Visioni

Cinquant’anni fa moriva Carlo Levi

Alfonso Pascale

Carlo Levi aveva settantatrè anni. Aveva scritto un po’ prima una lirica da cui emergeva il suo stato d’animo segnato da un certo sconforto. Il titolo era “Compagni” e conteneva un amaro addio: “Le cose ingiuste, tu dici, / mi fanno incerto del mondo /e degli uomini fatti numeri / nella volgarità senza fondo / con questa offesa mi hanno mostrato / che non c’è nessun bene certo /e se ho lottato e sperato / in voi, ho trovato un deserto. / Così piango su un passato / di fiducia e sacrifici / solidali, di allegria / di compagni, in questo crescendo / trionfo dell’ipocrisia / nella viltà del concerto / dell’anonimo apparato”.
A settant’anni Carlo era stanco, sfiduciato, amareggiato. Si era allontanato dai premi, dai salotti e dai caffè della società letteraria. Aveva rotto ogni rapporto perfino con il suo grande amico Guttuso. Non si riconosceva più in un mondo che era profondamente cambiato. Si era avvicinato allo scrittore e regista Glauco Pellegrini e alla moglie di lui, la musicista Vittoria Richter. Riemergeva così la sua passione per la musica nel ricordo di villa Alassio a Torino dove era nato e dove la madre, Annetta Treves, tra familiari e amici, amava suonare il pianoforte, intonando vecchie arie di Rossini, di Verdi o di Mozart.
L’autore del Cristo si è fermato ad Eboli, nell’ultimo periodo della sua vita, era diventato molto selettivo in fatto di amicizie; cercava l’autenticità del rapporto, amava reali affinità elettive, attratto com’era di slancio da chiunque gli trasmettesse un fervore nuovo di discussioni, lo accendesse di rinnovato amore per la vita. Era solito frequentare per le strade o nelle trattorie della vecchia Roma gruppi di giovani amici con cui si esercitava a ribaltare vecchie posizioni critico-ideologiche per aprirne altre.
Era, nel frattempo, sopraggiunto un problema alla vista. Nel gennaio del 1973, Levi aveva annotato nella sua agenda una poesia: “Se vedi scendere nevischio / lucente, o ombre bianche e nere / e il pensiero del rischio / di non poter più vedere / un mondo pulito, uno sguardo / felice, intatto, neonato / pensa che forse il peccato / non è che un ritorno, un ritardo, / un passato che copre il presente, / dell’ombra opaca del suo niente”. Quattro giorni prima, compleanno di Linuccia Saba, egli le aveva comunicato lo strano fenomeno e Linuccia avrebbe esclamato: “Nevica: magari!”. Carlo si era consultato con l’oculista e dopo qualche giorno era entrato nella Clinica San Domenico di Roma. Col distacco della retina – racconterà Linuccia –, Carlo sentiva che da lui si era distaccata l’immortalità, cioè l’energia vitale. Assistito dal suo amico Gian Paolo Berto, da Linuccia e da una suora piemontese, Carlo aveva subito due operazioni chirurgiche. Malgrado le forti limitazioni e la forzata immobilità per quattro mesi, aveva eseguito 140 disegni e scritto centinaia di pagine. Si era servito di uno speciale telaio fatto di cordicelle metalliche, per guidare la punta della matita sul foglio. Aveva così raccolto il fluire continuo di intuizioni, di immagini, di ricordi, di invenzioni. Andranno a comporre l’opera postuma Quaderno a cancelli. Un’opera labirintica, né romanzo, né reportage, né saggio. È, invece, un’affabulazione drammatica con se stesso, il suo subconscio, la sua memoria. Un viaggio tempestoso nella sua temporanea cecità. Che l’autore vive come aveva vissuto il carcere, il confino e l’esilio.
Guarito, ma con un difetto di vista che deformava leggermente i contorni degli oggetti, Carlo aveva lasciato l’ospedale e si era di nuovo immerso nella sua vita di sempre. Nella primavera 1974 aveva partecipato attivamente alla campagna contro il referendum abrogativo della legge sul divorzio. E a dicembre era sceso per l’ultima volta in Basilicata per presentare una cartella di sette litografie ispirate al Cristo pubblicata dall’editore Esposito di Torino, introdotta da Calvino. Negli stessi giorni, aveva dedicato il suo ultimo scritto ai racconti giovanili di Rocco Scotellaro, Uno si distrae al bivio, pubblicati da Laterza.
Il 23 dicembre era stato colto da una febbre bronco-polmonare complicata forse da una crisi ipoglicemica e si era ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma. Era caduto in coma e non si era più risvegliato.
I funerali si svolsero nella capitale con una grande partecipazione di intellettuali, politici, amici e gente comune. Il feretro fu trasferito ad Aliano, dove si svolse la cerimonia più commovente, nella piazza del paese gremita di contadini, donne in lutto, di amici, compagni, parenti, stretti attorno alla bara eretta su un piccolo palco.
Tumulato nel piccolo cimitero del paese lucano, Carlo Levi si ricongiunse così con il mondo che aveva rappresentato per un’intera vita e di cui ancora oggi continua a interpretarne il messaggio.

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