Visioni

Cosa intendo per “fare sistema”

Piero Nasuelli

L’articolo del direttore Luigi Caricato (Dove siamo finiti?) ha originato un interessante dibattito. Ad una mia frase provocatoria nel commento all’articolo ha fatto seguito una “difesa” d’ufficio e sono state sollevate questioni sulle quali si può discutere a lungo ma che non ci portano da nessuna parte se non recuperiamo gli elementi fondanti delle società moderne.

Spero di riuscire a far comprendere il mio pensiero, anche se in modo didascalico. Mi definisco neo-smithiano in quanto credo che le due opere di Adam Smith, La teoria dei sentimenti morali e la Ricchezza delle nazioni siano quelle che ci danno la spiegazione semplice e concreta di come “funziona” la nostra società.

Tutte le azioni dell’uomo sono rivolte al conseguimento della felicità. La felicità è soggettiva.
Per essere felice l’uomo deve possedere o godere di beni, ovvero deve avere del cibo, degli indumenti, deve poter “rifugiarsi” in qualche luogo, deve scaldarsi, eccetera. Per avere tutti questi beni deve lavorare.
L’uomo si è reso conto che è più facile ottenere tutto ciò di cui ha bisogno se collabora, in altre parole si creano delle comunità nelle quali ognuno svolge un preciso compito. Si diventa più efficienti e si raggiungono il benessere e quindi la felicità con meno fatica, perché, diciamocelo tranquillamente, lavorare vuol dire faticare.

A questo punto c’è un passaggio importante, l’attività del singolo individuo specializzato da’ origine a un certo surplus, rispetto a suoi bisogni, questo “di più” è scambiato con gli altri beni di cui ha bisogno e che non ha prodotto. In parole povere, con la mia attività produco frumento che posso vendere in cambio di vestiti ecc. Più una società cresce, più il singolo deve specializzarsi e più importante diventa il commercio dei beni.
Il benessere e la conseguente felicità si raggiungono pertanto grazie alla ricchezza ottenuta dal proprio lavoro e dal commercio.

La felicità del singolo è però strettamente condizionata dalla felicità della comunità. Semplificando, se non c’è qualcuno che acquista i beni ottenuti dal mio lavoro, non potrò scambiarli e quindi meno incasso meno commercio, meno ricchezza, meno felicità. L’uomo deve pertanto agire nel rispetto di un’etica nella quale la mia felicità è condizionata e determinata da quella altrui.

La difficoltà della comunità è quella di darsi diritti e doveri che non siano prevaricatori degli uni contro gli altri. Sono secoli che gli uomini scrivono leggi per riuscirci, alcune volte con risultati abbastanza soddisfacenti in altre hanno fatto disastri.

Venendo più vicino a noi dobbiamo essere consapevoli che: le istituzioni sociali, a partire dallo Stato sino all’ultima “bocciofila parrocchiale”, non possono essere le istituzioni in grado di dispensare felicità, per quanto si affannano sono sempre parziali, ovvero rendono felici alcuni e infelici altri; con l’aumento della popolazione mondiale, l’uomo che aspira alla felicità, è costretto a “specializzarsi” sempre di più, questo gli permette di diventare sempre più efficiente e commerciare sempre più beni differenti e quindi aumentare la ricchezza globale per mantenere la felicità raggiunta.

Spero di essere stato chiaro, queste poche righe ci permettono di comprendere il perché della globalizzazione, il perché della ricerca scientifica e perché il “peso” dell’agricoltura non potrà che ridursi in un contesto complessivo e globale.

La politica della Coldiretti, forse inconsapevolmente e in buona compagnia con tantissime altre organizzazioni, non si rende conto che solo con la ricerca, la tecnologia, lo studio, ci potranno essere sviluppo e “felicità”. Non ho usato il termine “crescita” perché questo può essere fuorviante. Un conto è fare economia e un conto è fare finanza, i disastri di questi ultimi anni li tocchiamo con mano. Il PIL è aumentato sulla spinta di operazioni finanziarie e ne costatiamo i guai.

In pratica, che senso ha il “mitizzare” delle politiche anacronistiche, agendo in modo martellante sui media?
L’ufficio stampa di Coldiretti è sorprendente, il 27 di dicembre di ogni anno sappiamo già quanti panettoni abbiamo mangiato, per non dire delle bottiglie di spumante che abbiamo stappato.
C’è da crederci? E che utilità ha? Se mangiamo di più o di meno siamo più o meno felici?
Perché dettare regole sulle produzioni agricole che sono solo il frutto della demagogia? Il settore dell’olio ne è la testimonianza. Un patrimonio di coltura e saggezza (felicità) è buttato perché sono state emanate norme che creano solo contrapposizione, disparità, diseguaglianza (ruolo dell’istituzione che non è in grado di dispensare felicità).

Non diamo solo la colpa ad agenti esterni. E’ facile pensare che i nostri guai dipendano da oscure forse “aliene”, ma dobbiamo avere il coraggio di fare autocritica, e solo così potremo rinnovarci e dare slancio alla nostra produzione agricola. Le potenzialità ci sono tutte. Se però ci sono quelli che si ritengono più bravi degli altri, che pensano di avere l’unica soluzione possibile, allora sarà difficile venirne a capo.

In un modo sempre più complesso e articolato, ci deve essere posto per tutti, anzi dobbiamo essere liberi di trovare il giusto equilibrio gli uni con gli altri nel rispetto assoluto dell’etica. La felicità mia è quella degli altri. Tutto ciò vuol dire “fare sistema”.

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