L’approccio liberale di Alessandro Manzoni al cattolicesimo si può comprendere esaminando l’interpretazione che lo scrittore dà, nelle Osservazioni sulla morale cattolica, del 1819, dei fondamenti interiori dell’obbedienza all’autorità della chiesa. È sempre il “dictamen” interiore della coscienza che deve portare il credente ad accettare la legge cristiana che, d’altra parte, s’inserisce nell’ordine della carità e della grazia.
Dal canovaccio di quell’opera del 1819, Manzoni tirerà delle felici intuizioni psicologiche che ritroveremo nei Promessi sposi. Si veda, per esempio, il richiamo alla “responsabilità di tutta l’intera società” a proposito degli errori della monaca di Monza rinchiusa contro la propria volontà in un convento, secondo le deplorevoli abitudini dell’epoca.
Lo scrittore cerca la verità storica quando trova “lo stato dell’umanità, in un’epoca remota e storica” con un’intuizione artistica che si basa su dati reali. A tali dati aggiunge soltanto quello che la sua penetrazione psicologica gli permette di aggiungere. Egli infatti non ricorre mai alle finzioni.
Per questo il suo romanzo è una grande inchiesta sul Seicento italiano, ispirata da una sensibilità cristiana.
Manzoni riesce a provare che la fede, il coraggio, la resistenza degli umili alla sofferenza sostengono questa civiltà vacillante e scossa da tante debolezze e dalla corruzione. Le quali minano anche lo stato e la chiesa. Egli prova anche che l’uomo non è “nato libero” come suggeriva Rousseau, ma che deve conquistarsi la libertà fra tutte le contraddizioni della storia e della società, con uno sforzo che impegna ogni individuo, fino a coloro che i “filosofi” umanitari avevano considerato insignificanti. Questo è il lato democratico dell’inchiesta che il Manzoni ha condotto, su un campo appartenente alla storia, malgrado il suo carattere apparentemente letterario. E questo è il messaggio che egli ha trasmesso a quei cattolici liberali che hanno cercato, dopo di lui, di costruire in Italia uno stato laico, lottando contro il temporalismo della chiesa, ma anche contro gli eccessi di un anticlericalismo rumoroso e sterile.
C’è anche un’altra ragione del suo liberalismo. La sua inchiesta sul Seicento è anche un’opera sociologica, come aveva ben intuito il sociologo rurale Corrado Barberis. Il quale considerava Manzoni e Stefano Jacini, promotore quest’ultimo della gigantesca inchiesta sulle campagne italiane (1877/1885), i padri fondatori della sociologia rurale in Italia. Del resto, che cos’è la sociologia se non lo studio di quella grande rottura storica, che ha visto tramontare la società tradizione e nascere la società industriale moderna, come ci ha insegnato Franco Ferrarotti?
Ebbene, Manzoni elegge a protagonista dei Promessi sposi un operaio-contadino. Renzo Tramaglino “esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per così dire, nella sua famiglia […] Oltre di questo possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato”. La plurima qualifica professionale di Renzo è la premessa della vicenda storica narrata dal Manzoni. Solo sulla sua abilità di tessitore, mobile capitale umano, si fonda il progetto migratorio verso le terre venete che evita agli sposi promessi di sottostare al sopruso feudale. Sociologicamente Renzo svolge tre ruoli: dipendente dell’industria, coltivatore part-time e addirittura datore di lavoro. Lo scrittore-sociologo analizza le prime avvisaglie del capitalismo e ne condivide lo spirito.
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