Saperi

Un seme fatto per crescere

La parabola del seminatore nel Vangelo di Matteo offre una ricchezza di interpretazioni e letture. La diversa natura dei terreni è il centro focale della parabola. Ciò che emerge, è che il raccolto non è soltanto qualcosa che viene per effetto della semina, ma ne è il prodotto che si attende per il futuro

Lorenzo Saraceno

Un seme fatto per crescere

La parabola del seminatore è proposta da tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) come modello del metodo di Gesù di predicare in parabole. Insomma appare come una parabola programmatica, in qualche modo emblematica. Possiamo anche notare che ce la trasmettono senza varianti di rilievo ai fini di un’individuazione del senso globale. In Matteo in particolare la parabola è come il portale che apre a un discorso che raccoglie sette parabole, le cosiddette “Parabole del regno”.

Per certi versi il testo è molto lineare, come quasi sempre accade nelle parabole, tanto da chiedersi che bisogno c’era di una richiesta successiva di spiegazione da parte dei discepoli, che tutte e tre le versioni ci raccontano. Il linguaggio allusivo sembra particolarmente suggestivo e immediato. Notiamo comunque che già all’inizio di questa parabola vi è un elemento che la distingue dalle altre del capitolo: qui l’inizio non è il classico «Il Regno dei cieli è simile a…», la proposta cioè di un’analogia su cui riflettere, ma si entra direttamente nel racconto figurato, senza mediazioni: «Ecco, il seminatore uscì a seminare…»; il che dà al racconto la forma di un apologo. Ciò si attaglia bene al carattere programmatico, di apertura di tutto il discorso che si diceva, ma ci rende più difficile capire qual è la similitudine fondamentale su cui il racconto vuole fissare l’attenzione. Quel gesto così ordinario per un tempo in cui l’agricoltura era il referente di base per ogni idea di lavoro per vivere, e di conseguenza per l’immaginario collettivo, quale realtà vuole simboleggiare? In altri termini: qual è la pointe, il punto determinante che fa da perno a tutto il racconto?

Per rispondere dobbiamo allora individuare quale sia l’oggetto della similitudine, o detto altrimenti il protagonista a partire dalla quale si organizza il messaggio della parabola. Ecco alcune possibili proposte: il seminatore e il suo comportamento? La sorte molteplice della semente? Il successo finale del raccolto nonostante i fallimenti? La diversa natura dei terreni, che determina successo o fallimento?

La diversa natura dei terreni è certamente il centro focale intorno al quale si organizza poi la spiegazione/interpretazione proposta da Gesù, ma si deve riconoscere che questo spinge in secondo piano proprio quell’attenzione a un protagonista definito su cui sembrava voler richiamare l’attenzione l’incipit dell’apologo: un seminatore che esce a seminare.

In realtà tutte e quattro le prospettive sopra enumerate sembrano essere implicate dalla parabola: ci viene proposto un racconto che, quanto più sono attivi gli attori messi in scena (con l’effetto di aprire a molteplici punti di vista nella lettura), tanto più è pregnante e aperto alla polivalenza di significati. Ma ugualmente ci viene da chiederci: qual è il nesso analogico da cui si muoveva la provocazione originale di Gesù?

Cerco di proporre una risposta attraverso un esame del racconto nel suo sviluppo narrativo, quello stesso che prima ci faceva parlare di apologo, di racconto figurato. Partiamo con l’osservare che il racconto si sviluppa contemporaneamente su due dimensioni, o prospettive.

Da una parte, si fonda, come è tipico di molte parabole, su un contrasto tra un elemento positivo e un elemento negativo, i cui poli sono in questo caso la sterilità e la fecondità della semina, che stanno tra loro in rapporto 3:1 (tre casi di sterilità, uno di fecondità). Abbiamo strutture simili (vedi nota 1). La sproporzione ordinariamente vale per mettere in rilievo l’ultimo termine, in questo caso il terreno buono e fruttifero.

Dall’altra, il contrasto è tanto maggiormente messo in evidenza da una progressione, anzi meglio da due: una ascendente dal negativo al positivo, che va dallo scacco immediato del seme divorato dagli uccelli, allo scacco che avviene solo dopo un po’ di tempo, nonostante lo sforzo, da parte del seme infine soffocato prima dalla carenza di humus, poi dalle spine, fino alla crescita possibile nel terreno buono; l’altra tutta al positivo, ma in senso inverso, riguardo al rendimento del cento, del sessanta e del trenta (in Marco e in Luca invece le progressioni sono entrambe ascendenti).

Che cosa dedurne?
In primo luogo che questo seme cerca a tutti i costi di crescere, di produrre nonostante l’apparente insensatezza del seminatore (a meno di dare credito alla difesa di chi fa presente il metodo usato nell’antica Palestina di seminare prima dell’aratura, un sistema rimesso in auge oggi dalla agricoltura dolce o blu) e nonostante l’inadeguatezza del terreno.

In secondo luogo che, malgrado i fallimenti tanto accuratamente descritti, quasi con voluta lentezza, ecco che all’improvviso viene il successo finale, che supera ogni speranza: perché questo seme che cresce è così vitale che, appena trova un terreno adatto, esplode in una produttività strabiliante: «Ci sarà abbondanza di frumento sulla terra, fino alle sommità dei monti» (Salmo 72,16).

In questa luce possiamo ora cercare di rispondere alla domanda che si era posta: qual è il messaggio principale su cui verte il racconto?
Come si è osservato, si deve tenere conto della polivalenza che caratterizza l’arte parabolica di Gesù. Chi possiamo vedere evocato per analogia in ognuno dei tre personaggi caratteristici della parabola? Nel seminatore potremmo vedere sia la figura del Padre che manda il suo Messia a predicare, sia Gesù stesso che parla del suo atteggiamento nel predicare l’evangelo, sia (ma questa è ormai analogia secondaria, che dipende dalle precedenti) qualsiasi predicatore nel nome di Cristo. Nel seme potremmo considerare il regno, la parola, la salvezza. Il terreno va decodificato di conseguenza nel destinatario di quest’azione combinata del seminatore e del seme. Tenuto conto di queste polivalenze che vanno lasciate tutte ben presenti come sensi potenziali, direi che – a un primo livello di comprensione – il messaggio che possiamo trovare nella parabola è che infine, quali che siano le difficoltà che si possono frapporre, il seme gettato dal seminatore non può che avere successo; e questo successo non può essere commisurato sulle forze e sulle attese, per così dire, del terreno, ma su quelle di un seminatore tutto particolare e della bontà del seme che semina (vedi nota 2).

Dunque, se proviamo ad applicare la situazione a un possibile primo termine di paragone, la predicazione dell’evangelo, Gesù non nasconde le difficoltà che il seminatore può incontrare, l’apparente fallimento cui la sua predicazione può andare incontro, ma questo non deve essere motivo di scoraggiamento per il discepolo che ha di fronte e lo ascolta, per noi che ci confrontiamo con le difficoltà a fare attecchire il seme prima di tutto in noi stessi, poi intorno a noi. Quando si ha a che fare con il dono di Dio si deve tenere conto della potenza intrinseca che esso porta e provoca attorno a sé.

Questo dunque è il primo evangelo (nel senso originale di “buona novella”) della parabola: il fatto che infine questo seme, la buona novella del regno, gettato per crescere, produrrà frutto. Lo stesso vale almeno per le altre tre parabole che seguono in Matteo (quella del buon seme e della zizzania, quella del granello di senape e quella del lievito nella pasta). La prospettiva entro cui collocarci in prima istanza è allora quella della speranza, che è essenzialmente la speranza stessa del seminatore (in fondo da questo punto di vista poco importa se in lui identifichiamo l’immagine del Padre o quella di Gesù stesso): tanto ostinato, tanto apparentemente scriteriato da seminare ovunque, senza calcoli preventivi di rischi e di probabilità, perché infine verrà il tempo della fecondità.

E questa ostinazione del seminatore è il secondo evangelo, la seconda parola di speranza della parabola: il seminatore comunque semina. In Matteo, si è visto, c’è una progressione discendente della produttività (100, 60, 30), contrariamente a quella ascendente degli altri Sinottici, là volta a rendere più evidente la dimensione iperbolica del frutto conseguito e forse più coerente con la logica originale del racconto. Nel caso di Matteo il ridursi progressivo dell’effetto, per quanto sempre debordante rispetto all’esperienza comune, dà a mio avviso un tono particolare, a questa speranza ostinata: per quanto prodigioso, questo raccolto può essere parziale rispetto alle potenzialità, ma basta un po’ di buona disposizione che qualcosa viene fuori.

C’è poi una terza parola di speranza, che riguarda i «misteri del regno» (13,11) di cui tutte le parabole del capitolo 13, che seguono a questa, parlano per analogia: tanto seme seminato invano può sembrare inutile, ma il momento della fecondità non è solo quello del raccolto, che verrà dopo questo incerto momento, in cui ancora non si sa bene come andrà a finire. In realtà il regno è già qui, in questo seminare. Il raccolto non è soltanto qualcosa che viene per effetto della semina, ma ne è il prodotto che si attende per il futuro. Ma già nel seme fatto per crescere, già qui, ora, il regno agisce, anche se ancora non siamo nel regno, e dunque si deve seminare ad ogni costo. Anche se è pur vero che, nella prospettiva dell’immagine del seme su cui spesso Gesù sembra essere ritornato da più punti di vista, dobbiamo sapere che, se il seme non muore, non porta frutto (cf. Giov. 12,24): a ben pensare una buona parabola non solo del mistero cristiano, ma anche di ogni esperienza di vita, di relazione, fin anche di lavoro.

Nota 1. Per esempio una delle poche “parabole” dell’Antico Testamento, cioè l’apologo di Iotam sugli alberi alla ricerca di un re (Gdc 9,9-15), e, stando a Matteo, la parabola degli operai della vigna (20,1-16), quella degli invitati al banchetto (22,1-14), quella dei talenti (25,14-30).

Nota 2. Non a caso in Marco 4,26-29 a questa parabola segue, tra quelle che le fanno da corollario, quella del seme che cresce «automaticamente».

L’immagine di apertura riprende un particolare del dipinto di Guido Reni, San Matteo e l’Angelo

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