauletto di velluto a fiori.
E comunque non è un ricordo limpido. Limpido come quello di certi culi.

Quello dell’avvocato Mitucci, conte di Rudinì, era enorme. Lui stesso era un bestione. Un bestione senza alcun pudore. Tipico dei nobili o, almeno, di certi.
Quando mi accompagnavano nella sua camera, lui si levava la vestaglia a righe, si calava i larghi mutandoni bianchi e si sdraiava sul letto disfatto. Non gl’importava nulla se a vedere quel sedere nudo di uomo maturo c’era la vecchia madre. Se ad accompagnarmi era poi la cameriera non aveva, neppure con lei, alcun riguardo a celare le sue brutte nudità. Io poi non esistevo o, forse, credo di essere esistita una sola volta, quando vedendomi china a raccogliere l’ovatta che mi era caduta, mi appioppò una pacca sul didietro.

Quella volta alzai la voce: «Non si permetta mai più, avvocato». Giusto il tempo di terminare il mio breve, ma deciso intervento che comparve la madre, la Contessa. Mi mise le mani sulle spalle – sono sempre stata piuttosto piccola – per accompagnarmi alla porta: «Se non sa come ci si comporta con gente come noi è meglio che non torni più».
«Bien sûr» risposi seccata. Poi mi infilai veloce il cappotto, presi il mio bauletto e scesi rapida le scale.
Non mi sentivo affatto umiliata. Ma piena di rabbia, sì. Chi credevano di essere quei nobili? Gente come loro? Voleva dire che era nei diritti del conte toccarmi il culo? Toccare il culo di un’infermiera che si guadagnava da vivere correndo per tutta la città? Che gente! Senza la minima educazione. Rimasta a prima della rivoluzione. E i miei soldi? Era più di una settimana che andavo dai Mitucci di Rudinì… Era fuori discussione che li avevo persi.
Ma siccome quella gente ha la faccia come il culo ebbero il coraggio, dopo qualche mese, di richiamarmi per la “signora Contessa”. È una brutta cosa la necessità… Così presi le gambe ed il bauletto e ci ritornai. Ma dei miei soldi non dati nessuno fece più parola.

La signora Carla Maria era una che ci teneva molto al suo culo. Aveva quell’aria snob tipica delle torinesi ricche. Ti guardava senza vederti. Ti parlava lo stretto necessario come se tu non fossi stata lì a due metri da lei. E nonostante i modi di una finta educazione aveva un’aria da gran puttana. Io non ho mai – in tutta la mia vita – avuto contatti con uomini. Mai innamorata. Non che non piacessi. In tanti ci hanno provato, perché, anche se non sono mai stata una bellezza, ero graziosa e, soprattutto, francese. I torinesi si sentono i cugini poveri dei francesi. Così io, che povera ero davvero, diventavo attraente ai loro occhi per le mie origine transalpine.

Anche la signora Carla Maria Trussone mancava del minimo senso del pudore. Tale e quale al Mitucci. Quando io arrivavo dalla cucina con la siringa pronta e l’ovatta imbevuta di alcol, lasciava scivolare la vestaglia di seta per terra e, completamente nuda, si sdraiava su un divano ai piedi del letto. Aveva l’abitudine di farsi il bagno prima del mio arrivo e d’incremarsi abbondantemente. Dopo la mia venuta sarebbe stato il turno del massaggiatore. Del resto il suo era uno di quei culi curatissimi. Nulla da dire. Però, pur non essendo esperta di uomini né tantomeno di amore, ho sempre pensato che un tipo di donna così – troppo attenta al suo di corpo – non fosse la persona giusta per amarne un altro. Mi ha sempre dato, in effetti, una strana idea di frigidità la signora Trussone.

Assunta era la cameriera della famiglia Audiero. Era lei che mi apriva la mattina quando la signorina Isotta iniziava uno dei suoi cicli di iniezioni per l’anemia. Ah, come mi piaceva la signorina! Aveva qualcosa di diverso… Era diversa da tutte le persone che avevo conosciuto! Anche la signora Audiero, sua madre, non era una donna comune. Quando arrivavo in mattinata avanzata e allora era in piedi – perché altrimenti non compariva mai prima delle 9.30 – voleva a tutti i costi offrirmi un caffè. L’unica in tutta Torino. L’unica che avesse un pensiero per me. Era lei stessa a volermelo fare. Assunta, la donna, si defilava allora impegnata in non so quale delle tante faccende.

Gli Audiero vivevano in un grande appartamento alla Crocetta. Il padre di Isotta era un neurologo molto noto in città e, dalle rare volte che lo avevo incontrato, mi era stato subito stato chiaro che era un vero signore.
Anche Emanuele, il figlio minore, era un ragazzino delizioso. Gli Audiero erano realmente una famiglia unica. Ne sono convinta ancora oggi.

Era Assunta (se ancora la signora non si era alzata) che faceva bollire il pentolino rettangolare con aghi e siringhe di vetro. Quando io suonavo il pentolino aveva già bollito da un po’. Appoggiavo allora sul tavolo della cucina il mio bauletto di velluto a fiori. Per la signorina Isotta non c’era bisogno che levassi dalla borsa uno dei miei pentolini che tenevo avvolti in piccoli asciugamani di spugna. In casa Audiero il rito della bollitura era qualcosa che mi veniva offerto con lo stesso calore del caffè. Mi accontentavo solo di togliere la mia ovatta dal bauletto e di inumidirne un batuffolo con l’alcol.
Poi con la limetta tagliavo la parte terminale della fiala e con l’ago della siringa bollita ne aspiravo tutto il liquido contenuto. Anche quello a volte oleoso. Con grande maestria.

Quando Assunta mi accompagnava in camera della signorina Isotta, con lo stantuffo facevo schizzare fuori dalla siringa un’ impercettibile quantità di liquido.
«Perché fa questo, signorina Bouchard?» mi chiedeva la ragazza.
«Per essere sicura che non ci sia aria. Sarebbe pericoloso se le iniettassi dell’aria».
Poi, con un certo imbarazzo, si sollevava la gonna, si abbassava le mutandine di cotone – mai abbastanza, per pudore – e si sdraiava.
Aveva proprio un bel sedere. Un bel sedere a mandolino. Un sedere da donna. Credo, però, che lei se ne vergognasse…

Una volta il fratello minore entrò senza bussare nella sua stanza. Lei fu rapidissima a coprirsi e con un certo timido risentimento gli disse: «Lele, esci!». Poi con più affetto aggiunse: «Per favore…».
Si volevano molto bene.

Per quanto mi riguardava sapevo d’incuriosirla. Aveva sempre pronta qualche domanda. Una volta ci mettemmo a parlare perfino di religione. Scoprì che non ero cattolica, ma valdese. E mi sembra di rivedere il suo sguardo pieno di incanto quando le spiegai che tutti i riti di origine valdese, in chiese senza immagini, sono molto più spirituali di quelli cattolici. Mi accorgevo del suo interesse per me e, devo dire, che ne provavo piacere. Ne ero, in certo qual modo, lusingata.

Ricordo molte cose di lei. Delle nostre brevi eppur intense conversazioni. Di quel suo grande matrimonio con uno… con uno molto importante della Fiat… della nascita di tre figli. Delle nostre conversazioni interrotte dall’abbandono della casa paterna della Crocetta per non so quale villa fuori Torino…

Una volta venni nuovamente richiamata dagli Audiero (era sempre Assunta che mi cercava). La signora aveva spesso bisogno di ricostituenti come Emanuele. Quella volta però fu di nuovo, inaspettatamente, per la signorina Isotta. Aveva lasciato la grande villa di campagna ed era tornata, per un periodo, a vivere dai genitori con i bambini.

«A riposarsi» mi fu detto. Senza essere un’aquila capii subito che il matrimonio non andava più. La moglie di un uomo ricchissimo, che vive in una villa con parco, servita e riverita non ha certo bisogno dell’aiuto dei genitori… se il problema non è il marito stesso.
La trovai sciupata, stanca, ma intenta a studiare.

Fu naturalmente affettuosa con me. Per il poco tempo che avevo da dedicarle mi confermò quello che la madre non mi aveva voluto dire. Il suo matrimonio era finito ed ora l’unico pensiero che aveva era terminare la tesi e laurearsi. Ne fui in un certo senso contenta. Una come me, sempre stata indipendente, non avrebbe mai tollerato la sottomissione – più o meno blanda – che ogni donna deve al marito, anche nei matrimoni più riusciti. L’idea che anche la signorina Isotta avesse dovuto “sottomettersi” mi aveva già a suo tempo profondamente infastidito. Ora, invece, per quanto sbattuta, me la ritrovavo libera. Chiaramente non feci parola con lei di questi miei pensieri, ma sono convinta che lei li capì perfettamente. Senza bisogno di alcuna parola da parte mia.

«Sono stata proprio una sciocca, signorina Bouchard! Solo la tesi… peraltro già mezza scritta… abbandonata per sposarmi!».
«È un errore che fanno tante» mi sembra di avere detto. Non volevo infierire. Non con lei.
«Ma lei non l’avrebbe mai fatto un errore del genere. Ne sono sicura».
«Ne ho fatti altri. Tutti ne facciamo. E poi, nella mia vita, non c’è mai stato il tempo per i sentimenti. O, forse, io non ne ho mai avuti… Però ora vedo che ha ripreso a studiare. Mi sembra un buon segno…».
«È l’unica cosa che m’importa: laurearmi e trovarmi un lavoro. Non voglio niente da nessuno. Soprattutto da lui. Per ora sono costretta con tre figli ad appoggiarmi ai miei, ma…».
Mi piacque quella sua decisione. Era la decisione di una persona mite. Di una persona ferita. Sapevo che ce l’avrebbe fatta. E dentro di me glielo augurai di tutto cuore.
Ci vedemmo, in quel periodo, sovente. Per tutto il tempo della sua cura.

Quando, negli anni successivi, venni richiamata dagli Audiero, la signorina Isotta non stava più da loro. Ma nessuno mi fece alcun cenno di lei ed io non osai chiedere.
Poi non ricordo di essere più andata neanche da loro. Non so più nulla e non ricordo più niente.
Ecco, mi stanno venendo a prendere per andare a cena. Mangio con due signore che devono essere mie amiche, ma che a me sembra di non conoscere. E anche agli altri tavoli c’è sempre gente. Mi chiedo perché mi ostini a invitare tutte queste persone se poi non scambio con loro nemmeno mezza parola…


«No, dottoressa, mi creda: non mi ha mai riconosciuta. Tutte le volte che mi avete vista sederle accanto, che mi avete osservata mentre le stringevo la mano, non era perché sapesse chi ero. Mi parlava come se fossi una sua coetanea. Mi parlava dei suoi ricordi… Mi parlava della signorina Isotta… Capisce bene che non potevo disilluderla. Per me non aveva importanza. Importante era il fatto di averla ritrovata. Come?, mi chiede. Molto semplice: con il mio lavoro. Noi giudici abbiamo accesso a carte non praticabili da tutti. Sono così risalita fino a lei. E finalmente è ricomparsa nella mia vita. Non le dico da dove, però! Era in un ospizio da vergogna. La mia Delphine Bouchard. L’infermiera veloce sui suoi tacchetti, la donnina bionda con gli occhi azzurri… Lo so che è faticoso immaginarla così ora che anche quelli si sono – come tutto il resto – rimpiccioliti e spenti… Vuole sapere, dottoressa, perché tanto interesse… tanto interesse da sobbarcarmi la spesa non irrisoria del suo “soggiorno” qui? È vero che non ho 95 anni, che rispetto a Delphine sono quasi giovane, ma… anch’io ho un’età in cui ho bisogno di ricordi. Di ricordi di tempi che non tornano… di tempi in cui ero, inconsapevolmente, felice. E lei, Delphine Bouchard, c’era in quei tempi. Lei è il legame con quel mondo ormai perduto.

«Ci tengo a precisarle, dottoressa, che non ho più nulla a che vedere con il mio ex marito, il padre dei miei figli. Tutta Torino parlò e invidiò quel matrimonio. Per me fu la fine degli incanti giovanili. E se ora – come lei mi ha detto – mi sobbarco questa spesa non indifferente per una quasi sconosciuta è perché lei ebbe fiducia nella mia rinascita. La vidi molto… molto soddisfatta quando seppe che ero intenzionata a laurearmi.
«Ecco, guardi, le lascio un assegno e contanti per due mesi. Starò via un po’ di tempo… Convegni e incontri in varie università. Non appena sarò di nuovo stabile a Torino verrò qui.
«No, dottoressa, non è necessario che lo prometta. È un mio desiderio.
«Dimenticavo… se… durante la mia assenza dovesse succedere… la prego, conservi per me il suo bauletto di velluto a fiori».

Lucca, 24 ottobre 2012

La foto di apertura è di Mariapia Frigerio

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