Gli effetti dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia hanno fatto riemergere qualcosa che, nel lungo periodo di pace iniziato nel dopoguerra, avevamo rimosso: e cioè che la disponibilità di beni alimentari gioca sempre un ruolo strategico nei conflitti tra i Paesi.
L’Ue è oggi la prima “potenza” agricola del mondo. Ma è un “nano” politico. E rischia, con le insensate strategie proposte dalla Commissione, come il “Farm to Fork”, di indebolirsi sul piano produttivo e tecnologico.
L’Unione potrà svolgere un ruolo di primo piano nello scacchiere mondiale e tentare di guidare l’edificazione di un nuovo ordine, se innanzitutto si dota di una testa politica e di una legittimazione democratica, riformando i trattati. E deve darsi anche politiche adeguate a mantenere e irrobustire la sua performance agricola.
La guerra sta spingendo le democrazie a ridurre la loro dipendenza dalle autocrazie per le risorse necessarie al loro sviluppo e alla loro sicurezza. Prima era la Cina a contravvenire alle regole del commercio mondiale (Wto) sugli aiuti di stato. Ora è l’America a non rispettare più quelle regole. Il Chips Act fornisce 52 miliardi di dollari di aiuti ed introduce uno sconto fiscale del 25% a favore delle imprese americane che producono semiconduttori. L’Inflation Reduction Act fornisce 369 miliardi di dollari a sostegno della riconversione tecnologica delle imprese che operano sul territorio americano. All’agricoltura sono riservati 30 miliardi di dollari, di cui 20 vanno a premiare l’adozione di pratiche agricole che ridurranno le emissioni di gas serra e aumenteranno lo stoccaggio di carbonio nel suolo e negli alberi.
Come risponde l’Ue? Le trasformazioni del commercio mondiale e le scelte americane richiederebbero, per essere gestite, una capacità fiscale centrale per sostenere un’autonoma politica di rilancio produttivo. L’Unione si è dotata di un programma (Important Projects of Common European Interest) per favorire la produzione europea di batterie per veicoli elettrici oppure di semiconduttori per l’elettronica. Ma poi non dispone dell’autorità politica e delle risorse finanziarie per realizzare le sue proposte.
Ogni Paese pensa prima di tutto a sé stesso, a cominciare dalla Germania che mobilita 200 miliardi di euro in aiuti alle proprie imprese, con il risultato di frantumare il mercato unico. Dei 672 miliardi di aiuti di stato adottati nell’Ue, la Germania ne ha notificato il 53 per cento. L’Italia appena il 7,65 per cento. Anche in termini di percentuale sul pil la Germania batte tutti: 9,24 per cento contro 2,69 per cento dell’Italia o 0,77 per cento della Spagna. Solo la Francia non si fa distaccare troppo dai tedeschi, con il 24 per cento degli aiuti notificati nell’Ue, pari al 6,13 per cento del suo pil.
Per questo motivo ha sollevato un vespaio l’idea – suggerita da Ursula von der Leyen – di una maggiore flessibilità per i governi nel concedere sussidi e sconti fiscali. Si sono immediatamente ribellati i Paesi membri più piccoli e si sono create divisioni anche all’interno della Commissione. L’Ue avrebbe invece bisogno di una capacità fiscale, indipendente dai trasferimenti finanziari nazionali, con cui promuovere la produzione di beni pubblici europei, a partire dall’innovazione e la difesa.
Mercoledì primo febbraio, la Commissione presenterà una comunicazione con le sue proposte. L’ipotesi di un fondo di debito comune europeo per aiutare i Paesi senza spazio fiscale a lanciarsi nella corsa ai sussidi e agli sconti fiscali non ha il necessario consenso. Germania e Olanda sono gli stati che si oppongono con maggiore vigore a questa soluzione. In attesa di costruire una proposta condivisa che vada in tale direzione, si pensa a una “soluzione ponte”: dovrebbe prendere la forma di una maggiore flessibilità nell’utilizzo delle risorse dei fondi esistenti, come il Recovery fund e RePowerEu.
È quanto si sta già facendo per l’agricoltura con due deroghe alle disposizioni ambientali della Pac riformata per il quinquennio 2023-2027. La prima riguarda la possibilità di coltivare i terreni lasciati a riposo dalle aziende agricole. L’altra è la non applicazione della norma di condizionalità che prevede l’obbligo della rotazione almeno biennale sui terreni a seminativo.
Si tratta di misure del tutto insufficienti. Andrebbe invece accelerata la proposta legislativa sulle nuove tecniche genomiche. E adottata, in generale, un’inversione di rotta strategica a favore di una sintesi tra sostenibilità e produttività, abbandonando logiche che guardano nostalgicamente al passato.
Bisognerebbe riflettere su una eventuale ricalibratura delle competenze in materia di “agricoltura”, per distinguere in modo razionale ed efficace le materie che dovrebbero rimanere nella competenza esclusiva dell’Ue e le materie che dovrebbero tornare nella competenza degli Stati membri.
Con il Trattato di Lisbona la materia “agricoltura” è attribuita all’Ue come competenza concorrente. La politica agricola europea non è più una politica comune, come è stata in passato. Mentre la politica commerciale è un settore di competenza esclusiva dell’Unione.
Sarebbe opportuno che la materia “sicurezza alimentare” diventasse una materia di esclusiva competenza unionale, senza più interferenze da parte degli Stati membri. Non così dovrebbe essere per i “pagamenti diretti”: i quali già sono attribuiti di fatto alla competenza degli Stati membri e andrebbero assegnati ad essi anche formalmente.
L’Ue potrà essere protagonista nello scacchiere mondiale e potrà contribuire a delineare un nuovo ordine globale se completerà rapidamente il suo processo di integrazione.
Storicamente, nelle unioni di Stati, alla unione sono state assegnate le competenze relative alla sicurezza collettiva (dalla politica estera e militare a quella alimentare, dalla politica monetaria e fiscale a quella energetica), mentre gli Stati membri hanno trattenuto per sé tutto il resto. L’Ue non è stata coerente con questa impostazione e dovrebbe procedere ad un bilanciamento delle competenze.
In conclusione, è auspicabile che la sicurezza torni al centro delle preoccupazioni degli stati. Nell’immediato, questa risposta ha certamente un senso. Ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze. De-globalizzare renderà difficili le soluzioni dei problemi a scala planetaria, come, ad esempio, le migrazioni e il contrasto ai cambiamenti climatici e alle povertà. Il ritorno alla logica delle grandi potenze non conviene a nessuno. Bisogna, pertanto, scongiurare una involuzione dell’ordine liberale multilaterale. Con una riforma dell’ordine mondiale che passi per la democrazia oltre lo stato. Ci vuole un di più di politica capace di orientare i processi economici planetari.
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