Quest’anno, i movimenti spontanei degli agricoltori si sono dati una serie di strumenti organizzativi per coordinarsi e comunicare in modo più efficace le proprie richieste. È sorto infatti il Coordinamento agricoltori e pescatori italiani (Coapi). Esso sollecita le regioni a dichiarare lo stato di crisi del settore agricolo e a predisporre misure straordinarie. E, nello stesso tempo, sprona il governo a richiedere alle istituzioni europee di riconoscere le “circostanze eccezionali” per poter considerare dette misure compatibili con il mercato interno, in deroga alla normativa sugli aiuti di stato.
In realtà, si propone di aggiungere agli interventi già previsti dalla Pac un ulteriore programma di aiuti da finanziare con risorse nazionali. Si avrebbero così due programmi da realizzare contestualmente, uno con risorse del bilancio unionale e l’altro con quelle del bilancio nazionale. Ma entrambi i programmi hanno come obiettivo quello di sostenere il reddito degli agricoltori. Come mai il primo non è ritenuto soddisfacente e se ne richiede un altro per ottenere il medesimo risultato?
Inspiegabilmente, la piattaforma del Coapi non risponde a questa domanda. Anzi, il documento evita accuratamente di parlare di Pac. Ma dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2009) la classificazione del settore “agricoltura” è stata modificata da competenza esclusiva dell’Ue (al pari del “commercio”) a competenza concorrente tra l’Unione e i suoi stati membri. Da allora è venuta a mancare una politica agricola comune ma si sono varate 27 politiche agricole nazionali. Se gli agricoltori sono insoddisfatti, bisogna allora sciogliere il nodo istituzionale che è alla base del malessere delle campagne. È la ripartizione delle competenze tra l’Ue e gli stati membri che non funziona. Produce infatti dannose sovrapposizioni e reciproci condizionamenti. E non permette di conseguire gli obiettivi che vengono fissati e di individuare le responsabilità di tale fallimento.
Quando si parla di politica agricola ci riferiamo a un ambito di interventi molto esteso. Dovremmo con precisione individuare quegli interventi che potranno essere “governati” con efficacia solo a livello unionale. Una volta individuati, andrebbero classificati tra le politiche di competenza esclusiva dell’Ue. È quella politica agricola nella sua accezione di sicurezza alimentare e di intensificazione sostenibile (ricerca, innovazione tecnologica, gestione dei rischi, regolamentazione dei mercati e grandi progetti strategici) da finanziare con risorse derivate da debito europeo e nuove tasse europee.
Gli aiuti diretti dovrebbero invece prefigurarsi come una competenza esclusiva degli Stati. Dinanzi a tale possibile scenario, sorgono spontanee due domande:
1) Sotto i riflettori delle opinioni pubbliche nazionali, sarà più facile selezionare, con criteri di equità e appropriatezza, soggetti e territori beneficiari?
2) Diventerà più agile ed efficace l’implementazione normativa e burocratica della misura?
Gli agricoltori che si stanno autoconvocando per manifestare il proprio malessere dovrebbero porsi questo problema e risponde a siffatte domande. Quello che è certo è che tale impostazione eliminerebbe l’ipocrisia di identificare 27 politiche agricole con una politica solo nominalmente “comune”. Ci si potrà dotare finalmente di una vera Pac utile all’insieme dell’Unione e lasciare agli stati nazionali di disporre gli aiuti a sostegno del reddito degli agricoltori in base alle effettive esigenze dei territori.
C’è poi un altro aspetto della piattaforma del Coapi che merita di essere approfondito: la ripartizione del valore lungo la filiera.
Il rapporto Ismea del novembre 2024 evidenzia il problema: su 100 euro spesi dai consumatori per acquistare prodotti agricoli freschi, solo 19,8 vanno agli agricoltori.
Nel periodo 2013-2021 erano 22 euro. Si è, dunque, registrato un peggioramento.
Per i prodotti freschi, una volta coperti gli ammortamenti e pagati i salari, all’agricoltore rimane un margine operativo netto di 7 euro.
Per i prodotti trasformati, l’utile si riduce a 1,5 euro, quello dell’industria a 2,2 euro, contro i 13,1 del commercio e trasporto. Industria e distribuzione assorbono una quota preponderante del valore.
È noto da sempre che questo problema dipende dalla mancanza di potere contrattuale dell’agricoltura e dalla carenza di trasparenza del mercato. Ci vorrebbero, per accrescere la trasparenza, osservatori dei costi, dei prezzi, dei margini e delle attività commerciali, e poi un effettivo contrasto alle pratiche sleali. Ma per aumentare il potere contrattuale degli agricoltori ci vuole la loro volontà.
In Italia c’è un problema che altri paesi europei non hanno. Da noi c’è una pluralità di organizzazioni di rappresentanza in agricoltura. È un tratto peculiare dei movimenti di massa sorti tra Ottocento e Novecento.
Il movimento socialista, prima ancora che nelle città e nelle fabbriche, affonda le sue radici nelle campagne. Tuttavia, le organizzazioni nate da quella cultura politica faranno propri, con notevole lentezza, i valori del mercato e dell’impresa. D’altro canto, il movimento cattolico, nel secondo dopoguerra, per contenere l’espansione della sinistra nelle campagne, si scisse dalla Confagricoltura e separò i Coltivatori diretti dagli altri agricoltori. Scelta che lo estraniò dal cattolicesimo liberale di Sturzo e De Gasperi.
Queste divisioni e questo deficit di cultura liberale hanno costituito una delle cause più profonde della debolezza del nostro settore agricolo. Una debolezza che si è manifestata e ancora oggi si manifesta nella scarsa efficacia delle organizzazioni economiche e nel rapporto non strutturato con la cultura e con i media.
Per questo oggi gli agricoltori appaiono come tante debolezze prive di voce e rappresentanza e incomprese dalla società. E nei momenti di grave incertezza e malessere, nascono così, spontaneamente, i “movimenti dei trattori” che tentano di riempire un vuoto di presenza organizzata, sociale e culturale.
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