Visioni

Cosa ci dicono e cosa ci insegnano le elezioni europee

Alfonso Pascale

Le elezioni europee del 6-9 giugno ci consegnano un quadro clinico della democrazia europea più preoccupante di quanto immaginassimo. Né le forze politiche che hanno ottenuto i maggiori consensi, né i cittadini che hanno espresso le loro preferenze hanno mostrato una qualche consapevolezza della vera posta in gioco di questa consultazione elettorale. Si trattava di proporre, infatti, più ipotesi di assetto istituzionale per l’UE al fine di metterla in condizione di affrontare la sfida lanciata dalle autocrazie asiatiche alle democrazie liberali. Ma la campagna elettorale non si è svolta su questi temi. Hanno tenuto banco le solite narrazioni populiste e nazionalistico-identitarie che caratterizzano il confronto politico. E questo trascinamento ha travolto le forze politiche europeiste non più soltanto nei piccoli paesi ma anche nei grandi.

In Francia, il movimento di Macron, che pure si era sforzato di costruire in questi anni un disegno riformatore dell’Unione, è uscito fortemente ridimensionato dalle urne. A vantaggio del Rassembrement National di Marine Le Pen che ha superato il 30 per cento.

In Germania, la coalizione che sostiene il governo Scholz è priva di una strategia. E, nel vuoto, è cresciuta Alternative für Deutschland, divenuta il secondo partito del paese ma anche il primo in tutti e cinque i Länder dell’est con il 16 per cento dei suffragi.

In Italia, le liste di centro, che pure avevano formulato proposte sull’architettura istituzionale europea, non hanno raggiunto il quorum. Un esito elettorale disastroso da imputare principalmente alla miopia dei loro leader. E che si accompagna alla crescita di partiti non sufficientemente avvertiti dei pericoli che corre l’Occidente. Innanzitutto, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che ha raggiunto quasi il 30 per cento. Ma anche il Partito Democratico, con il suo 24 per cento, da quando, sotto la guida di Elly Schlein, sembra prevalentemente impegnato ad inseguire il populismo dei Cinque Stelle. Le tre famiglie politiche europeiste (Popolari, Socialisti e Liberali) compongono ancora la maggioranza del Parlamento europeo ma si sono visibilmente indebolite. Per reggere, dovranno allargare la coalizione ai Verdi oppure al partito di Meloni. Dipenderà da cosa vorrà fare la nostra premier: sganciarsi dalle destre estreme che vogliono assediare le istituzioni europee o continuare a navigare nell’ambiguità. Ma nell’Ue la tattica di stare con due piedi in una scarpa non paga: si rischia l’isolamento diplomatico e il declino politico.

Il G7 pugliese che si è appena concluso ha mostrato con estrema crudezza l’infiacchimento della nostra Unione. A un Biden che chiedeva di scongelare le ricchezze russe depositate nelle banche europee, per metterle a disposizione dell’Ucraina a mo’ di risarcimento delle perdite finora subite, i nostri leader hanno reagito con pavidità ed eccessiva prudenza. Solamente una parte degli interessi che quei fondi fruttano andrà a Kiev. Ed esclusivamente sotto forma di prestiti. Va detto che il summit ha fatto qualche passo avanti – almeno a parole – sulla denuncia dell’aiuto cinese a Putin. Il comunicato finale sottolinea, infatti, che “il continuo sostegno della Cina all’industria militare russa consente di proseguire la guerra illegale contro l’Ucraina ed ha ampie ripercussioni sulla sicurezza”.

Non solo la sicurezza ucraina ma di tutta l’Europa, visti gli appetiti imperiali di Putin. Finalmente l’Occidente esprime qualche parola chiara su questo cruciale argomento. In Puglia si è anche parlato di allargare le sanzioni ad aziende cinesi. Ma non è detto che i leader occidentali saranno conseguenti e compiranno gli atti necessari. Vedremo.

In trent’anni di globalizzazione, le nostre economie dipendono in parte da Pechino. I dazi che Washington e Bruxelles hanno varato di recente contro le auto elettriche della repubblica popolare sono la reazione al fatto che tutta la nostra de-carbonizzazione è in ostaggio al made in China. C’è una globalizzazione alternativa che, nel frattempo, si è realizzata. E questa fa capo a Pechino. Coinvolge non solo la Russia e l’Iran, ma anche numerosi paesi del Sud globale. Le numerose astensioni al vertice svizzero devono, infatti, allarmare.

La Cina ha enormemente allargato il suo raggio d’influenza. Infine, non si può non registrare la remissività e la paura che i leader occidentali hanno lasciato trasparire nell’affrontare il terrorismo e la condotta di quei paesi che lo finanziano e lo supportano. Sembra mancare la consapevolezza che l’attacco a Israele sia una sfida all’Occidente. E che dopo Israele l’obiettivo si sposterà verso le nostre città, i luoghi della nostra libertà. Insomma, il G7 pugliese non ha indicato alcuna strategia con cui l’Occidente vuole affrontare le sfide globali. Dinanzi all’offensiva delle autocrazie asiatiche continuerà a mancare un nostro approccio geopolitico volto a contenerla. Ma senza questo scatto, non si ridefinirà un nuovo ordine mondiale. Un nuovo ordine in cui relazioni economiche e “rule of law” possano interagire ed espandersi simultaneamente per poter edificare la democrazia oltre lo Stato.

Le elezioni europee indicano nitidamente le cause che hanno indebolito le nostre democrazie. Basta dare uno sguardo al fenomeno dell’astensionismo, che si è ulteriormente aggravato, e al ridimensionamento dei leader. Consolidandosi, le nostre democrazie perdono col tempo l’attitudine a prendere decisioni importanti dinanzi a minacce esistenziali. Il ciclo elettorale spinge le democrazie mature a privilegiare gli interessi di breve periodo su quelli di lungo periodo. I leader si preoccupano di vincere le prossime elezioni, spesso sulla base di adattamenti programmatici che difficilmente verranno implementati dopo averle vinte, trascurando le conseguenze di medio-lungo periodo delle loro scelte. Ma, vivendo alla giornata, le nostre democrazie sono destinate ad implodere. Il declino si può interrompere solo se le democrazie imparano a liberarsi dalla trappola del breve periodo. In che modo? Innanzitutto, ci vorrebbero leadership collettive capaci di alzare lo sguardo oltre gli interessi e le preoccupazioni immediate e di considerare le conseguenze di medio-lungo periodo delle scelte che vengono fatte. Leadership collettive che abbiano la volontà di unirsi per affrontare insieme le sfide straordinarie, pur rimarcando le differenze tra di loro sul piano delle scelte ordinarie. Poi ci vorrebbero partiti capaci di alimentarsi di cultura politica e di riprodurla a loro volta. Partiti inclusivi che sviluppino partecipazione democratica e senso di comunità. Partiti desiderosi di dialogare costantemente con gli interessi concreti e le preoccupazioni immediate ma che siano mossi dall’intento di inserirli in disegni strategici di medio-lungo periodo.

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