Questa incursione nasce per caso, non è pensata per essere una incursione, ma lo è diventata di necessità. Alfonso Pascale ha risposto a un lettore che aveva da ridire in merito a un suo articolo dal titolo “Per un’economia non autarchica” (potete leggere QUI), e così una parte della sua risposta l’abbiamo voluta condividere con tutti voi.
Un agricoltore che produce per il mercato è un imprenditore esattamente come lo è un industriale o un commerciante. Il comportamento economico di un imprenditore non ha necessariamente come unico obiettivo l’efficienza. Non si vive di sola efficienza. Ci sono tanti imprenditori che sono animati da valori quali la giustizia, la fraternità e la libertà. E per essi la ricerca delle condizioni che rendono buona la vita e che valgono a favorire il bene comune è altrettanto importante della ricerca delle condizioni che accrescono l’efficienza del sistema economico. Vero è che in gran parte dei libri di testo di chi studia economia c’è scritto che l’unico scopo dell’impresa resta la massimizzazione del profitto. E questo pregiudizio è purtroppo diventato senso comune. Ma basta guardarsi intorno per notare che la gran parte delle imprese sono mosse da obiettivi diversi (sociali, relazionali, ideali, simbolici), e non solo dai profitti. Sono imprese e soggetti di mercato a tutti gli effetti. E la loro valenza non solo “for profit” non comporta affatto che siano destinate, inesorabilmente, a soccombere nel mercato globale.
È dunque riduttivo ritenere che il solo obiettivo dell’industria olearia sia quello di reperire materia prima a basso costo. Ci sono industriali dell’olio a cui interessano altri obiettivi da raggiungere, ovviamente, in un quadro di sostenibilità ed efficienza economica.
Ed è altrettanto riduttivo pensare che l’unico scopo perseguito degli agricoltori sia quello di vendere i loro prodotti a prezzi remunerativi. Ci sono, infatti, molti olivicoltori che si impegnano con altri operatori economici della filiera a realizzare progetti agro-industriali per produrre oli di pregio, mediante accordi che, ovviamente, garantiscono prezzi remunerativi della materia prima.
Questi imprenditori civili sono il derivato di una cultura che affonda le radici sicuramente nel mondo rurale, fatto prevalentemente di valori quali la reciprocità, il mutuo aiuto, la fraternità; una cultura che oggi non caratterizza solo le campagne ma permea di sé gran parte del nostro sistema economico.
E’ l’insieme della società civile ad essere intrisa di questi valori, benché l’opinione pubblica stenti a riconoscerlo e a comunicarlo. Da qualche decennio, emerge, infatti, un nucleo di cittadini consapevoli, sempre più in crescita, che non chiede alle imprese solo di produrre ricchezza, fare prodotti di qualità a basso costo, pagare le tasse e rispettare la legge; chiede loro anche di farsi carico di nuovi compiti volti a tener conto di preoccupazioni sociali e ambientali. Insomma, cresce il numero di quei cittadini che chiedono a sé stessi più responsabilità civile e, nello stesso tempo, alle imprese di fare in modo che i rapporti umani celati dentro le merci vengano alla luce, “si rivelino” dal guscio delle cose dove, con l’espressione di Marx, sono nascoste.
Se guardiamo simultaneamente questi due processi – il primo riferito all impresa e il secondo al cittadino – ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di nuovi occhi per osservare le dinamiche economiche. In questa nuova dimensione, il mercato ci appare, infatti, come uno spazio dove realizzare una grande operazione cooperativa: più della concorrenza e dell’avidità sono la cooperazione e il “cum-petere” (che significa “crescere insieme”) le basi culturali su cui si può rigenerare il mercato contemporaneo.
Nella nuova condizione che si va determinando, il compito precipuo delle imprese (al di là del loro settore di attività e della loro forma giuridica) diventa sempre più quello di realizzare progetti innovativi (che riguardano la qualità dei prodotti o dei processi, la loro sostenibilità sociale e ambientale, l’innovazione sociale) e di creare valore aggiunto restando sul mercato in modo efficiente.
Tali progetti possono riguardare sia i mercati locali che i mercati nazionali e internazionali. In tutti questi mercati acquista valore la qualità delle relazioni tra i diversi partecipanti allo scambio economico: produttori, trasformatori, distributori e consumatori che collaborano indipendentemente dal paese in cui si trovano.
Le tecnologie digitali permettono di accorciare le distanze nella comunicazione, negli scambi culturali ed economici e nelle relazioni interpersonali. Per costruire relazioni “vitali” non è necessario condannarci all’autarchia e al nazionalismo e a consumare esclusivamente prodotti fatti in casa o nell’orto del vicino. Anzi, potremmo “rivitalizzare” la capacità – che nella civiltà greca e poi in quella romana era molto curata – di soddisfare il piacere della tavola con prodotti provenienti anche da altre parti del mondo, di conoscerne le culture e di creare occasioni di contaminazione reciproca delle diverse culture alimentari. Importare ed esportare prodotti alimentari favorisce l’integrazione tra i popoli perché da che mondo è mondo lo scambio di cibi predispone al dialogo e all’accoglienza. L’ospitalità è più antica di ogni frontiera.
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