Saperi

Un genio incompreso

Con le riflessioni di Emilio Sereni sulle trasformazioni che stavano avvenendo nella società del suo tempo, ci troviamo dinanzi ad anticipazioni di grande rilevanza che i suoi contemporanei non seppero cogliere. Con le sue intuizioni visionarie aveva già percepito come la rapidità della comunicazione e l’aumento esponenziale della capacità di calcolo nei processi informatici erano forze capaci di avere un impatto di grande rilievo sull’intera economia

Alfonso Pascale

Un genio incompreso

Emilio Sereni era una personalità di enorme talento, capace di vedere lontano rispetto al suo tempo e dotato di una cultura che, in quel momento storico, pochi in Italia possedevano. Insieme al greco e al latino, leggeva e parlava, spesso correntemente, numerose lingue. A parte l’ebraico e l’aramaico, la cui conoscenza gli derivava dalla sua primitiva passione per il sionismo, conosceva l’inglese, il tedesco, il francese, il russo, il giapponese e poi via via lingue sempre più insolite. Egli possedeva conoscenze approfondite su una molteplicità di argomenti, dalla linguistica all’archeologia, dalla storia antica fino alle più recenti acquisizioni dell’informatica, della scienza e così via. Questo bagaglio di conoscenze aveva permesso a Sereni di prendere coscienza che alcune modificazioni fondamentali erano in corso dopo la tumultuosa modernizzazione degli anni Cinquanta.

Di particolare importanza per comprendere alcune sue grandi intuizioni rispetto al nuovo che stava avanzando, sono i saggi che egli scrisse nel 1968 sulla rivista “Critica marxista”, di cui era direttore. I titoli dei due scritti già fanno cogliere il senso della sua riflessione: “Informazione democrazia socialismo” e “Rivoluzione scientifico-tecnologica e movimento studentesco”. In questi saggi lo studioso invitava la sinistra a cogliere le novità che si intravedevano nelle lotte studentesche e ad aprire una riflessione critica e autocritica per adeguare le proprie strategie.

Sereni individuava nella contestazione degli studenti, prima ancora di una ripulsa del sistema sociale, un rifiuto della collocazione che i primi sviluppi della rivoluzione scientifico-tecnologica assegnava a studenti e ricercatori nell’ambito dei sistemi informatici e della scienza. Coglieva nelle inusitate forme di lotta dei contadini (latte rovesciato per le strade, lancio di pomodori e altri ortaggi verso le autorità, ecc.) non già lo scadimento verso forme qualunquiste, primitive o anarchiche ma elementi di analogia con le forme di lotta degli studenti. Naturalmente, non ne traeva affatto la conclusione che i contadini e gli studenti si fossero d’un tratto trasformati in forze rivoluzionarie. Ma riteneva che entrambe queste forze sociali reagivano inconsapevolmente agli effetti di una novità sconvolgente: la rivoluzione scientifico-tecnologica che si era appena avviata veniva ad incidere direttamente nei rapporti produttivi, aprendo sicuramente opportunità enormi di libertà e di progresso per tutti, ma a condizione che tutti vi potessero accedere. E coglieva, dunque, il dischiudersi di una dialettica nuova che avrebbe potuto preludere il superamento di una società divisa in classi e l’affermarsi del protagonismo di un mondo che stava per passare dal regno della necessità a quello della libertà.

Sereni, in sostanza, poneva la questione della scienza come forza direttamente produttiva. Come ha osservato Franco Cazzola, «questa non era una cosa scontata in quegli anni». «Da marxista “ortodosso” – rileva lo storico – Sereni impostava la questione della conoscenza come sovrastruttura, che però nelle nuove condizioni poteva diventare forza direttamente produttiva». Egli usciva così dalla sua ortodossia perché aveva già percepito come la rapidità della comunicazione e l’aumento esponenziale della capacità di calcolo nei processi informatici erano forze capaci di avere un impatto di grande rilievo sull’intera economia. Ma non solo: la sua biblioteca ospitava una serie cospicua di libri e di studi sul tema dell’informatica. In opere precedenti, egli aveva sottolineato la volontà e la decisione della borghesia italiana postunitaria di fare subito le ferrovie, anche se esse costavano troppo, anche se erano fatte male, anche se erano economicamente inefficienti. Puntare sulla velocità di comunicazione era una scelta della borghesia risorgimentale che – per Sereni – presentava molti punti di contatto con il rapido avvento della cibernetica e dell’informatica nella seconda metà del secolo XX.

Come ha sottolineato Giorgio Vecchio, Sereni fu capace di guardare oltre i meri dati della cronaca dei movimenti che si stavano sviluppando ed evitò di pronunciarsi sulla situazione contingente del Sessantotto italiano. Mentre Giorgio Amendola accusava gli studenti di «rigurgito di infantilismo estremista» e, al contrario, Luigi Longo spronava il suo partito ad abbandonare la «difesa rigida, muro contro muro, senza nessuna apertura alla comprensione delle ragioni ed anche alla contestazione degli argomenti altrui», Sereni si distaccò dalla battaglia politica contingente per tentare di cogliere i caratteri comuni e le differenze tra tutti i movimenti giovanili di quel periodo che si esprimevano nelle diverse aree del pianeta. Nel suo intervento a Berlino al convegno scientifico internazionale che si svolse dal 2 al 4 maggio 1968 in occasione del 150° anniversario della nascita di Karl Marx, egli invitò a guardare «con attenzione, ma con comprensione e fiducia a questo moto delle giovani generazioni studentesche, apprendiste e pioniere di una scienza nuova che già diviene forza immediatamente produttiva».
Come si può notare da questi brevi cenni riguardanti la riflessione di Sereni sulle trasformazioni che stavano avvenendo nella società, ci troviamo dinanzi ad anticipazioni di grande rilevanza che i suoi contemporanei non seppero cogliere.

Non sappiamo se Sereni – che conosceva il russo – avesse letto i “Grundrisse” di Marx, editi per la prima volta a Mosca tra il 1939 e il 1941, quando Stalin pensava che non potessero più danneggiare il dominio dello Stato guida del socialismo basato sulla centralità della grande fabbrica. Fatto sta che – come ha ricordato recentemente Michele Mezza – «solo nel 1973 questi testi, che neanche Friedrich Engels lesse mai, saranno disponibili in inglese». In Italia furono tradotti per la prima volta proprio nel 1968 da Enzo Grillo per i tipi della casa editrice La Nuova Italia, diretta da Ernesto Codignola e successivamente dal figlio Tristano. In quelle pagine, Marx prefigura il superamento del conflitto capitale-lavoro, assumendo proprio il sapere come motore delle relazioni sociali: «la potenza produttiva dipende sempre più dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia e dall’applicazione di questa scienza alla produzione». Ma a Sereni già nel 1968 era perfettamente chiaro il ruolo fondamentale che stava assumendo nel mondo lo sviluppo dell’automazione e dell’informatica e, in generale, la scienza (intesa non solo come scienze fisiche e naturali, ma anche scienze economiche e sociali): un ruolo di forza immediatamente produttiva. Ed è per questo che in un convegno organizzato dall’Alleanza dei contadini, nel marzo del 1968, egli affermò senza mezzi termini che «problemi come quelli dell’istruzione, dell’educazione, dell’università, delle lotte degli universitari non possiamo e non dobbiamo considerarli in quanto organizzazioni democratiche dei contadini, come delle lotte alle quali noi prestiamo il nostro appoggio perché lotte democratiche e progressive, ma che in fondo, non ci riguardano; noi dobbiamo acquistare sempre più matura coscienza che la nostra lotta, la lotta delle masse contadine italiane, le lotte degli studenti come tutte le lotte democratiche e progressive delle masse lavoratrici, sono lotte nostre, parte di un’unica grande lotta perché tutte le immense possibilità che la seconda rivoluzione scientifico-tecnologica apre di fronte all’umanità possono diventare una realtà, non soltanto per ristretti gruppi di privilegiati e di sfruttatori, ma per quelle masse contadine che a tutt’oggi costituiscono, nel nostro Paese, una parte così importante della popolazione e che costituiscono la massa decisiva della popolazione del mondo intiero».

Al di là di qualche politico illuminato come Sereni, rimasto incompreso e isolato, la sinistra italiana degli anni Sessanta ignorò completamente quel fenomeno di intraprendenza competitiva che si sprigionò sulla scena planetaria e si chiamerà “Silicon Valley”, accompagnando la transizione dal “free spech” al “free software”. Un fenomeno che mise in marcia in Occidente una riformattazione della politica e delle tecniche della comunicazione persuasiva. Eppure era lo spirito del Sessantotto ad animare i precursori di Internet della “Silicon Valley”, in un rimpallo fra le intuizioni di Adriano Olivetti, che pensava a un sistema informatico direttamente disponibile per gli utenti finali, scavalcando i grandi mediatori industriali, e quella congerie di giovani scanzonati e appassionati che nelle università californiane cercavano strade per sottrarsi al controllo del potere centrale. Ma, in Italia, le antenne della politica e della cultura non riuscirono a intercettare quel possente processo di riorganizzazione delle forme di vita che fu allora l’insorgere della tecnologia digitale distribuita. E ancora oggi la politica e la cultura in Italia sono per lo più incapaci di cogliere la straordinaria attualità di personalità di spicco come Olivetti e Sereni, da considerare per questo come “intellettuali postumi”.

Come ha acutamente rilevato Giuseppe Prestipino, nella riflessione di Sereni sul Sessantotto si avverte un senso profondo di insoddisfazione per «le situazioni di resistenza culturale e istituzionale» alle nuove tendenze indotte dai «progressi impetuosi della rivoluzione scientifica e tecnologica». Forse a questo disagio esistenziale si deve il suo distacco dalla politica per concentrare, negli ultimi anni della sua vita, il suo impegno quasi esclusivamente agli studi storici.

Nel 1993, sua figlia Clara, che nel Sessantotto aveva fatto le sue prime esperienze politiche nelle università occupate, ha scritto nel suo capolavoro “Il gioco dei regni” a proposito del padre: «Attorno a lui il mondo intero, inesorabilmente, cambiava: per inciampi, per evoluzione, per catastrofi. Non ammise mai di aver smesso di credere: non nel ’56, quando l’Ungheria fu invasa e l’obbedienza significò allontanamenti e cesure; non nel ’67, quando la guerra in Medio Oriente gli deflagrò dentro, e scelse le ragioni del Partito negandosi a quelle degli affetti; non nel ’68, quando anche in casa le passioni del comunismo si delinearono diverse, e intanto i carri armati occupavano Praga. Non lo ammise mai, forse perché nessuno affrontò il disagio di chiederglielo: stupiti del suo progressivo ammutolire tutti, perfino i compagni che gli erano stati più vicini, senza domande si ritrassero, per rispetto e per opportunità».

A pensarci bene oggi, forse a tormentare Sereni e a rinchiuderlo in un ricercato silenzio fino alla morte (1977) non era tanto il consumarsi di una visione ideologica e di un’adesione cieca al blocco sovietico, quanto invece il senso di profonda incomprensione – che avvertiva intorno a sé, finanche in famiglia – per le sue intuizioni visionarie dei processi che sarebbero avvenuti di lì a pochi anni e di cui nessuno parve interessato.

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