Saperi

Un formidabile strumento di autocoscienza per le nuove generazioni meridionali

Con il romanzo Mille anni che sto qui Mariolina Venezia ci consegna in tutte le sue sfaccettature sociali, culturali e antropologiche una Basilicata che nessun’altra opera letteraria ha finora raffigurato con pari compattezza e intensità. Il libro può aiutare a comprendere da dove proviene quel senso di frustrazione e di impotenza che ancora pervade il sud dell’Italia

Alfonso Pascale

Un formidabile strumento di autocoscienza per le nuove generazioni meridionali

Compare anche l’olio di oliva nel romanzo Mille anni che sto qui, di Mariolina Venezia. Quindi, non esitate a leggerlo. Ma c’è molto di più. C’è qualcosa di nuovo e originale nel leggere, interpretare e raccontare il nostro passato, soprattutto le radici agricole e rurali. L’autrice, giunta alla ribalta televisiva soprattutto con la fiction che riprende i casi del sostituto procuratore Imma Tataranni, aveva scritto e pubblicato, sempre da Einaudi, una narrazione di cui Alfonso Pascale ha saputo condensare in questa recensione tutti i pregi del libro.

Mille anni che sto qui non è un romanzo storico come potrebbe lasciare intendere l’evocazione delle gesta di Carmine Crocco Donatelli, generale dei briganti lucani, che per tre anni conduce contro 120 mila soldati piemontesi l’ultima “guerra contadina” dell’Occidente, oppure di Giuseppe Novello ucciso senza motivo dalla polizia mentre con centinaia di braccianti occupa le terre nel materano, o ancora dei cittadini di Berlino che festeggiano la libertà ritrovata dopo la caduta del muro.

Al centro del romanzo c’è la crisi esistenziale di Gioia, una ragazza lucana che dopo aver vissuto la breve stagione del movimento del 1977 nelle piazze di Roma, Bologna e Firenze ripara a Parigi accusata di un reato minore. Qui ha occasione di interrogare a lungo se stessa e scoprire che noi in definitiva siamo il frutto della storia che ci raccontiamo, la storia che abbiamo realmente vissuto e quella che avremmo potuto vivere se i percorsi fossero lineari e semplici. Anche la felicità e la tristezza vengono da lontano, da fatti e sensazioni che ci hanno coinvolto in tempi lontani, da emozioni sempre nuove che abbiamo provato ascoltando più volte gli stessi racconti, da stati d’animo che somigliano ai paesaggi agrari della nostra fanciullezza. La stessa libertà che abbiamo con fatica conquistato è l’esito di lotte combattute realmente o con l’aiuto dell’immaginazione, di riflessioni sulle nostre vicende per comprendere i deragliamenti della vita e guardare di nuovo con fiducia al futuro.

Ne vien fuori un’opera letteraria del tutto originale, da cui emerge l’identità e la cultura della protagonista, la sua concezione della vita in cui non c’è più differenza tra presente, passato e futuro. Tutti gli eventi che riguardano lei e la sua famiglia scorrono nella mente di Gioia e segnano i suoi stessi tratti fisici come fotogrammi di un film, lì presenti contemporaneamente, in attesa di essere proiettati.

È questa concezione della vita che fa dire ai contadini lucani: “Monnu è statu e monnu è”, “Mondo è stato e mondo è”, da non interpretare come rassegnata arrendevolezza ad una realtà immodificabile, ma come capacità di scorgere nei fatti della vita le linee e le cesure della lotta incessante per la libertà. Le quali non sono consumate dal tempo ma riemergono in fasi diverse della nostra esistenza come un fiume carsico.

È questa concezione della vita che fa dire a nonna Candida: “Mi pare mille anni che sto qui”, non già per denunciare la stanchezza di esistere ma l’impazienza della novità, che si potrà inverare in un’altra vita o comunque in un futuro possibile.

Con questo romanzo Mariolina Venezia ci consegna in tutte le sue sfaccettature sociali, culturali e antropologiche una Basilicata che nessun’altra opera letteraria ha finora raffigurato con pari compattezza e intensità. L’ha potuto fare proprio perché ha adottato l’ontologia parmenidea che fonde l’essere e il divenire in una forma di pensiero inconsapevolmente rimasta integra per millenni nella cultura contadina.

Come Furore di John Steinbeck, l’odissea di una delle tante famiglie di contadini americani vittime della Grande Depressione, ha rappresentato per decenni l’opera letteraria in cui intere generazioni alle prese con le sfide del New Deal rooseveltiano si sono riconosciute sull’onda di una speranza, di una ineliminabile possibilità di bene che una forma di spontanea e irriflessa solidarietà ha fatto germogliare tra quei sofferenti, così il romanzo di Venezia può costituire un formidabile strumento di autocoscienza per le nuove generazioni meridionali.

Il libro può aiutare a comprendere da dove proviene quel senso di frustrazione e di impotenza che ancora pervade la realtà meridionale e ne comprime lo spirito civico, sia quando si cade nella morsa di una rassegnata difesa della propria dignità, sia quando si cede alla cultura della dipendenza. E potrebbe accompagnare il dischiudersi di un protagonismo autentico della popolazione meridionale e di una effettiva stagione di fiducia nelle proprie capacità di riscatto, qualora davvero si disvelassero.

Un fremito di felicità immotivata e istintiva prende infatti allo stesso modo sia Rosa Tea mentre offre il latte direttamente dal suo seno a un moribondo incontrato per caso dalla famiglia Joad sotto la tettoia di una stalla, sia Gioia mentre chiude gli occhi di nonna Candida morente e celebra in silenzio, aggrappata al finestrino del treno, il funerale senza lacrime di una campagna lucana deturpata da una modernità frettolosa e deludente.

In apertura, foto di Olio Officina

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