Saperi

Uno sguardo sulla repubblica Islamica e i tratti di un popolo

Sono persiani, curdi, arabi, ma anche armeni e assiri. Osservano le religioni dell’Islam sciita e sunnita, ma non solo. In Iran, migliaia di persone - cittadine e cittadini della «nazione dell’Iran» - per le strade di tutte le città e dalle case di tutti i popoli iraniani testimoniano con la vita e la morte l’autentico amor di patria. Noi abbiamo il dovere di tenere con lucidità ben presenti i diversi fili del tessuto, nell’assunto ormai definitivo che: “In discussione non vi è solo un indirizzo politico, o una stretta più o meno rigida dei costumi, bensì la stessa natura del regime”

Mario Campli

Uno sguardo sulla repubblica Islamica e i tratti di un popolo

Perdita di ogni legittimazione

“Chi manifesta non chiede una correzione di rotta del “sistema”, ritenuta impossibile, ma la sua fine. E ciò muta anche natura e intensità della repressione. Negli scorsi decenni nella Repubblica islamica non sono mancate forti fibrillazioni: dallo scontro tra conservatori e riformisti durante l’era Khatami alla protesta dell’Onda verde contro il “colpo di Stato nelle urne” che ha confermato Ahmadinejad alla presidenza, sino ai moti contro il carovita repressi nel sangue. Ma la situazione in corso assume i tratti di una vera e propria crisi di legittimazione. In discussione non vi è solo un indirizzo politico, o una stretta più o meno rigida dei costumi, bensì la stessa natura del regime. Come rivela un gesto che, in altre circostanze, poteva sembrare solo un’irridente pratica goliardica: lo schiaffo che, per strada, fa volare via il turbante dei chierici sciiti. Oltraggio che esprime, anche plasticamente, la fine della sacralità del potere” (Renzo Guolo, La rivista il Mulino: Iran: una crisi di legittimità)

 

Il popolo

Durante un viaggio-studio nel 2009 in Iran, ho avuto l’occasione, insieme ad altri, di incontrare nella città sacra di Qom, Mostafa Milani, un hojjatoleslām (“autorità dell’Islam”), addetto alle relazioni pubbliche con visitatori e loro organizzazioni. Approfittando della conoscenza perfetta della lingua italiana (il giovane Milani aveva vissuto a Milano, in Italia, fino all’età di 24 anni), nel corso del previsto “dialogo interreligioso”, alla mia domanda: “Perché è stata data – dopo la rivoluzione contro la monarchia – alla Repubblica la qualifica di «islamica» e non semplicemente dell’Iran, nonostante la millenaria civiltà iraniana”, Milani rispose: “perché ce lo ha chiesto il popolo”. Si riferiva, enfaticamente, al referendum indetto dal potere khomeinista. Incautamente, perché dimenticava o copriva con disinvoltura che la parola “popolo”, nel pensiero politico, nella filosofia e nella religione che precede il push khomeinista del 1979 aveva uno spessore molto più alto e impegnativo. Tale da poter dare “in-pegno” anche la propria vita.

Non è utile e neppure corretto approcciare questa crisi di un’autocrazia al potere, sovrapponendosi alla società iraniana spezzata e allo stato senza legittimità, con politologie esterne (anche se non estranee). Il concetto di popolo, infatti, ha una sua forza costitutiva interna ai fondamenti di ogni potere politico in Iran, anche prima della torsione komeinista.  Scriveva, infatti, Alī Sharī’atī (1933-1977): “La parola «popolo/al-nās» ha nell’Islam un significato profondo e distintivo. È soltanto il popolo nel suo insieme che è rappresentante di Dio e della sua famiglia (al-nās iyalu’ Llāh). Il Corano comincia nel nome di Dio e finisce nel nome del popolo. La Ka‘ba è la casa di Dio, ma il Corano la chiama anche la «casa del popolo», la «casa libera/bayt’atiq» [Q, XXII, 29 e 33]. Quindi: tra il massacrare il popolo o ascoltarlo sta-o-non-sta, costitutivamente, il fondamento della Legittimità di una classe politica al potere in Iran.

 

Una o più blasfemie

Nella prefazione a “Blasfemia, Diritti e Libertà” (il Mulino 2015), Alberto Melloni, riferendosi al massacro di Parigi del 7gennaio 2015, scrive: “Non pochi hanno pensato che fosse effettivamente «vero» che Charlie Hebdo praticava la blasfemia. Per altro verso, molti hanno espresso la convinzione che un crimine di blasfemia si fosse consumato, ma nel senso opposto: che era stata blasfema l’invocazione di Dio da parte degli assassini, ed era blasfemo anche sottrarsi a una identificazione con le vittime di quell’attacco (cfr l’hashtag #Je suisCharlie).” Quest’ultima, direi, è una blasfemia ‘laicissima’; la prima: una blasfemia ‘fondamentalista’; la seconda: una blasfemia ‘teologica’.

Mi è tornato in mente questa circostanza apprendendo che la “Repubblica islamica” pratica, in queste ore, la impiccagione dei propri cittadini con l’accusa di «moharebeh – guerra contro Dio».

Cosa configura questa categoria di delitto, se non una o più tipologie di blasfemia?

È vero che si sono anche ascoltati dissensi, come quelli dell’ayatollah Ali Ayazi, che ha ricordato il “diritto al processo pubblico, ad un avvocato indipendente e ad una giuria”; e dell’ayatollah Morteza  Moqtadaei, ex capo della Corte suprema; ma sono posizioni che restano nell’alveo della denuncia di “uso arbitrario” di una «Norma». Vero, anche, che ci sono affermazioni nette come quelle dell’ayatollah Mahmoud Amjad, di Qom, che qualifica il potere della “Repubblica islamica” come “regime tirannico” e afferma che deve essere considerato “haram-peccato il solo partecipare a cerimonie organizzate da esso fino a quando non sospenderanno le esecuzioni”.

 

Il cortocircuito della islamizzazione autolegittimante nella Costituzione.

Si profila, pertanto, una situazione nella quale una o più blasfemie – non dichiarate tali da nessuna fatwa, questa volta costituiscono la prassi della “repubblica islamica”; questa è delineata nella Costituzione nei termini seguenti: «un sistema basato sulla fede nei principi: monoteismo, sovranità e legge come appartenenti esclusivamente a Dio». E anche: «Il rifiuto di tutte le forme di oppressione, della loro inflizione e della rassegnazione ad esse, e la negazione della tirannide, della sua imposizione come della sua accettazione». Ed anche: «La cancellazione di ogni tipo di dispotismo ed autocrazia, e di qualsiasi tentativo di monopolizzare il potere». In sintesi: una teocrazia che vieta la autocrazia, che a sua volta costituisce un rigetto della sovranità di Dio (cfr La Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran (irancultura.it). Nella realtà fattuale, il sistema del potere politico, e non solo, si muove a prescindere.

 

Il 1979 è un anno cardine per tutto il Medio Oriente

È indispensabile rimettere a fuoco tutti gli eventi (cfr G.Kepel, infra). Tutto comincia con il ritorno (proveniente dall’esilio protetto e omaggiato della Francia) di Khomeini a Teheran, in febbraio; e si conclude, a Natale, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e il contestuale inizio del jihād  sunnita in questo paese; mentre a marzo, viene firmato a Washington il trattato di pace fra Israele e Egitto. La conquista del potere da parte di Khomeini risultò facile all’interno dell’Iran; e suscitò anche illusioni ed abbagli all’esterno. Khomeini, infatti, usò la forza della narrazione motivante e mobilitante dello sciismo, operando su di essa una sostanziale torsione dottrinale; a cui aggiunse, a piene mani, una pratica militarista e poliziesca del potere: strumentalizzare i movimenti di sinistra prima di sterminarli non appena ebbe trionfato e proclamato la sua “Repubblica islamica”. Per fare questo, usò una forma fondamentalista ed ‘epurata’ del dogma: sintetizzando i principi fondamentali della fede, rivisitati alla luce dei problemi dell’attualità, Khomeini riuscì a dare vita a una grande mobilitazione che sconfisse, contemporaneamente, tutte le altre componenti dell’opposizione al regime imperiale dei Phalavi.

È utile sottolineare che quando il 6 marzo 2021, Jorge Mario Bergoglio ha voluto incontrare il capo dell’Islam Sciita, è andato a Najaf (in Iraq) ed ha incontrato Alī al-Husaynī al-Sīstānī.

È, infatti, al-Sīstānī , in Iraq – già al tempo del Khomeini politico e capo di stato – “il rappresentante più autorevole dell’Islam sciita, quella che ritiene ogni potere privo di legittimazione, dal momento che, secondo la fede islamica sciita, questa è esclusiva prerogativa del Mahdi, il dodicesimo imam della Shia, temporaneamente occultato: tornerà, messianicamente, alla fine dei tempi per instaurare il Regno della giustizia. Sino a quel momento, il rapporto dei credenti con la politica risponde a mere necessità funzionali. Ciò non significa che essi siano indifferenti a chi governa ma che non si batteranno per un ordine conforme alla Legge divina, compito che spetta al Mahdi. L’occultazione che dura da oltre un millennio, non solo produce la relativizzazione del presente ma fa della Shia una comunità dell’Attesa” (Renzo Guolo). Questa è la religione islamica sciita, tout court.

Khomeini ha operato una vera e propria rottura del dogma teologico sciita, direttamente finalizzata all’obiettivo della conquista del potere. Su questa finalità – niente affatto religiosa – ha costruito una classe dirigente, autocratica ed auto-legittimata.

Scrive Gilles Kepel (Sortir du chaos, Cortina, 2018): “L’alienazione delle classi medie tradizionali, rappresentate dai commercianti del bazar e dal clero sciita da esse proveniente, favorì una situazione di crisi sociale, aggravata dall’afflusso nelle città della popolazione rurale attratta dall’aspirazione, destinata ad essere delusa, ad approfittare della manna degli idrocarburi e confluita invece in un enorme proletariato di «diseredati» (mostadafin). Le celebrazioni (costate miliardi di dollari, con l’ostentazione di ogni magnificenza) fatte a Persepoli nel 1971, per i duemilacinquecento anni della fondazione dell’impero persiano, avevano ancora di più esacerbato gli animi; persino i rampolli del ceto medio alto, inviati in Occidente con generose borse di studio, si rivoltarono contro il ceto imperiale, l’esercito e l’ap­parato sovraordinato dello stato. L’Iran dei Phalavi aveva indotto la formazione di una polarizzazione attorno al partito comunista, da un lato, e alle fazioni più politicizzate del clero sciita, dall’altro. Esisteva tra queste due entità – nonostante l’ateismo proclamato dai primi – una sorta di omotetia strutturale: come le organizzazioni leniniste, il clero è gerarchizzato e incline a usare slogan efficaci e a mobilitare le sue pecorelle (a differenza del mondo sunnita dove l’autorità religiosa è frammentata tra molti ulema concorrenti)”.

 

Dopo 43 anni di potere assoluto, l’autocrazia ierocratica ha ingoiato se stessa. E non c’entra il liberismo

 

L’età del ceto religioso dirigente

“Il clero sciita, uno dei pilastri della Repubblica islamica ma anche uno dei principali bersagli di chi oggi scende in piazza per contestare il regime, da tempo mostrava segni di debolezza. In particolare, l’amministrazione statale osservava con apprensione il problema del ricambio generazionale all’interno dell’establishment, specialmente ai livelli più alti. Questi ultimi stanno in gran parte avviandosi verso i novant’anni di età. Il più anzianoHossein Vahid Khorasani, nato nel 1921, ha 101 anni. Negli ultimi anni sono morti alcuni ayatollah illustri, quali Muhammad Taqi Misbah Yazdi, uno dei più importanti teorici della velāyat-e faqih (la dottrina su cui si fonda la Repubblica islamica), deceduto nel 2021 all’età di 86 anni, e Ali Naseri nell’agosto del 2022. Lo stesso Khamenei, il cui vacillante stato di salute è discusso nei media da diversi anni, ha ormai 83 anni. Si tratta di un problema non secondario se si considera la struttura dello Stato iraniano” (Martino Masolo, La crisi del regime iraniano riguarda anche il clero sciita, Oasis, 13 dicembre 2022).

 

Contestualmente, le profonde divisioni

Ad aggravare ulteriormente questa situazione delicata è il fatto che molti marja‘ (“fonte di emulazione”, il più alto grado di autorità nel mondo sciita) non sono completamente allineati con Khamenei, né con i “principi”: quelli frettolosamente (in quanto la liquefazione della monarchia avvenne rapidamente, abbandonata infine anche dagli Usa) voluti e imposti da Khomeini, e scritti nella Costituzione, sopra richiamata, non molto accurata e “teologicamente” contradditoria.

Scrive, acutamente, Martino Masolo: “Alcuni dei “Marja” preferiscono concentrarsi solo su questioni strettamente religiose, altri invece sono in contrasto sempre più aperto con le politiche dello Stato e con le decisioni della Guida Suprema, anche sul tema scottante delle proteste delle ultime settimane. È il caso per esempio di Alavi Boroujerdi, o della lettera aperta ai chierici iraniani del teologo in esilio Abdol-Karim Soroush. Ma già nel marzo scorso, dunque prima dello scoppio dell’ultima ondata di proteste, l’Ayatollah Seyyed Ja’fari Sadr Qaemi aveva apostrofato il regime con parole al vetriolo: «Basta ingannare il popolo, soffocatevi con il sangue, vergognatevi svergognati, scomunicati, irreligiosi. […] Venite, venite a prendermi domani mattina. Sono pronto». Una sfida, mista a rabbia, ma anche impotenza.

 

La situazione socioeconomica

Recentemente (8 dicembre 2022), a firma di Stella Morgana (“Iran, la rivoluzione dei lavoratori”) il Mulino (La rivista il Mulino: Iran, la rivoluzione dei lavoratori) ha pubblicato un’analisi della situazione economica e sociale, sottotitolandola: “ Precari e divisi da anni di politiche di stampo neoliberista e repressione, i lavoratori iraniani hanno iniziato alcuni scioperi locali in solidarietà con le proteste. Uno sciopero di massa è ancora lontano”.

L’analisi di Stella Morgana si concentra sugli anni Novanta: “Lo sfilacciamento del tessuto sociale e collettivo di oggi fonda le sue radici non solo nell’oppressione dei movimenti indipendenti, laddove i sindacati autonomi non hanno alcun riconoscimento giuridico nello statuto del lavoro della Repubblica islamica. La difficoltà di organizzazione politica, trasversale di classe – e quindi di un’alleanza coesa tra le peculiari istanze operaie di giustizia sociale e le altre rivendicazioni politiche emerse nelle proteste – trova fondamento nelle politiche di stampo neoliberista implementate a partire dagli anni Novanta, iniziate con il presidente pragmatico Hashemi Rafsanjani. Erano gli anni di ricostruzione dopo otto estati di guerra quelle del mito del vincente e dell’esaltazione dell’individuo. Negli ingranaggi di quel mantra volto a liberalizzare il Paese e ad aprirlo alla scena internazionale hanno anche trovato spazio le diverse riforme legislative che – a più riprese e sotto diversi governi – hanno indebolito il potere contrattuale dei laboratori”. Come si può constatare, l’analista mette insieme profili diversificati – ciascuno con una specifica e non irrilevante forza e influenza – ma tutto riduce a: “trova fondamento nelle politiche di stampo neoliberista implementate a partire dagli anni Novanta …. liberalizzare il Paese e ad aprirlo alla scena internazionale”.

 

L’analisi, come si vede, finisce per accreditare la conclusione: “Se manca quel tipo di classe operaia allora la rivoluzione diventa difficile o impossibile e la colpa, una volta ancora, va data alla nota araba fenice chiamata «neoliberismo»” (M. Boldrin-C.De Blasi, Come una rivoluzione per la libertà diventa vittima del neoliberismo | Liberi oltre le illusioni).

I fatti, però, raccontano questi incontestabili passaggi, che da Boldrin e De Blasi, così riassumo:

  1. a) “Nei primi anni della Repubblica l’economia iraniana subì un tracollo. Il Gdp per capita (a prezzi costanti) passò dai 7,600 dollari del 1976 ai 2,932 del 1988”;
  2. b) “L’inflazione cumulata alla fine del periodo khomeinista arrivò al 520%. Sull’andamento dell’economia influì sicuramente anche la guerra con l’Iraq, scatenata il 22 settembre 1980 e il costo per l’Iran fu sostanziale”;
  3. c) “La presidenza Rafsajani (1989-1997) inizia quando la situazione economica tocca il minimo assoluto e si contraddistinse per il tentativo di riformare un’economia socialista e una struttura sociale incentrata sull’applicazione del Codice penale islamico che stavano portando il paese alla fame. Le ‘liberalizzazioni’, che introdusse, ammontarono a ben poca cosa per gli standard delle economie europee e le poche privatizzazioni furono nel perfetto stile di ogni autocrazia, ovvero trasferire a soci e compari o compagni, come accadeva in Russia più o meno negli stessi anni”. Ne analizziamo dettagliatamente alcuni percorsi con l’ausilio di ottime giornaliste sul campo o strettamente connesse in queste stesse ore con il terreno della rivolta.

 

Una economia derubata. I nuovi padroni sono «Mullah» e «Guardiani della rivoluzione»

Una economia di una “repubblica” che si denomina “islamica”, per “volere” del popolo non può che appartenere al Popolo!  «Eco- Nomia», è composta di due parole/concetti. «Oikos» = Casa e «Nòmos» = Legge. Di qui l’idea di una scienza ed anche un’arte per bene amministrare la casa. E c’è anche un «Nomòs» – con l’accento sulla seconda sillaba- che significa «Pascolo»: cura di un gregge da parte di un pastore. Nell’uno e nell’altro caso, una “Repubblica” che rispetta il Popolo deve, non può non, pensare e progettare il Futuro per il suo popolo.

Quale è la situazione dello “Stato dell’Iran (che è) una Repubblica Islamica” (cfr Costituzione art.1)? E chi sta tentando di costruire il futuro, anche rischiando la vita?

Una lettura utile è quella di Cecilia Sala, giornalista (Il Foglio, 1° dicembre 2022, “Startup Teheran – L’economia parallela dei giovani iraniani li ha resi indipendenti e fa arrabbiare il regime”).

“Nell’intreccio di fondazioni del clero e dei pasdaran che, insieme alle aziende di stato, rappresentano praticamente tutta l’economia della Repubblica islamica, per i giovani c’era poco spazio. Così i ventenni il lavoro se lo sono inventato: con Divar (l’Uber locale), Aparat (lo YouTube locale) e centinaia di altri esempi, grandi o molto piccoli, di startup e gig economy. Questo li ha resi meno dipendenti dagli ayatollah: non sono loro a pagare gli stipendi. Il 70 per cento degli iraniani ha meno di 35 anni. Ieri l’agenzia stampa “Eghtesad News” della Repubblica islamica ha fatto un annuncio: per la crisi, sono andati persi tre milioni di posti di lavoro in un anno. In Iran il tasso di disoccupazione è al 9 per cento, ma quello giovanile è quasi il triplo, più alto del 25 per cento. I nonni e i genitori delle ragazze e dei ragazzi che sono in strada a combattere con le parole, i capelli sciolti e i baci in pubblico, e anche con le molotov, sono dipendenti dello stato oppure donne e uomini che lavorano per le aziende “private” iraniane, che però appartengono alle fondazioni locali dei «Mullah» o a quelle dei «Guardiani della rivoluzione». In Iran il concetto di proprietà privata oltre una certa soglia di ricchezza è labile e anche la licenza per produrre la Coca–Cola nel paese ce l’aveva una fondazione religiosa, quella gestita per anni dall’attuale presidente Ebrahim Raisi. Se non si appartiene al clero o ai pasdaran, che attraverso le fondazioni-holding controllano le grandi società”.

Si stima inoltre che il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche controlli circa un terzo dell’economia iraniana attraverso filiali e trust [Lo statalismo autoritario degli ayatollah e la nostra ossessione per una parola che non c’è – Linkiesta.it questo articolo è un ottimo approfondimento  della problematica, anche sotto il profilo teorico; di cui c’è un grande bisogno!].

“I ventenni e i trentenni iraniani hanno creato un’economia indipendente. Si sono arrangiati e così nel 2016 è nato Taspi, il servizio di car sharing più diffuso in Iran. Poi AloPeyk, che è un’app per le consegne, e Bdood, che è un’app di bikesharing. Digikala, per vendere e comprare vestiti online, e poi Zarinpal, per i pagamenti digitali veloci. Fino agli aggregatori in rete su cui ragazze e ragazzi offrono ripetizioni di inglese, matematica, informatica e lezioni di chitarra. Hanno creato dei propri marchi di bigiotteria artigianale, abbigliamento, tappeti “rivisitati” e oggetti di design in metallo che vendono sulle app locali o sulla sezione “shopping” di Instagram. Le bacheche sui social network dei fondatori di queste startup (come il trentenne Hessam Armandehi che ha inventato l’Uber iraniano Divar, Aparat e altre Applicazioni) sono piene di appelli per chiedere la liberazione dei propri dipendenti. Ci sono allegate le foto: sono tutti ventenni o poco più e sono tutti stati arrestati perché manifestavano. Il capo del dipartimento delle Telecomunicazioni dei pasdaran adesso chiede “una stretta sulle startup private”, cioè indipendenti. Quella che i ventenni e i trentenni iraniani hanno creato è un’economia parallela che fa arrabbiare il regime perché non la controlla e non arricchisce gli ayatollah. E perché ha creato la prima generazione che non dipende da loro per vivere”.

 

La repubblica islamica, senza più legittimazione, nel buco nero della neo-geopolitica

A Kiev, raccogliendo pezzi di droni (quelli, cosiddetti, kamikaze), le autorità hanno potuto leggere frammenti di scritte che rinviano senza alcun dubbio al costruttore – scrive Maurizio Molinari (la Repubblica, domenica 6 novembre). Da uno studio della Fondazione Carnegie di Washington si rileva che la Russia ne ha richiesti almeno 1.700; li usano a grappolo, contro gli obiettivi civili (persone, abitazioni, servizi di elettrificazione e riscaldamento). Costano poco, i la voratori sono pagati meno del giusto; ed è un risparmio notevolissimo rispetto ai missili, a vantaggio della sorella autocrazia. Ma la partnership Russia-Iran riguarda anche i militari: J. Korby, portavoce della Casa Bianca, a fine ottobre ha fatto sapere che in Crimea era presente ed attivo un “ristretto gruppo” di pasdaran – i Guardiani della rivoluzione- per assistere e formare all’uso dei droni iraniani. La “repubblica islamica” ha esportato queste innovazioni della rivoluzione khomeinista già nello Yemen, dati ai gruppi sciiti Houti nella guerriglia contro Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Non solo costano poco, ma vengono pagati con uno scambio di “servizi”: la Russia sta assistendo la repressione contro le proteste e le rivolte delle migliaia di uomini e donne della società civile al potere autocratico (per rispetto ad Allah, non diciamo teocratico) con “sostegni” e “consigli” da parte dei Servizi di sicurezza russi, specialisti nelle” tecniche di sorveglianza”, “metodi interrogatori e di gestione delle manifestazioni di piazza”. Si conferma e si intensifica una relazione speciale tra Russia e Iran, le cui prime indelebili tracce furono depositate in Siria, quando nel 2015 Mosca mandò le truppe per puntellare il traballante e sanguinario regime di Bashar Assad, sostenuto da Hezbollah e unità di Pasdaran”.

“Ieri (mercoledì 14 dicembre 2022), Hassan Salarieh, direttore dell’Agenzia spaziale iraniana, e Yuri Borisov, capo dell’Agenzia spaziale russa, si sono incontrati sull’isola di Kish, nel sud dell’Iran, e hanno firmato alcuni accordi per rafforzare la cooperazione nel settore spaziale. Il rafforzamento della cooperazione è stato benedetto dalla Cina, che ieri rilanciava la notizia sui suoi media statali” (Giulia Pompili, “Alleanza nello spazio”, Il Foglio 15 dicembre 2022).

Con acume, la rivolta della società civile in Iran grida: «Morte all’oppressore, che sia un rè o un leader supremo». Ormai, infatti, non si tratta soltanto del rifiuto di una teocrazia auto-delegittimatasi, ma di una lotta per la Democrazia, che si colloca nel conflitto geopolitico tra autocrazie e democrazie. Il nuovo ordine internazionale non pioverà dal cielo; sarà il risultato di questo conflitto, sarà il frutto delle forze positive, delle lotte per la Democrazia e per la Libertà. Non c’è pace senza giustizia. Alla lettera!

 

Donna-Vita-Libertà

Il filosofo della globalizzazione, Giacomo Marramao, nel suo: “Passaggio a Occidente” (2003) si è proposto – pensando all’Occidente – una più approfondita analisi del “trittico rivoluzionario-emancipativo: liberté-égalité-fraternité; con la cura di studiare e comprendere meglio quella che egli chiama la “dimensione dimenticata”, fraternité.  La rivolta iniziata dalle donne in Iran, si è assunto il compito di pensare e far vivere – per la loro patria – un nuovo trittico rivoluzionario-emancipativo: donna-vita-libertà. Nel 1980, uno dei primi atti dell’Imam Khomeini fu la promulgazione di una legge sul hijab, che rendeva il velo obbligatorio per le donne che lavoravano negli enti pubblici e, successivamente, generalizzata a tutte le donne, in tutti i luoghi. Fu allora che il potente innovatore dell’imam Khomeini sperimentò la prima opposizione: quella della resistenza e protesta delle donne. Per loro Khomeini coniò il termine di «islamofobe», intendendo “cattive musulmane”. Ha ragione, Renzo Guolo, a rilevare una sorta di “biopolitica islamista fondata sul controllo sociale del corpo femminile, simboleggiata dal disvelamento pubblico di massa, dal taglio di quei capelli che, secondo il regime, vengono esibiti ostinatamente dalle bad hejab (le mal velate)”.

 

Per la nuova «Repubblica Iraniana». Ci sono le forze per andare oltre!

Ieri, la Repubblica islamica è stata espulsa dalla Commissione dell’Onu che si occupa dei diritti delle donne. Per togliere “una macchia oscena sulla credibilità della commissione”. Ventinove Paesi hanno votato a favore; otto contro: Cina, Russia, Kazakistan, Nicaragua, Zimbabwe e Bolivia; quattordici paesi si sono astenuti.

Nella storia dell’Iran ci sono le tracce per andare oltre una miscela e un intreccio non più sopportabile di natura religiosa-politica-economica-sociale.

Scrive lo storico Bernard Lewis (“Iran in history”, 2007): “L’Iran è stato anche islamizzato, ma non arabizzato. I Persiani rimasero Persiani. E, dopo un intervallo di silenzio, l’Iran riemerse come un elemento separato, diverso e distinto all’interno dell’Islam, aggiungendo alla fine persino un nuovo elemento all’Islam stesso. Culturalmente, politicamente, e soprattutto religiosamente, il contributo iraniano a questa nuova civiltà islamica è di immensa importanza. Le opere degli Iraniani si possono riscontrare in ogni campo di produzione culturale, inclusa la poesia araba, alla quale poeti di origine iranica, componendo i loro poemi/poesie in arabo, diedero un contributo molto significativo. In un certo senso, l’Islam iraniano è esso stesso un Secondo Avvento dell’Islam stesso, un nuovo Islam a volte chiamato Islam-e ʿAjam”.

Si può e si deve andare oltre: dalla repubblica islamica alla “Repubblica Iraniana”: Costituzione, Democrazia, Stato di diritto, Fedi e libertà.

Dalle numerose e infinite interviste e narrazioni di queste settimane e mesi ho appuntato una illuminante espressione di Karim Sadjapour:

“So che oggi vi chiedete: quanto tempo ci vorrà, quanto tempo? Non troppo a lungo, perché nessuna bugia può vivere in eterno. Quanto a lungo? Non troppo a lungo, perché l’arco morale dell’universo è lungo, ma si piega verso la giustizia”.

 

 

Mario Campli, l’autore dell’articolo, è anche autore di Auctoritas et potestas. Autorité et puovoir en islam”, in Etudes Arabes n. 115/2018; Islamizzazione e Radicalizzazione. Saggio su Olivier Roy e Gilles Kepel, Cavinato 2021; L’Islām e la République. Una questione musulmana in Francia?  Informat Edizioni, 2022).

In apertura, particolare della mostra “Man Ray. Objetos de ensueño”, Madrid, 31 gennaio –  21 aprie 2019, Fundación Canal. Foto di Olio Officina

 

 

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