Visioni

Cosa ha insegnato la peste a Renzo Tramaglino

Sante Ambrosi

Anche Renzo Tramaglino, il personaggio principe de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, dopo le infinite vicissitudini che tutti conosciamo, rifugiatosi nella Bergamasca, presso il parente Bortolo, prese la peste.

Per fortuna – annota Manzoni – data la sua costituzione fisica forte, se la cavò bene e in poco tempo. Rimessosi in salute, pensò di tornare a Milano, dove aveva lasciato la sua Lucia e dove imperversava, sempre peggio, la peste. Decise dunque di tornare, ma prima ritenne opportuno fare un salto al suo paese, nei pressi di Lecco, per rendersi conto della situazione e della sua casa che aveva lasciato precipitosamente, in modo da conoscere le conseguenze devastatrici di una peste che aveva colpito anche quei luoghi tanto amati.

Si mise in cammino e arrivò con tutta l’ansia che potremmo immaginare. Prima di arrivare alla sua vigna, incontrò don Abbondio e ci fu subito incomprensione tra i due. Come sempre, pensò tra sé il nostro personaggio. Dopo il saluto e le sorprese da parte del curato nel vedere quel suo vecchio parrocchiano, e dopo aver snocciolato in breve l’elenco dei tanti i scomparsi per causa della peste, esclamò:

“Vedete! Continuò don Abbondio: e non è finita. Se quelli che restano non metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c’è più altro che la fine del mondo”

Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui.

Ah! Sia ringraziato il cielo, che v’è entrata! E, già s’intende, fate ben conto di tornar nel bergamasco”

(I Promessi sposi, cap. XXXIII)

Da queste brevi parole, Renzo capisce che don Abbondio è rimasto tale e quale così come lo aveva conosciuto: il flagello della peste non lo aveva minimamente cambiato.

Subito dopo, vede la sua vigna così bene descritta dal Manzoni:

“E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna – nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile”.

Per Manzoni questa descrizione assumeva una importanza particolarmente significativa, perché rappresentava molto bene la situazione sociale del tempo, così ridotta non solo per il flagello della peste, ma anche, e forse ancora di più, per l’incuria e insipienza delle autorità del tempo.

Renzo osserva con tristezza la sua vigna così mal ridotta, ma si convince che non sia il caso di mettere mano per rinnovarla. In quei frangenti, e a quella vista, e anche constatando le chiusure di don Abbondio, decide di andare altrove, nel tentativo, noi crediamo, di dare vita a una nuova vigna, altrove, con piante nuove, come la storia del romanzo ci illustra.

La vigna del nostro oggi. Renzo abbandona il suo paesello e non si cura di mettere mano alla sua vigna. Forse era convinto che non si trattava di togliere erbacce o tronconi spuri, e neppure si trattava di potare quelle viti che non erano più in grado di produrre uva buona.

Quando la situazione non sta in qualcosa di esterno, ma nella stessa pianta della vite, allora occorre qualcosa di radicalmente nuovo. Abbandonare anche la stessa pianta che doveva fare frutti buoni e che invece ha fatto e continuerà a fare frutti cattivi. Come, del resto, anche il profeta Isaia lo aveva detto pensando al suo popolo:

Una vigna possedeva il mio diletto in cima a un ubertoso colle.

L’aveva vangata, liberata dai sassi, aveva piantato ottimi magliuoli,una torre vi aveva costruito nel mezzo e scavato anche un tino.

Aspettava che facesse uve, non fece invece che lambrusche

(Isaia, 5)

Il problema che si pone anche a noi che stiamo sperimentando le disastrose conseguenze di una pandemia inarrestabile – così sembra ai nostri occhi – è di capire cosa fare e da dove partire.

Renzo abbandonò la sua vigna senza spiegare bene perché, forse per convincere tutti noi che se anche le piantine della nostra vigna sono malate, il lavoro da fare sarà quello di puntare su altri vitigni.

Don Milani che si è impegnato a cambiare la società del suo tempo inventò una nuova scuola che doveva ritrovare il senso vero di quelle parole sulle quali si innesta la società. Forse sono proprio le parole più comuni e più usate che sono malate come la vite del profeta Isaia.

Speriamo che la bufera del coronavirus non ci lasci con la testa di prima, come successe a don Abbondio, perché questa, sì, sarebbe una drammatica catastrofe mondiale.

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