Visioni

Breve storia dell’olio sulle tavole dei ristoranti

Valerio M. Visintin

Lo spunto (anzi, la spinta) per una riflessione porta in calce l’autorevole firma del collega Luigi Caricato che, durante un incontro al suo Olio Officina Festival, ha sollecitato una mia risposta in tema.

La prima memoria è corsa d’istinto a quelle oliere di nonna Abelarda che viaggiavano su certe gabbiette di metallo cromato, in compagnia dell’aceto e di un sale rappreso e giallino. Quale razza d’olio contenessero quelle boccette ricamate nessuno lo sa. Ma lo straterello di morchia nera depositata sul fondo era un tratto distintivo e immancabile.
Qualcuno commentava con l’aria di chi la sa lunga: “Vuol dire che l’olio è genuino, non filtrato!”.
I commensali più portati al misticismo giuravano, invece, che in quell’unghia di palta sedimentata per anni si potesse leggere il futuro, come nei fondi del caffè.
Gli osti toscani, infine, facevano spallucce, fugando ogni dubbio: “Ll’è bbono, ll’è bono. Lo fa il mi zio a Ponte Poppi!”.

Che ingenui. Erano ancora i tempi di un marketing primitivo e naïf. I maestri del retroterra familiare alla Bottura non avevano ancora insegnato ai colleghi quanto fossero più commoventi e persuasive le figure della nonna e della mamma.
Pazienza. Fu così che, in un giorno imprecisato, nacque un nuovo format irresistibile, incardinato su tre princìpi: le tovaglie di carta paglia, il tagliere di formaggi e marmellatine, l’olio extra vergine in bottiglia. Nell’arco di pochi mesi, il mondo della ristorazione ebbe un volto nuovo. I produttori di oliere fuggirono all’estero. Gli zii di Ponte Poppi passarono all’industria della carta paglia. E noi clienti imparammo a uscire di casa con una biro nella tasca del giubbotto, per poter scarabocchiare le tovagliette tra una portata e l’altra.

Come spesso accade con le rivoluzioni, minime o epocali che siano, l’entusiasmo si ossidò presto a contatto con la realtà quotidiana. Il riflusso segnò la sua rivincita quando gli osti più arguti inaugurarono l’epopea del rabbocco. Me ne accorsi valutando perplesso, in un ristorante da prima pagina, l’etichetta bisunta e sfinita di una bottiglia piena sino all’orlo come se fosse stata appena aperta. E la data di scadenza? Trapassata.

Da quel dì, ho avuto altri analoghi riscontri. In casi non rari, le bottiglie d’olio Dop, cioè, hanno sostituito le vecchie e care oliere, con identica prassi e un inganno in più.
Intanto, fratello aceto è stato esiliato nelle retrovie da cuochi e ristoratori. Escluso e reietto. Sopravvive soltanto quello balsamico di Modena, ma in un ruolo di vezzoso contorno: in cucina lo centellinano in piccole gocce o graziose strisciatine, sparse con artistica nonchalance in giro per il piatto. Un uso limitato. Ma che opere preziose abbiamo in tavola!

Ecco il quadro generale, a fronte di qualche eccezione. La più vistosa delle quali si materializza nelle cattedrali degli chef d’altura che, essendo infallibili, non hanno bisogno di nulla.
Anzi, posso proporvi un esperimento? Sedendo al desco di uno di questi luoghi costellati, provate a chiedere olio o sale per correggere un piatto. E poi comunicatemi in quale pronto soccorso vi hanno ricoverati, che corro a intervistarvi.

Il testo è stato pubblicato sull’annuario olioofficinaalmanacco 2015, numero 3

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