Saperi

Un triciclo

Narrazioni. Donne che si curavano. Donne che si dedicavano del tempo. Io ero al massimo un fai da te dell’estetica. Mi decoloravo baffi e peli in casa con certe bustine che trovavo in commercio. Con il risultato che peli e baffi rimanevano. Anche se biondi. Se non sei bella gli uomini ti schiaffano quei loro occhi indagatori addosso come se volessero dirti: «Ma che ci fai qui?»

Mariapia Frigerio

Un triciclo

A me fu difficile dirlo. Perché non ero come le altre donne, almeno quelle che frequentavano la mia pettinatrice.
Ero brutta e, per la legge che a disgrazia si aggiunge disgrazia, avevo pochi capelli. Quello che non era servito a donarmi chiome fluenti o, perlomeno, accettabili mi si era riversato sul corpo e sul viso. Avevo infatti gambe pelose più delle altre. Labbra con baffi più delle altre.
Con uno sforzo per me disumano però quella volta riuscii a dire: «Baffi!». E prontamente, anche se incredula, la ragazza della parrucchiera mi si avvicinò con la ciotolina e cominciò a spalmarmi quella pappetta verdognola sul labbro superiore che avevo sempre visto mettere a certe clienti.
Le altre… Donne che si curavano. Donne che si dedicavano del tempo.
Io ero al massimo un fai da te dell’estetica. Mi decoloravo baffi e peli in casa con certe bustine che trovavo in commercio. Con il risultato che peli e baffi rimanevano. Anche se biondi.
Potere dell’illusione. Credere che il biondo fosse meglio del castano. In ogni caso è bene si sappia che non lo facevo con l’intento di piacere, ma perché avevo sentito certe risatine delle mie colleghe. Per non parlare degli sguardi dei colleghi.
Se non sei bella gli uomini ti schiaffano quei loro occhi indagatori addosso come se volessero dirti: «Ma che ci fai qui?».
E si può capire, visto che le mie colleghe erano tutte mogliettine deliziose o dell’avvocato o del medico o del commercialista del luogo. C’era anche la moglie dell’industriale. Anche se l’industria era magari poco più che una piccola fabbrica. E comunque anche lei bella ed elegante.
C’era sempre per loro la battuta pronta. Cortese e nello stesso tempo ammiccante.
Per me, l’insegnante di francese, brutta, baffuta e single non c’era spazio.
Eccetto quella volta.

……

Felipa è giovane. Viso andino e corpo spettacolare. Gli uomini le piantano gli occhi addosso quando la vedono. Occhi pieni di desiderio. Occhi che neppure quando avevo la sua età ho mai visto guardarmi. Che dico? Guardarmi? Neppure sfiorarmi rapidamente. Neppure la curiosità di un attimo. Mai – dico mai – un uomo che mi abbia guardata. In quel modo lì.
A parte quella volta.

Felipa spinge la mia carrozzella. Passa imperterrita tra quegli sguardi. Dribbla con abilità i complimenti più audaci.
Tutte le mattine – estate o inverno che sia – mi porta nella via principale del paese. Secondo il mio volere.
Le do ordini precisi. Voglio che li rispetti.
Non sono tenera con lei. È la mia vendetta per la sua giovinezza. Per la sua sfrontata bellezza.
Quel percorrere quotidianamente lo stesso tragitto non è casuale.
È legato…

È orribile dipendere da un’altra persona. Farti spogliare, lavare, rivestire. Chiamarla per le tue esigenze fisiologiche.
Hai ribrezzo del tuo corpo che non è mai stato bello, ma che ora, con l’età, è in totale degrado. Ti chiedi se sia giusto che una persona si debba sorbire quello spettacolo. Si debba prestare a quelle sgradevoli incombenze. Per soldi. Pochi soldi poi, visto che non sei neppure ricca.
È orribile quando la sera ti mette a letto come se tu fossi una bambina e dopo, dall’altra stanza, senti la sua voce parlare al cellulare in uno spagnolo che, per la distanza e per il poco amore per quella lingua, fatichi a capire.
Perché chi ama il francese non può amare lo spagnolo. Lo spagnolo lo possono amare gli inglesi. Chi ama il francese può, al massimo, amare il tedesco.
Ti accorgi che ti inerpichi su ragionamenti idioti – come quello delle lingue – perché ormai non hai più voglia né di leggere né di guardare la televisione. Non hai più voglia di niente. L’unica cosa che vorresti è avere della vita da vivere e non da subire. Sei vecchia, ma non vecchissima. Potresti pretendere ancora… Se non fosse per le gambe che hanno, quasi di punto in bianco, dichiarato il blackout.
Così l’invidia per quella voce che continua a parlare al telefono aumenta. Poi la senti ridere…
Ma non sai con chi parla. Del resto il tuo orgoglio sfrenato non ti ha permesso di entrare in contatto con lei. Di chiederle della sua vita e dei suoi amori.
È chiaro che ride con un uomo. Questo lo si capisce anche se c’è una parete di mezzo.
Lo si capisce… Lo capisco perché anch’io sono una donna. Vorrei urlarlo che anch’io sono una donna. Anche se sono brutta e vecchia.
Invece né urlo né parlo. Resto con gli occhi al soffitto in attesa di un’altra interminabile notte.
Quelle risa al telefono…
Le odio e odio lei.
Forse perché anch’io una volta…
Quella volta.

……

Lo avevo visto, di spalle, entrando al caffè. I capelli castani e mossi gli coprivano completamente il collo. Mi ero girata con finta indifferenza per osservargli il volto. Ero rimasta colpita dalla sua bellezza. Da quel busto imponente che sedeva su una carrozzella. Da quel viso con tratti signorili. Da quelle labbra carnose. Si capiva subito che non era uno qualsiasi.
Poi, improvvisa, l’immagine di qualche mese prima.
Io che in auto (la mia 850 azzurra di seconda mano) supero una specie di triciclo motorizzato. Mi getto decisamente a sinistra per essere sicura di non urtarlo. Solo dopo averlo sorpassato ritorno sulla destra. Un’occhiata allo specchietto retrovisore e vedo un uomo che agita la mano in segno di saluto.
Mi accorgo che è un uomo diverso. Diverso… e non solo perché è paralizzato. Ne resto turbata.
Più turbata ancora rimango quando mi rendo conto che l’uomo seduto al caffè è lui. Quello del triciclo. Quello che mesi prima aveva gesticolato per salutarmi.
Nel tempo del mio caffè lui si è spostato all’uscita. Per andarmene sono costretta a passargli accanto. Non c’è sufficiente spazio sulla porta d’ingresso per me e per la sua carrozzella. Non so cosa fare. Lui resta lì. Immobile.
Il fatto di essere brutta mi rende insicura. Mi rende timida in modo esasperato. Ma devo assolutamente tornare a casa. Ho compiti da correggere e Cyrano che mi aspetta. Lo so, lo so che non aspetta me, ma quelle crocchette che tanto gli piacciono… Però mi piace illudermi. È una necessità. Ho sempre pensato che anche Honoré e Gustave e Marcel, insomma tutti gatti che ho avuto, aspettassero me. Anche se non era così.
Perché nella mia vita nessuno mai mi ha aspettata.
Eccetto, per un breve periodo, lui.

Mi feci coraggio e gli passai accanto.
«Mi scusi, ma devo uscire» pronunciai con non so neppure io quale voce.
«È lei che deve scusare me. Sposto subito il mio mezzo». L’ironia delle sue parole era accompagnata da una voce profonda e decisa. La voce di un uomo sicuro di sé nonostante la forte menomazione. E immediatamente – con fare sportivo – si aggrappò alle ruote a fianco dei braccioli e con due colpi ben assestati spinse la carrozzella fuori dal caffè.
Io goffamente lo seguii.
Poi lo superai salutandolo con un cenno di capo. Allora fu lui a seguire me. Mi seguì e mi parlò.
«Non è di qui, vero?»
«No, cioè sì… mio padre era maresciallo… e questo è stato il suo ultimo trasferimento. Ma non siamo… non sono di qui».
«Non l’avevo mai vista prima, infatti».
«Beh, veramente…». Ero imbarazzatissima. Non sapevo cosa rispondergli. Potevo dirgli che per me un posto o un altro erano la stessa cosa? Che per me poteva andare benissimo vivere in un paese pettegolo e retrogrado come questo, tanto che mi cambiava? A Roma ormai non avevo più nessuno. Così dopo la morte di mio padre ero rimasta qui. Poi c’era stata l’assegnazione della cattedra di francese nel liceo di ***. Insomma in meno di mezz’ora ci arrivavo. Soprattutto da quando mi ero comprata la 850 azzurra.
Certo che i miei allievi ridevano di me e della mia auto. Loro erano ricchi. Quasi tutti quelli che giravano intorno al liceo della cittadina di mare erano ricchi. Ricchi e spendaccioni.
A me bastava lavorare. Poi me ne tornavo nella vallata, in questo paese dove tutti sanno tutto di tutti. Tornavo nel mio appartamento di due stanze con piccolo soggiorno che mio padre era riuscito a riscattare con i suoi risparmi e le ultime rate dell’affitto. Era sulla via esterna, ma non lontano dal centro. Per questo qualche volta mi concedevo il lusso, prima di rientrare a casa, di prendermi un caffè nella via centrale dopo aver terminato una riunione pomeridiana a scuola.
Per questo, in quel tardo pomeriggio, conobbi Ruggero.

Comunque quella sera dopo il mio balbettio imbarazzato, affrettai il passo e raggiunsi l’auto. Senza girarmi verso di lui.
Il mattino dopo era il mio giorno libero. Appena sveglia telefonai alla pettinatrice e presi un appuntamento. Fu quella la prima volta che decisi di farmi levare i baffi in modo civile. E, per il pomeriggio successivo, prenotai la depilazione alle gambe. Non voglio neanche pensare a cosa avranno detto di me. Di me… della Siria, la più dimessa del paese.
È difficile da spiegare. Non sono e non ero neppure all’epoca una sciocca e poi avevo già trentacinque anni…
Ma dopo quelle domande dello sconosciuto qualcosa mi si era mosso dentro. Qualcosa di altrettanto sconosciuto e di mai provato prima.

……

Fu lui a dirmi: «Voglio venire da te».
«Da me?»
«Sì, a casa tua».
Ringraziai il cielo che la mia 850 fosse sufficiente per la carrozzella pieghevole. Ruggero atleticamente si infilò di fianco al posto di guida.
Non parlava molto, ma bastavano le poche parole che diceva – misurate, ironiche e profonde al tempo stesso – per mettermi addosso un’agitazione… una piacevolissima agitazione. Parlava in un linguaggio volutamente piano, senza enfasi. Ma che era una persona molto colta lo capii subito.
La sua idea era stata decisamente imbarazzante. Perché, senza rendermene esplicitamente partecipe, aveva stabilito di vivere da me.
Scaricai la carrozzella e la accostai al lato della sua portiera. Lui con incredibile agilità ci si mise sopra. Aprii la porta d’ingresso. Poi quella del mio appartamento, al piano terreno. Lui entrò con grande disinvoltura e, con Cyrano che gli era saltato subito sulle ginocchia – come se l’avesse sempre conosciuto -, si piazzò davanti alla libreria finto seicento. L’orgoglio di mio padre. Uno specie di scatto sociale, dal suo punto di vista, quella libreria barocca.
In quel momento ne provai vergogna. Non sapevo niente di lui, ma mi era chiaro che doveva essere un uomo ricco. Quel triciclo motorizzato in anni impensabili. Quel suo fare deciso. Quel suo parlare non comune.
Ovviamente gli scaffali abbondavano di letteratura francese. Lui però estrasse La anime morte di Gogol’ e quando vide La vita del signore di Molière di Bulgakov mi guardò con un sorriso complice.
«Uno dei più bei libri che abbia letto. L’amore dei russi per la Francia… c’è tutto, non trovi?». Poi all’improvviso qualcosa lo rattristò. Ma si riprese e mi domandò: «Sei mai stata in Russia?». Mi piaceva che dicesse Russia e non U.R.S.S.
Che cosa potevo rispondergli io che a malapena ero andata a Mentone per fare un po’ di pratica di francese ospite di zia Gina, una lontana parente di mio padre, e a Parigi una sola volta in gita scolastica?
Ma non mi vergognavo con lui. Non più. Mi erano bastati pochi minuti della sua presenza nella mia modesta casa per dimenticare la bruttezza della libreria e la vita misera che sempre avevo condotto.
«No, mai».
«Ci andremo insieme».
Nuovamente mi sorrise.

Venne il momento di andare a dormire. Rifiutò la stanza che io avevo definito degli ospiti. Disse che avrebbe dormito nella mia camera.
In quel grande letto matrimoniale che da quando mio padre era morto occupavo io.
Non avevo mai dormito con un uomo. Non avevo mai amato un uomo.
Lui m’insegnò. Prima a spogliarlo, poi a metterlo a letto.
E in quella notte in cui per la prima volta mi sentii accettata, a trentacinque anni, lui mi fece conoscere l’amore.

Non posso dire di avere deciso niente. Tutto sembrava seguire un filo prestabilito. Di certo non da me.
Così io andavo a scuola e al ritorno mi trovavo il pranzo pronto. Non ho mai saputo come avesse fatto a recuperare il suo triciclo senza il mio aiuto, ma già dal secondo giorno di convivenza lo vidi posteggiato fuori casa.
La spesa era fatta. La tavola apparecchiata con cura. Lui si destreggiava con abilità tra fornelli e tavolo della cucina. Voleva a tutti i costi servirmi perché io avevo lavorato. Perché – secondo lui – dovevo essere stanca.
Poi andavamo a riposare… Era lui che m’imponeva di riposare.
Sul letto matrimoniale ci sdraiavamo l’uno accanto all’altra. A eccezione della nostra prima sera in cui aveva sollecitato il mio aiuto, ormai si spogliava e si stendeva da solo. Con grande disinvoltura.
Era veloce nel passare dalla carrozzella al letto e viceversa. E altrettanto veloce era quando inforcava le stampelle e se ne andava o in bagno o in cucina o a prendere un libro in soggiorno.
Ammiravo la forza delle sue braccia e le sue bellissime gambe. Tanto belle quanto inservibili.
Fu comunque un tacito accordo il nostro.
Senza che mai ne avesse fatto il minimo cenno capii che non dovevo chiedergli niente.

Sul fronte spese – da quando abitavamo insieme – si faceva carico di tutto. Trovavo bollette pagate, spesa fatta. Se uscivamo insieme mi faceva il pieno di benzina. Offriva lui i pranzi e le cene le volte che ci fermavamo fuori.
Ancora una volta capivo che il suo desiderio era che io ubbidissi senza fare domande.
Non voglio passare per una interessata… Per stare con Ruggero avrei pagato io, sia chiaro. Ma siccome non mi era permesso contribuire neppure alle più piccole spese, mi concedevo – con tutto quello che risparmiavo – dei lussi per me impensabili. Ma erano lussi che avevano come unico scopo piacere a lui.
Intanto avevo smesso di andare dalla pettinatrice del paese. Ora baffi e depilazione me li facevo fare da un’estetista specializzata nella cittadina di mare e anche per la messa in piega mi rivolgevo a un vero e proprio coiffeur pour dames.
Che fine aveva fatto la Siria, la professoressa Guidoni, si saranno chiesti tutti quelli che ora – da quando c’era lui – non mi vedevano più? La pettinatrice, i fornitori da cui timidamente mi servivo… Sparita, avranno pensato.
In effetti lui mi aveva sostituito in tutto. E le nostre uscite insieme erano altrove. Non eravamo più tornati neppure nel caffé del nostro primo incontro.

Tutto era iniziato a metà ottobre. L’autunno con i suoi colori era stato lo scenario dell’inizio della nostra storia.
Ero felice della mia 850 perché così potevamo goderci tramonti di indescrivibile bellezza verso la marina o percorrere le colline intorno alla vallata. Io, lui e la carrozzella.
Dico che ero felice perché non posso affermare con certezza che anche lui lo fosse. In ogni caso non felice quanto me. Ma in certi momenti mi piaceva illudermi. Poi, improvvisamente, una nube (l’ombra di un pensiero triste) me lo allontanava. Era rapidissimo, però, nel riprendersi. E dopo la sua assenza momentanea ritornava a essere quel Ruggero premuroso e tenero che mai avrei immaginato d’incontrare nella mia vita.
La mia felicità si protrasse anche nell’inverno gelido che seguì.
Continuavamo a uscire in auto. Avevo superato ogni imbarazzo con lui. Arrivavo persino a compiere i gesti tipici delle mogli amorose. Avevo eccessi di attenzioni per lui. Prima di piegare la carrozzella, non appena si era infilato in macchina, gli aggiustavo la sciarpa intorno al collo. Avevo il terrore che anche la più piccola malattia me lo potesse levare. Lui se ne accorgeva. Con l’immancabile ironia mi diceva: «Ecco sistemato il tuo bambolotto».
Non osavo rispondergli, ma ci restavo male, perché non riversavo su di lui un irrealizzato istinto materno. Era invece – volere della sorte – un uomo a cui mi appoggiavo e non un figlio che non avevo avuto tempo e modo di desiderare. Era l’uomo che amavo.
In quel rigido inverno giungemmo ad andare a letto a ore impossibili. Ovvero sempre più presto. Nel letto leggevamo, facevamo l’amore o semplicemente ci stringevamo. Lui lo faceva con abbracci vigorosissimi. Facevamo, come mi diceva, i «vasi comunicanti» tenendoci stretti stretti l’uno all’altra come se il nostro amore potesse passare attraverso pelle, carne, muscoli, ossa. Potesse trascorrere dall’uno all’altra con continuità, senza interruzioni.
Cyrano, sempre dalla sua parte, si allungava alle sue carezze.
Lui gli bisbigliava: «Buono, Pusc… dormi, Pusc».
Ancora una volta non gli feci domande sul perché di quel nomignolo.
Con l’arrivo della primavera Ruggero iniziò a uscire anche per proprio conto. Lo avevo capito da piccoli, impercettibili particolari. Però lo trovavo sempre ad aspettarmi al mio rientro.
Per il solito tacito accordo non gli chiesi mai dove andasse.

……

Quando, in quella sera di metà giugno, rientrai dallo scrutinio non vidi il triciclo posteggiato, come sempre, fuori casa.
Mi sentii persa. Dov’era?
Cercai di tranquillizzarmi pensando alla giornata quasi estiva. Ricordando che prima ancora dell’incontro al caffè lo avevo visto girare solo per il lungo viale alberato. Quello stesso viale dal quale mi aveva salutato dopo il mio sorpasso.
Sapevo che era un uomo indipendente… nonostante tutto.
Pensai di preparargli io cena. Trovai il frigorifero vuoto. Nessuno aveva fatto la spesa. Lui, per la prima volta in tanti mesi, non l’aveva fatta! Io mi ero fermata per lo scrutinio giù, nella cittadina di mare. Avevo mangiato frettolosamente un toast.
Ebbi uno strano presentimento. Mi precipitai in bagno. Sulla mensola non c’era più traccia di Noxema, la sua schiuma da barba, né del suo Bic bilama. Non c’era neppure più il suo spazzolino… Uscii dal bagno e andai in camera. Negli scaffali del mio dozzinale guardaroba nessuna traccia né di una camicia né di un pullover. Dal comodino era sparito anche il libro che stava leggendo.
Ero sconvolta. Mi ci vollero almeno dieci minuti per rendermi conto che sparito… sì, che Cyrano era sparito con lui.

……

Non sapevo niente di Ruggero. Neppure il suo cognome. Neppure il suo indirizzo. Avevo una vaga sensazione che neppure lui fosse di qui. Ma era solo una sensazione…
Eravamo stati insieme nove mesi. Se si fosse avverato un miracolo io avrei potuto mettere al mondo la prova del nostro amore.
Ma forse per una brutta certe prove non sono possibili.
La Siria con un figlio! Avuto da chi?
La vita per me continuava a essere difficile nonostante quell’amore inaspettato. Inaspettato nel giungere e, altrettanto, nell’andarsene.

Ho passato molte notti insonni dopo la scomparsa di Ruggero. Mi sono arrovellata su cosa gli fosse successo. Poi la conclusione è stata una.
Ci avevo pensato molto prima di arrivarci. Ma lentamente la certezza che solo quello e nessun altro poteva esserne il motivo si era impadronita di me: c’era un’altra donna. Del resto un uomo come lui poteva permetterselo. La menomazione di certo non diminuiva il suo fascino. La domanda che però mi tormentava in quei momenti era se ci fosse stata già prima del nostro incontro o se fosse una nuova conoscenza di quelle sue uscite solitarie.
Mi convinsi sempre più di essere stata una pausa nella sua vita. Anche se importante. O, forse, addirittura necessaria.
Comunque Ruggero e Cyrano se n’erano andati. Insieme.
Dopo di lui non ho più avuto uomini.
Né, tantomeno, gatti.

Non so cosa fosse stato a bloccare le belle gambe di Ruggero. So che il blackout delle mie fu causato da problemi neurologici. Quasi quarant’anni dopo il suo abbandono.
Ora, da quando devo dipendere da Felipa, non posso fare a meno di percorrere la via centrale del paese. Tutti i giorni. A volte mi faccio spingere in carrozzella fino a quel caffè. Quello del nostro primo incontro.
Mi chiedo se, per miracolo, magari…
Ma solo l’idea basta a spaventarmi.

……

Felipa sa che io non parlo volentieri con lei. Quindi – saggiamente dal mio punto di vista – limita al minimo le sue parole.
Ma quella mattina tornò dalla spesa agitatissima.
Subito mi investì: «Usted conoce al conde?».
Non sopportavo che mi parlasse in spagnolo. Poi mi infastidiva tutta quella frenesia.
Per cui non ci pensai due volte a riprenderla. E lo feci in modo alquanto sgradevole.
«Due anni… due anni che stai a casa mia. Due anni che mangi e bevi per merito mio. Perché io ti ho dato un ricovero, ricordati! Altrimenti… altrimenti chissà dove saresti. Anzi, visto che ti considerano così bella, è facile immaginare dove… ». Ci davo dentro con godimento e perfidia e lo facevo perché nelle mie condizioni a volte mi era difficile, per non dire impossibile, accettare che altri avessero quello che io non avevo mai avuto.
La bellezza… Può capire una donna bella cosa voglia dire non esserlo? No, impossibile. In preda a un’invidia che mi accecava continuai: «A cosa ti servirà essere bella se ancora non parli italiano? Se, pur conoscendolo, ti ostini a usare il tuo spagnolo. In ogni caso non mi dire più niente se non usi la mia lingua».
La ragazza era talmente turbata che probabilmente non afferrò la cattiveria delle mie parole o, forse, sì… ma… ma quello che voleva a tutti i costi che io sapessi era per lei più importante. Fece più sforzi possibili per ubbidirmi perché voleva assolutamente dirmi qualcosa. Qualcosa che secondo lei io dovevo sapere. Questo mi era chiaro. Ma l’eccitazione spesso la tradiva e allora, ecco che ci scappava lo spagnolo.
Non contenta ripresi con lo stesso tono acido: «Si può sapere perché dovrei conoscere un conte?».
«Il conte è muerto. Il conte tenia una mujer. Tenia tambien otra mujer. Usted otra mujer… Tenia tambien un gato llamado Puškin. Conte excéntrico, revolutionario y rebelde. Usted… usted otra mujer! Yo sé… todo el mundo sabe».
Non le risposi. Le dissi quello che volevo per pranzo e le diedi il pomeriggio libero. Le chiesi solo di tornare per l’ora di cena. Senza il suo aiuto non mi sarebbe stato possibile neppure mettermi a letto.
Mi accorsi che, per la prima volta in due anni, la guardavo con interesse. Quasi con una certa clemenza. Vidi che era veloce nel fare i lavori di casa e nel preparare il mangiare. Non me n’ero mai accorta prima. Non me ne importava. Pensai che dovesse essere stata una studentessa… magari una di quelle brave. Ma ancora non me la sentivo di chiederglielo. Ancora aveva il sopravvento in me l’invidia. Anche se quella sua eccitazione, quel suo prepotente bisogno di parlarmi, di parlare a una come me – senza emozioni, fredda e distaccata – mi aveva colpito. Pensai che la bellezza non è necessariamente una colpa…
Quando Felipa uscì riaccesi il mio cervello. Non uso una metafora, dico che lo riaccesi perché le parole che mi aveva versato addosso con tanta veemenza me lo avevano spento. Pensai che oltre alle gambe anche il mio povero cervello avesse dichiarato il blackout.
Sola, sulla mia carrozzella e soprattutto ora che la mia mente aveva ripreso le sue funzioni, mi sforzai di analizzare le parole della mia badante. Mi si erano stampate dentro. Non mi fu quindi difficile.
Il tono della voce di Felipa mi risuonava nel cuore e nella testa. «Voi… voi siete l’altra donna! Io lo so… tutti lo sanno».
Se io ero – ero stata – l’altra donna che cosa importava alla peruviana? Perché dirmelo? Non aveva timore che io potessi avere delle ritorsioni nei suoi confronti? Non sarebbe stato più diplomatico tenere il pettegolezzo per sé?
No, aveva a tutti i costi voluto dirmelo. Perché in lei non c’era ombra di pettegolezzo, solo un vivo interesse. Come se le si fosse aperta una finestra su quella donna astiosa che io sempre ero stata con lei.
Allora, a mio modo, cercai di ricostruire la vicenda… la vicenda che in modo così viscerale mi aveva coinvolto. La vicenda del mio unico amore…
Iniziai. Ruggero era morto. Ruggero un conte? Nulla di più probabile visto i suoi modi non comuni. Ruggero aveva una donna? Naturale, per non dire ovvio. C’ero già arrivata anch’io, se è per questo. Ma Ruggero aveva anche un’altra donna… un’altra donna che… che ero io.
A questo punto dovevo fare chiarezza dentro di me. La donna – quella che non ero io – c’era prima di me o l’aveva incontrata dopo? Che stupida! Certo che c’era prima se io ero la otra, l’altra. E poi il gatto… Feci uno sforzo di memoria. Beh, da quando Ruggero se n’era andato la mia memoria aveva iniziato ad avere cedimenti. Eppure avevo solo trentacinque anni… Questo me lo ricordo bene. A trentacinque anni soli la memoria che si affievolisce… un dramma. Fai l’insegnante e fatichi a pronunciare nomi banali per te… Dici Balzac quando vorresti dire Gautier, Flaubert quando dovresti citare Proust… E i tuoi allievi ridono. Poi arrivano i loro colti e ricchi genitori. Chiedono di parlarti. Quasi una delegazione. Il preside ci riceve tutti insieme. Io mi devo scusare… A umiliazione si aggiunge umiliazione. Inutile spiegare che ti trovi su quella cattedra perché hai vinto il concorso nazionale. A che varrebbe? Non sei dei loro né mai lo sarai. Te ne torni a casa costernata. Nessuno più che ti aspetti. Ruggero non c’è più e neppure il tuo gatto.
Comunque con grande fatica feci un ulteriore sforzo di memoria per spiegarmi quel tenia tambien un gato llamado Puškin e ricordai che Cyrano era comparso nella mia vita entrando dal terrazzino della cucina. Avevo capito che era il gatto di qualcun altro ma, visto che nessuno era venuto mai a cercarlo, lo sedussi con le famose crocchette che già davo al mio adorato Marcel. Marcel era morto troppo in fretta. Non aveva avuto le famose nove vite… No, poverino, solo tre anni era vissuto. Per soli tre anni mi aveva fatto compagnia. Con Cyrano cercai di colmarne il vuoto. Ma Cyrano aveva un altro padrone e il padrone era Ruggero. E un altro nome: Puškin. Ecco perché quand’eravamo in tre sul mio letto lo carezzava con quel «Pusc… Pusc». Nient’altro che il diminutivo del suo Alexander Sergeevič.
E l’amore per la Russia? Anche questo richiedeva una spiegazione. Avevo sempre pensato che fosse un amore letterario. E sicuramente lo era. Anche. Ma quel revolutionario y rebelde di Felipa non poteva intendersi come rivoluzionario e ribelle legato alla Russia, all’idea più intransigente di comunismo?
Io politicamente non sono mai stata niente perché sono una donna a metà. Non sono ricca né abbastanza povera. Sono una mediocre. Una modesta. Anche intellettualmente. E se sono arrivata alla cattedra del liceo di una cittadina di provincia è solo perché sono volenterosa. Molto volenterosa. E poi la necessità dove la mettiamo? Per me era necessario lavorare. Non come le mie colleghe, tutte sposate, tutte con mariti benestanti che usavano la scuola per fingersi impegnate.
Non ho mai capito nulla della storia e la storia con la esse maiuscola non è mai esistita per me. Solo la mia banale storia privata.
La seconda guerra mondiale… Per me era stato lo sfollamento da Roma a Pescasseroli. Per me era stata l’ospitalità della famosa zia Gina. Sì, quella che poi, a conflitto finito, si sarebbe trasferita a Mentone. Era stata la mia infanzia, lontana dal mondo, lontana dai confronti. Un’infanzia ancora inconsapevole della mia bruttezza.
Poi, dopo i dieci anni, il ritorno a Roma. E lì era iniziata la mia guerra personale. La mia guerra di sopravvivenza. C’era stata l’età ingrata – e non solo per me. Ma mentre le mie compagne di liceo iniziavano a prendere forma di donna io restavo qualcosa di informe. Non ero neppure grassa… Non ero. Ecco tutto.
Invece per uno come Ruggero la storia, l’impegno politico dovevano avere avuto una grande importanza.
Rivoluzionario e ribelle. Rivoluzionario… Sicuramente le idee politiche di Ruggero saranno state per l’eguaglianza. Ma i piccoli bottegai di questo paese, aspiranti capitalisti in miniatura, vi avranno visto odore di rivoluzione. Quanto a ribelle… Perché uno come lui stare in un posto come questo? Si sa che qui dagli anni Settanta hanno iniziato a venire i veri ricchi, gli intellettuali doc, quelli che disdegnavano la mediocrità della gente che passava le estati in marina. Lui era uno di quelli? Diverso per la sua invalidità? C’era forse un’equazione fra diversità e ribellione?
La testa iniziava a farmi male. Ero sola in casa. Ebbi degli attimi di panico. Perché avevo lasciata libera Felipa? Bastava le ordinassi di stare nella sua stanza se volevo starmene da sola.
Stavo male. I pensieri non mi abbandonavano.
Ruggero… Ruggero… perché decidere di vivere con una come me? La sua donna l’aveva lasciato? Certo quelle ombre, quelle nubi improvvise… Come dimenticarle? La mia solitudine… la sua solitudine. Aveva pensato come molti – come i più borghesi – che due solitudini si compensino? Aveva avuto bisogno di una donna muta come me, che lo amasse in silenzio? Ugualmente non gli era bastato… se poi se n’era andato.

Già, «il conte è muerto»… e io? Non ero morta anche io quando mi aveva abbandonata? No, che Ruggero fosse morto non mi aveva addolorata per nulla. Per me era morto nel momento in cui mi aveva lasciata, quando andandosene aveva lasciato due cadaveri: il suo e il mio.
Mi stava venendo la febbre. Sragionavo. Forse non ero completamente convinta neppure di quello che mi dicevo…
Poi la curiosità… Cosa voleva dire con quel « … todo el mundo sabe»?. Che tutti sapevano? Non ci avevo mai pensato vista la vita ritirata che facevamo e, se decidevamo per un cinema o una pizza, era sempre fuori da qui, lontano dal paese… però era scontato che la gente sapesse. È che ora avrei voluto sapere anch’io.
Decisi di risolvere i miei interrogativi facendo domande ben precise a Felipa, quando sarebbe rientrata.

La mia badante ritornò puntualissima. Si era calmata. La guardai prepararmi la cena. Poi… poi le chiesi di mangiare con me.
«Con usted? En su propria mesa de comedor?» mi chiese incredula.
Le feci cenno di sì. La volevo con me, proprio alla mia tavola da pranzo.
La vidi felice.
Ugualmente non osò parlarmi né io parlare a lei. Avrei voluto, ma mi era impossibile superare quel muro che io stessa avevo creato.
Via via ci sorridevamo. Ma sempre in silenzio.
Poi squillò il suo cellulare. La vidi imbarazzatissima.
Ebbi così modo di dirle qualcosa: «Rispondi pure al tuo fidanzato».
Mi ringraziò ma, mentre si alzava, aggiunse: «No tengo novio. Es mi hermano».
Suo fratello? Che bisogno aveva di dirmi una bugia? Proprio ora che mi sentivo bendisposta verso di lei…
La sentii ridere. Allegra come sempre quando parlava con quell’uomo, con quel suo presunto fratello. Ma capii che non voleva interrompere la cena con me così lo liquidò in fretta. Mi fece piacere.
Quando si risedette mi guardò con una strana aria complice. Come se qualcosa ci unisse. Mi ripeté: «No tengo novio». Poi, scuotendo il capo, con una vena d’amarezza: «Todos los hombres son iguales».
Perché una così bella ragazza doveva pronunciare la frase tipica delle donne sfortunate in amore? Perché anche per lei «tutti gli uomini erano uguali»?
Avevamo finito di mangiare. Lei iniziò a sparecchiare. Poi, d’un tratto, si girò per dirmi: «Usted se parece a mi abuela».
Incredibile il destino… Non ero mai stata madre e ora di colpo somigliavo a una nonna. Alla sua di nonna.
Mi portò in camera e iniziò a prepararmi per la notte.
Pensai di chiederle di informarsi l’indomani con più precisione su tutto. Chi fosse realmente e da dove venisse Ruggero, la storia della donna, come fosse morto. Finalmente anch’io avrei avuto una spiegazione ad anni di dubbi e di elucubrazioni insulse.
Ma non le dissi nulla. Lasciai che mi preparasse come una bambina. Per la prima volta apprezzando di esserlo, almeno sotto le sue mani amorose.
E quando mi mise nel letto non so neppur io come, ma glielo dissi.
Le dissi finalmente: «Grazie, cara».

Fu una notte da incubo. Alternai veglie di sofferenza a sonni pieni di paure.
Nello stesso tempo sentivo scendermi addosso uno strano senso di pace.
Rivedevo Ruggero e me, insieme, e tutti i nostri rituali. Questo letto che occupavamo in tre. Sentivo le sue braccia stringermi. Forte. Sempre più forte. Riprovavo la bellezza di abbandonarmi in lui.
Ma l’immagine del suo triciclo fuori casa divenne, a poco a poco, più importante del suo volto. Passai lunghi momenti di serenità ripensando alla mia abitudine nel vederlo e alla sicurezza che mi dava, lì fermo, fuori dal portone, e al terrore che mi aveva colto quella sera di giugno non trovarlo più.
Non mi spiegavo come un oggetto potesse avere un tale effetto su di me. Quasi fosse un oggetto con un’anima. Nel dormiveglia il suo triciclo era insieme alla mia 850 azzurra che gli posteggiavo accanto quando rientravo da scuola. Vicini, nel ricordo, mi facevano pensare al soldatino di piombo e alla ballerina della fiaba di Andersen. Anche loro con una sorte infelice. La mia auto era stata rottamata da tempo. E, molto probabilmente, anche il triciclo di Ruggero. Rivedevo nei due oggetti la sorte triste dei loro padroni.
E in quella notte avvenne, anche, la mia conversione.
Per quasi quarant’anni non avevo amato più. Di nuovo, prepotentemente, ne sentivo il bisogno. Era un’urgenza inderogabile. Capivo che la vita che avevo condotto prima e dopo Ruggero era stata una non vita. Ora, per il tempo che mi rimaneva, volevo ancora amare.
La povera Felipa mi aveva sedotta.
Sarebbe stata lei l’oggetto del mio amore.
Avevo provato l’amore di un uomo. Adesso era il momento di un amore d’altro tipo. Un amore materno.

La mattina dopo la mia peruviana mi portò, come sempre, il caffè a letto.
«Buenos días, abuela Siria». Poi ridendo me lo ripeté in italiano: «Buon giorno, nonna Siria».
Non ce ne sarebbe stato bisogno. Ormai non mi infastidiva più il suo spagnolo. Come non ci sarebbe stato più bisogno chiederle di informarsi in paese per rispondere a tutte quelle domande che solo fino alla sera prima mi sembrava fondamentale chiarirmi. Ruggero e tutto quanto gli stava intorno erano un argomento chiuso. Non volevo più spiegazioni. Non mi importavano. L’avrei sognato come mi era successo quella notte e avrei sentito la struggente mancanza del suo triciclo. Del suo triciclo e della mia 850. I nostri mezzi di locomozione, quando ancora eravamo liberi. Ma tutto si sarebbe fermato lì.
La mia badante bella, ma senza fidanzato perché todos los hombres son iguales, che vedeva in me una somiglianza con sua nonna di certo non fisica (altrimenti come si sarebbe spiegata l’avvenenza di Felipa?), ma che forse aveva con me una somiglianza per infelici storie d’amore, la peruviana che mi sistemava la sera come una bambina – lei che avrebbe avuto il diritto a una bambina tutta sua – era adesso al centro dei miei interessi.

Mi tornò in mente il Puškin che Ruggero citava spesso parlandomi – per quel poco che me ne parlava – della sua vita: «Spesso la vita mi è sembrata un’insopportabile ferita».
La stessa insopportabile ferita che era stata la mia.

Oggi, se qualcuno mi chiedesse com’è la mia vita, dovrei dire che continua a essere una ferita, – e come potrebbe essere diversamente? – ma non più insopportabile.

Lucca, 15 novembre 2011

La foto di apertura è di Mariapia Frigerio

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