Visioni

Il negoziato sul futuro della Pac

Alfonso Pascale

Il negoziato sul futuro della PAC (2021-2027) questa volta coincide con il negoziato sul futuro dell’Unione Europea. In quest’ultimo c’è la proposta del governo francese, in parte sostenuta da quello tedesco, di pervenire a una integrazione europea differenziata: una per gli Stati membri che aderiscono al Mercato unico e l’altra per gli Stati membri che partecipano all’Eurozona. Una volta accettato questo principio, per l’Unione “più piccola” si dovrà decidere di riorganizzare la sovranità dell’Unione e la sovranità dello Stato membro, sdoppiando le competenze tra questi due livelli.

In tale nuovo quadro giuridico, si potrà così introdurre un bilancio europeo autoalimentato con una politica fiscale europea e utilizzare tali risorse per finanziare la crescita economica e introdurre misure volte a ridurre le disuguaglianze.

Nello stesso tempo, si potranno devolvere alla competenza degli Stati membri politiche che impropriamente sono gestite dall’Unione Europea. La PAC fu pensata circa sessant’anni fa come grande politica per il mercato unico dei prodotti agricoli, in chiave protezionistica, ed è diventata, a seguito dei primi accordi internazionali di libero scambio in sede di Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), una politica prevalentemente di aiuti diretti per gli agricoltori. È del tutto giustificato che la sicurezza alimentare, la stipula di accordi commerciali con altri Paesi, il coordinamento del sistema della conoscenza e il regime assicurativo in agricoltura per i rischi derivanti dalla volatilità dei mercati restino competenze dell’UE. Si tratta, infatti, di materie che si collegano all’impianto originario di politica per il mercato unico dei prodotti agricoli. Ma è altrettanto motivato che la competenza in materia di aiuti diretti sia devoluta agli Stati nazionali membri, oltretutto dopo che i “triloghi” (riunioni informali tripartite) tra rappresentanti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione, nell’esaminare l’ultima riforma della PAC (2014-2020), in contatto costante con le organizzazioni agricole dei Paesi membri, hanno di fatto avviato un vero e proprio processo di rinazionalizzazione di tale politica.

Con la nuova proposta della Commissione la devoluzione della competenza in materia di aiuti diretti agli Stati nazionali membri è ancor più giustificata. Si passa, infatti, da un approccio basato sulla conformità dei beneficiari a regole dettagliate (compliance) ad un approccio orientato ai risultati di ciascuno Stato membro (result-driven based). A tal fine si afferma di voler rafforzare la sussidiarietà attraverso un ribilanciamento delle responsabilità nella gestione della PAC tra UE e Stati membri. Se si compie lo sdoppiamento delle competenze, facendo in modo che le due sfere di sovranità siano ben definite sul piano delle responsabilità, senza alcuna interferenza reciproca, si otterrà che ogni Stato membro potrà finalmente definire una propria strategia agricola nazionale ed eliminando il passaggio UE-Stati membri si potrà pervenire ad una effettiva semplificazione della politica agricola.

Fin dal 1987, a proposito della PAC il rapporto Padoa-Schioppa rilevava quanto segue: “Si tratta di un’anomalia di sistema, giacché la Comunità … non è in grado di porre in essere politiche distributive a livello di singoli o di piccole imprese. Una perequazione efficiente dei redditi richiede un’amministrazione circostanziata a livello individuale e una coerenza rispetto alle caratteristiche del regime d’imposizione sul reddito e del regime previdenziale, tutte cose cui la Comunità non è in grado di provvedere. La Comunità si è in tal modo sostituita agli Stati membri, il che contrasta con i principi fondamentali di sussidiarietà e di vantaggio comparativo”.

Anche il rapporto Sapir del 2003 esprimeva analoghe considerazioni: “La struttura del bilancio […] comporta una riduzione molto sensibile degli importi destinati all’agricoltura. Si tratta di un cambiamento radicale rispetto alla situazione attuale, giustificato da quattro motivi. Anzitutto, l’attuale quota della PAC è talmente ingente da rendere impossibile, a meno di controlli più drastici, una riassegnazione significativa delle risorse nel quadro di un bilancio dell’Unione di entità pari a quella attuale. In secondo luogo, la PAC ha progressivamente cessato di essere una politica distributiva in grado di incentivare l’efficienza e la produzione, per favorire invece una determinata categoria di cittadini. […]. Una terza considerazione è che la grande varietà di redditi, di densità demografiche e di condizioni climatiche all’interno dell’Unione comporta un’estrema eterogeneità in fatto di preferenze, e tutto questo rende difficile attuare una politica agricola unica da Bruxelles. Altrettanto dicasi per la redistribuzione interpersonale. A maggior ragione, la redistribuzione interpersonale entro un singolo settore d’attività è un compito estremamente complesso a livello dell’Unione.

Da ultimo, la PAC non sembra conforme agli obiettivi di Lisbona, nel senso che il suo contributo alla crescita e alla convergenza a livello dell’Unione resta al di sotto dell’obiettivo fissato per la massima parte delle altre politiche. Continuare a finanziare la PAC ai livelli attuali equivarrebbe a non tener conto del contributo ridotto che essa dà al conseguimento degli obiettivi di Lisbona rispetto ad altri contributi potenzialmente molto più rilevanti, che possono venire dalle altre politiche generatrici di crescita che abbiamo descritto in precedenza. Esistono quindi ottime ragioni per decentrare la funzione distributiva della politica agricola comune verso gli Stati membri, come già avviene per tutte le altre politiche distributive. Al tempo stesso, l’aiuto nazionale decentrato a favore degli agricoltori dovrebbe rispettare le norme dell’Unione in materia di aiuti di Stato, essere compatibile con il mercato comune e non falsare la concorrenza”. Con lo sdoppiamento delle competenze, finalmente si presenta l’occasione per realizzare quanto già da tempo autorevoli analisti hanno suggerito.

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