Visioni

Finis Europae

Sossio Giametta

Nel 2014 si è celebrato il centenario della prima guerra mondiale (1914-1918). Sono fioriti su di essa, in aggiunta alla pletora che già ce n’era, articoli saggi e studi di ogni tipo. Sono state rinnovate le analisi delle cause lontane e vicine, dell’occasione scatenante e delle funeste, ramificate conseguenze, con l’acclaramento dei prodromi, degli appigli e degli agganci alla seconda guerra mondiale. Tuttavia nessuno storico è stato in grado, in quanto tale, di pervenire alla causa originaria delle due guerre e di tutto lo scatafascio che esse hanno comportato, pagato salatissimamente dai popoli coinvolti. E ciò per la ragione fondamentale che questa causa è in realtà quasi metastorica, nel senso che affonda le radici nella biologia. Sta di fatto che l’indagine storica, che parte da certi fatti ed arriva ad altri fatti, non basta da sola per far capire tutto quello che l’Europa e il mondo hanno fatto e subìto in tale periodo – le due più grandi catastrofi della storia – se alla storia non si aggiunge la filosofia e con la filosofia la biologia, come abbiamo detto. È solo con l’aiuto della filosofia e della biologia, infatti, che si può arrivare a capire quello che veramente è successo. I semplici fatti, innumerevoli, tutti effetti di innumerevoli cause, non bastano a spiegarlo.

Un organismo è un’unità in cui il principio vitale – una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile – stringe insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in pro di un’unità superiore. Si immagini, per averne un’idea, il nostro organismo con le cellule che lo compongono, dotate ciascuna di vita propria, tendenzialmente illimitata. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e morte. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente dell’organismo, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività), si esprime al suo massimo, come la forza vitale stessa con cui si identifica. Nella parabola discendente, allenta la presa, mentre cresce corrispondentemente la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante si scolla e nell’organismo si crea una polarizzazione fra le tendenze opposte, che si compattano ai due estremi. È il preludio della fine.

Le civiltà e le religioni sono soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte, come la specie stessa. Si può dubitare della loro esistenza, perché essi non si vedono; però si deducono con chiarezza dalle tracce inequivocabili che lasciano nella storia. I membri di questi grandi soggetti storici sono organizzati in funzione dell’organismo di cui fanno parte allo stesso modo degli organi del corpo umano: stomaco, fegato, cuore, polmoni, intestino ecc. Più sono i membri che li compongono e più ampia è la loro strutturazione e diversificazione – cioè della specie, della civiltà, della religione. Dunque il numero dei loro membri (gli individui) è importante. Che le civiltà, le Kulturen, siano organismi, è stato scoperto e sistematicamente teorizzato da Oswald Spengler nel Tramonto dell’Occidente, coevo alla prima guerra mondiale; ma era stato anticipato già secoli prima dal nostro Pietro Pomponazzi. In quanto organismi, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e, come tutti gli organismi, esse tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna. Ciò significa che, pur essendo condizionate dalle circostanze storiche e geografiche, esse non ne sono essenzialmente determinate e non si sviluppano in dipendenza da loro ma, fondamentalmente, in maniera autonoma – come gli uomini stessi, che possono vivere la loro vita negli ambienti più disparati: all’equatore o ai poli, e in mezzo alle circostanze storiche più svariate, sempre obbedendo in primo luogo alla loro legge interna. Detto incidentalmente, questa è anche la ragione per la quale le religioni, ideologie ecc. sono, nonostante ogni possibile impennata ideale, sempre riportate nella pratica al comune livello umano, cioè sono sempre filtrate dall’“eterna” e piuttosto rozza natura delle masse umane, per cui, anche se predicano, come il cristianesimo, la carità estesa agli stessi nemici, non si astengono in pratica dal perseguire la potenza e dal perseguitarli, invece, i nemici; nel caso del cristianesimo, con crociate, guerre di religione, inquisizione e tutti gli altri mezzi possibili e immaginabili. È così che sia i fascisti e i nazisti sia i comunisti, inalberanti bandiere opposte, hanno fatto uso nella seconda guerra mondiale, e sempre per fini opposti, degli stessi mezzi crudeli e violenti, rivelando una terribile parentela di base.

Un esempio concreto però pacifico, cioè competitivo solo in senso artistico, dell’organicità di tutti gli importanti movimenti storici, può essere considerato il movimento artistico italiano che va da Giotto al barocco. In ogni sua tappa artisti, stili e scuole si presentano come mondi a sé, del tutto autonomi rispetto a quelli precedenti e seguenti, e degni di studi singolari ed esclusivi, secondo una tesi che fu cara soprattutto a Benedetto Croce; ma attraverso queste monadi, e contrariamente all’idea di Croce, il movimento complessivo si sviluppa per secoli con innegabile continuità e coerenza secondo una sua logica interna, come è stato ampiamente analizzato e messo in luce da molti studiosi di molti paesi. .

Ora, il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è stato quello della civiltà occidentale, la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma in seguito integrata dagli Stati laici, discendenti del Sacro Romano Impero, con le battaglie laicizzanti combattute per arginare lo strapotere della Chiesa. Le Kulturenpossono durare più di un millennio e hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia. In vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler, ma già di Burckhardt, Zivilisationen; detto in italiano, civiltà stramature, che brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione, non per colpe e vizi sopravvenuti, come generalmente si crede, ma per compiutezza e sazietà, confectae aetate. Così l’impero romano e così il cristianesimo, in cui la corruzione fu effetto e non causa. In autunno le foglie perdono il verde sano e robusto dell’estate e si accendono di tutti i colori: così consumano la loro ultima vitalità.

Esplosa nell’Ottocento in Germania già negli anni Quaranta in funzione antihegeliana con Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, e poi con Schopenhauer, la crisi europea, che covava già da secoli, raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento, irradiandosi in tutte le principali manifestazioni umane: oltre che nella politica: nell’arte, nel diritto, nella religione, nella morale, nell’economia, nella scienza e nella filosofia. Nella filosofia si incarnò soprattutto in Nietzsche. Questi traspose i problemi attuali sullo sfondo della Grecia arcaica, ma fu essenzialmente la risposta alle tre forme in cui la crisi si presentò per il pensiero: crisi della filosofia, crisi della civiltà e crisi della religione. Nietzsche si riteneva il pensatore più indipendente e inattuale dell’epoca; invece ne fu, in profondità, il più dipendente e attuale, una vera e propria creatura e strumento della crisi. Nel suo percorso filosofico solitario, avulso da ogni politica, trovò l’inafferrabilità della realtà, la sua inesistenza come una qualunque stabile costituzione delle cose; ne fu indotto a negare “la verità” in quanto corrispondente alla realtà e ad affermare (Al di là del bene e del male, 230) – nel venir meno dei valori tradizionali – la necessità di una “rinaturalizzazione dell’uomo”, ossia di una “ripulitura del terribile testo homo-natura dalle interpretazioni vanitose e presuntuose scarabocchiate su di esso”. Affermò altresì (aforisma 257) la necessità di una casta aristocratica barbara e feroce, divisa dal popolo da un fossato (“pathos della distanza” e gerarchia), la necessità della schiavitù per l’edificazione di ogni civiltà superiore, e della sopraffazione, con l’incorporazione e lo sfruttamento dei deboli da parte dei forti, come legge fondamentale della vita (aforisma 259): un assetto, questo, da non toccare, perché solo dal gioco duro viene fuori la grandezza, che la natura, secondo Nietzsche, pur avverso al finalismo, richiede agli uomini. Negò infine, col libero arbitrio, merito e colpa, ossia la responsabilità.[1]

Una cinquantina di anni dopo si sarebbe visto a quale rozzezza e a quale selvaggia bestialità avrebbero messo capo lo scrostamento, sul testo homo-natura, della patina della civiltà e tutte le altre idee trovate sui sentieri dei boschi dal pensatore e passeggiatore solitario spregiatore della politica. La crisi si intrecciò in Germania col dilagare di un Übermut, un eccessivo senso di forza, formatosi con l’esplosione ritardata, rispetto alle altre nazioni europee, della potenza accumulata del popolo tedesco nella seconda metà del Settecento, anzitutto col patriarca dal piede caprino Johann Georg Hamann, detto il Mago del Nord, rovesciatore dell’illuminismo e fondatore di tutti i movimenti spirituali successivi, e alla fine con l’ipostasi del soggetto (lamentato da Goethe) dei grandi idealisti, maschera dell’avidità di vita e di potenza dell’ancora relativamente primitivo popolo tedesco. Goethe stesso, figlio e vessillifero della matura civiltà borghese, volle vincere in se stesso la superbia, l’arroganza titanica, der Titanen Übermut, ma non fu in ciò seguito dal suo popolo, che invece, incitato in particolare dal panlogismo statolatra di Hegel, se ne inebriò e come ebbro passò dai démoni della sublime poesia musica e filosofia ai demòni della forza, della violenza e della crudeltà, vergando le sue pagine del disonore nella storia d’Europa e del mondo.

Molti germi equivoci in in tal senso furono appunto segretamente inoculati nel popolo tedesco, sotto forma di virtù e dopo che dall’iniziatore Hamann, dalla filosofia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, culmine del grandioso movimento filosofico-politico dell’idealismo. Reagendo con impeto sovrumano alla filosofia ampiamente scettica, permeata di spirito illuministico, di Kant, Hegel fu, accanto a Goethe (che a Kant restò fedele), l’altro vertice della Klassik, l’epoca classica della letteratura e filosofia tedesca, con cui coincise la Klassikdella musica con Haydn, Mozart e Beethoven. La Goethezeitfu dunque anche la Hegelzeit. Goethe e Hegel si conobbero e si stimarono. Hegel diventò professore a Iena grazie a una doppia intercessione di Goethe. Ma le loro figure e il loro insegnamento divergono in cose fondamentali. Goethe esaltò, come abbiamo visto, la misura; Hegel, nel suo volo nell’assoluto, piuttosto la dismisura; la attizzò anzi in tutti i modi, venendo incontro alla brama titanica di infinito e di assoluto dei suoi compatrioti. Goethe si dichiarò contrario a ogni nazionalismo nella cultura; Hegel ebbe una concezione eurocentrica e germanocentrica del mondo (la Germania come parte razionale della terra). Goethe divinizzò la natura, Hegel la disprezzò come spirito alienato. In un viaggio giovanile nelle maestose Alpi bernesi, trovò noiosi ghiacciai e monti, “masse eternamente morte”. Il cielo stellato di Kant era per lui un cielo con le pustole della lebbra. Goethe disprezzò il romanticismo (“Chiamo classico ciò che è sano, romantico ciò che è malato”), Hegel esaltò il romanticismo cristiano come l’epoca superiore a quella classica. Goethe fu un pagano “olimpico”, Hegel un cristiano, anche se, contro la sua razionalizzazione del cristianesimo, Bruno Bauer, già appartenuto alla destra hegeliana, diede infine fiato a La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo. Goethe distinse e separò religione e filosofia, Hegel le unificò e identificò. Goethe mise in guardia contro i concetti e la loro proliferazione, Hegel identificò il concetto con Dio. Goethe si riteneva un nulla senza la morale, Hegel sostituì alla morale, contrassegnata dal contrasto tra l’essere e il dover essere, l’eticità, incarnata dallo Stato (prussiano) e dalle sue istituzioni, in cui essere e dover essere coincidono. Goethe fu contrario all’ipostasi del soggetto, Hegel affermò la soggettività al di sopra di tutto. Goethe portò al trionfo l’arte tedesca, Hegel decretò la morte dell’arte. Goethe coltivò la scienza, Hegel la strumentalizzò e disprezzò. Goethe cercò l’unione con la natura, Hegel l’unione con Dio, col Dio dell’idealismo.

Ma torniamo a Nietzsche, che fu la vera incarnazione della crisi europea. Con la sua opera, egli diede corpo spirituale alla crisi, che era una crisi di autodistruzione, cresciuta fin lì nel disordine; la legittimò e la accelerò. In seguito a questa accelerazione, si verificò nel corpus europeo la polarizzazione delle forze maggiori: quella conservatrice, fascismo e nazismo, che guardava ai valori “aristocratici” bellicosi del passato e si sentiva chiamata a combatterne la disgregazione, e quella rivoluzionaria “democratica” pacifista, il comunismo, che guardava al futuro e mirava a una palingenesi dell’umanità. Col progressivo acutizzarsi del contrasto, lo scontro divenne inevitabile e deflagrò in quella che impropriamente Ernst Nolte chiama la guerra civile europea, ma che fu invece una guerra mondiale, combattuta dalla destra per rafforzare e rilanciare il vacillante dominio dell’Europa nel mondo e dalla sinistra per affermare la palingenesi dell’umanità, “la fine della storia”, cioè delle lotte e delle guerre, poi rivelatasi (com’era ampiamente prevedibile) utopica, disastrosa e autodistruttiva.

Ma alla fine della seconda guerra mondiale, terminata con la sconfitta delle forze conservatrici (il padre che vuole continuare a imporre la sua potestà ai figli diventati adulti è destinato ad essere scalzato se non, come vuole Freud, ad essere ucciso), l’Europa perse definitivamente il primato che, come organismo multicefalo, aveva fino ad allora esercitato nel mondo, quel primato appunto, come abbiamo detto, che il fascismo e il nazismo avevano, senza rendersene conto e sotto nomi attuali, cercato di puntellare e di rilanciare. D’altra parte la rivoluzione comunista, trascinata dalla logica “umana, fin troppo umana” di cui sopra alla dittatura più feroce e al governo autocratico del partito, si avviò, nonostante i suoi alti ideali iniziali, al fallimento e alla dissoluzione nell’implosione finale dell’Unione Sovietica. “Prima del temporale si alza per l’ultima volta con violenza la polvere, che presto sparirà a lungo”, ha scritto Goethe.

In realtà tutto questo, l’inutilità di tutto questo, sarebbero stati teoricamente prevedibili, erano cioè accessibile alla ragione umana, perché la direzione del Corso Storico era chiara, la fine dell’Europa era segnata, e inutilmente l’uomo si oppone al Corso Storico, onnipotente e irrefrenabile. Dunque paradossalmente l’inutilità della catastrofe avrebbe potuto essere prevista e la catastrofe evitata; ma solo, ahimè, teoricamente, perché una grande civiltà non muore pacificamente, not with a wimper but a bang, si può dire invertendo i termini di Eliot. Ma che cos’è un secolo nell’eterna e infinita natura e che cosa sono due guerre mondiali su un pianetino periferico? Che cosa sono i campi di sterminio? (“Signore, dov’eri?” domandò il papa a Dio, e Dio: “Ero, come sempre, nelle sfere superne, intento a creare con forza, serenità e indifferenza.”). I campi di sterminio in natura non sono niente: sono battiti di ciglia, veloce ricambio di individui, come le foglie tra autunno e primavera. Via alcuni milioni di vecchi uomini, avanti alcuni milioni di nuovi, su una terra che ne conta miliardi per lo più malconci e per i quali la fine è la fine degli stenti e delle sofferenze, ossia di una vita, per dirla con Hobbes, solitary, poor, nasty, brutish and short.

Ma intanto, che cos’è avvenuto ormai a tanta distanza dai luttuosi eventi (sì, per noi ben luttuosi e funesti!) della prima metà del Novecento? L’Europa, tramortita e intontita, ha cercato la salvezza nell’unificazione. Prendendo spunto dall’economia, ha cercato di organizzarsi in vari modi, sotto vari nomi, ma alla fine in quella che è diventata un’ unione di ventotto Stati, l’Unione Europea. La quale potrebbe ulteriormente allargarsi fino a comprendere uno Stato non europeo ma gravitante in buona parte sull’Europa come la Turchia. Sul piano mondiale, alla fine della seconda guerra mondiale, che vide il crollo della potenza coloniale europea, lo scettro di dominus passò definitivamente dall’Europa agli Stati Uniti, il cui intervento era stato determinante per la vittoria degli Alleati contro le forze dell’Asse. Assurta a massima potenza mondiale, gli Stati Uniti hanno da allora esercitato e, ormai ridotto il suo primato, ancora in buona parte esercitano un potere determinante nel mondo. Questo potere è tuttavia sempre più eroso dagli errori della loro politica in campo internazionale, dal sorgere di nuove formazioni politiche e soprattutto dall’emergere di grandi paesi come la Cina, l’India, il Pakistan e il Brasile. Tutto l’Occidente si trova inoltre ad essere attualmente contrapposto al risveglio sempre più tumultuoso della grande nazione araba, che sfrutta la potenza del petrolio e un ancor giovane afflato religioso, e alle pretese sempre più bellicose delle élitesfanatiche ed esaltate che spadroneggiano in essa. Con queste gli Stati Uniti e le nazioni europee combattono da decenni una sorda guerra di civiltà, che ha il suo punto purulento nella pluridecennale, ulcerosa contrapposizione Israele-Palestina.

Ma in genere, negli avvenimenti in campo internazionale seguiti alla seconda guerra mondiale, quando si è trattato di far fronte ai nemici dell’Occidente, solo gli Stati Uniti sono stati in grado, con sorti alterne e in genere a carissimo prezzo, di farlo veramente. La presenza delle nazioni europee che non hanno negato la loro collaborazione è stata più formale che sostanziale, ed è in genere prona al ritiro. È chiaro che l’Europa, che è tornata ad essere “la piccola penisola dell’Asia”, come la chiamò Nietzsche, si involve, per non dire che si decompone e putrefà, sempre più, è un vecchio che non può ridiventare giovane, nonostante molti si illudano che questo miracolo sia possibile. È un vecchio ricco delle risorse accumulate in gioventù, le quali tuttavia non sono inesauribili. Essa è ormai ridotta a un gigantesco emporio commerciale e industriale, senz’anima e senza energia; è disorientata, priva di determinatezza e del sense of purpose. Il fiorire delle destre e delle tendenze destrorse nei movimenti di sinistra, in particolare dei movimenti separatisti e antieuropeisti, inconsapevoli del fatto che non potranno sfuggire alla sorte comune e che i loro movimenti non fanno che affrettarla, questa sorte, equivalgono ad altrettanti “Si salvi chi può” o, per dirlo in francese, visto che la Francia vanta attualmente il movimento isolazionista e antieuropeista più imponente, ad altrettanti “Chacun pour soi et Dieu pour tous”. Cioè dichiarano il disgregamento, creano confusione e intralci e minano la compattezza con cui l’Europa potrebbe ancora far quadrato. Dunque peggiorano e non migliorano le cose. Frattanto sempre più si avventano sul corpo grasso e inerme dell’Europa le orde fameliche di tutto il mondo e sempre più, d’altro canto, si ramificano in essa, come masse di ratti fuorusciti dalle fogne, le mafie di molte nazioni. L’Europa è impotente a contrastare queste nuove invasioni barbariche a causa della sua stessa civiltà, del suo garantismo e del suo dilagante umanitarismo (con la contrarietà in particolare alla pena di morte); essi non le permettono di usare i modi brutali, cioè quegli interventi chirurgici che soli avrebbero qualche possibilità di riuscita, o per consentirli a chi li vorrebbe usare (“sparare sulle barche” e stroncare la delinquenza con la forza alla maniera di Mussolini). Anche i più duri rimedi, tuttavia, non sortirebbero esito alcuno, perché sarebbero contrari a quello che è l’attuale Corso Storico. Per conseguenza, l’Europa non può che continuare a sprofondare sotto il crescente peso degli extra-comunitari, col loro carico di miseria, anche di onestà e di lavoro naturalmente, ma soprattutto di povertà e disperazione, inevitabilmente aperta alla delinquenza (a forza di vivere male ci si trasforma in mal-viventi), e d’altra parte non può che soccombere al cancro delle mafie delle più svariate origini, che, insieme a una finanza ammorbata, spadroneggiano ormai dappertutto.

Mai l’Europa ha goduto, come da settant’anni a questa parte, di una così lunga pace e benessere, pur tra mille difficoltà e incidenti. È la bonaccia più lunga della sua storia, fatta prima di guerre incessanti. Questa bonaccia dura ancora oggi, nonostante la spaventosa crisi che dal 2008 ha colpito l’Europa e il mondo e che tiene interi strati di popolazioni agonizzanti. Ma essa non può durare indefinitamente. Che cosa accadrà nel non lontano futuro, non solo in Europa ma nel mondo, da cui l’Europa dipende sempre più e in cui gli equilibri sono in continuo mutamento, non è dato sapere. La situazione generale è caotica e non si vede alcuna uscita dal tunnel. Tendenze minacciose e inquietanti si manifestano da ogni parte, in corrispondenza con il crescente risveglio dei popoli, il che vuol dire soprattutto dei sempre più massicci bisogni delle masse, impossibili da soddisfare perché semplicemente non ce n’è per tutti. Ci sono d’altra parte opprimenti sperequazioni, tra i pochi che hanno troppo e i troppi che hanno poco, e non ci si può aspettare che questi ultimi continuino ad accettare pacificamente o con semplici brontolii la dittatura dei pochi, che sia politica, economica o finanziaria. Agitazioni, disordini e sconvolgimenti sono quindi da aspettarsi in tutti i campi. Quanto alla aperta o sorda competizione e lotta che gli Stati, come soggetti ancor sempre selvaggiamente liberi nonostante le pastoie internazionali, continuano a farsi tra loro, anche se sotto la copertura di mentite forme legali, finora la terribilità delle armi a disposizione ormai di troppi paesi è stata il solo freno allo scatenamento di iniziative belliche maggiori, mentre qua e là non mancano di esploderne di minori. Ma nella storia l’uomo non è mai stato saggio abbastanza da evitare il peggio, sicché non si può sperare che di fronte ai più gravi pericoli l’umanità rinsavisca. Diciamo che sarebbe la prima volta. Anche da questo lato, pertanto, non si può non temere il peggio, sebbene sia dovere di tutti sperare e sforzarsi per il meglio.

È questa una visione troppo pessimistica? C’è chi ne ha una ancora più pessimistica, cioè a un livello superiore:

Apparteniamo a un genere di specie a vita breve. I nostri cugini si sono già tutti estinti. E noi facciamo danni. I cambiamenti climatici e ambientali che abbiamo innescato sono brutali e difficilmente ci risparmieranno. Per la Terra sarà un piccolo blip irrilevante, ma non credo che noi li passeremo indenni; tanto più dato che l’opinione pubblica e la politica preferiscono ignorare i pericoli che stiamo correndo e mettere la testa sotto la sabbia.

Non è un politologo che parla così, ma il saggio e misurato scienziato Carlo Rovelli, che su questa e altre spiacevolezze afferma, come noi vogliamo affermare sulle nostre: “Questa è la realtà”.

[1]Questo paragrafo ripete concetti già espressi a pag. 49 sg. Ma essi sono necessari anche qui, sicché… repetita iuvant.

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