Visioni

Il voto a Strasburgo pone seri interrogativi

Alfonso Pascale

Dopo la riconferma di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione europea in una votazione del Parlamento europeo che ha registrato la contrarietà del partito di Giorgia Meloni, la posizione dell’Italia nello scenario unionale si è fortemente indebolita.

Eppure c’erano tutte le condizioni politiche perché Fratelli d’Italia entrasse nella “maggioranza Ursula”. La candidata presidente era stata, infatti, molto chiara nel suo discorso all’assemblea: “Io sarò aperta a tutte le forze politiche che sono a favore dell’Europa, dell’Ucraina e dello stato di diritto”.

I Conservatori europei, di cui fa parte il partito della premier, nella passata legislatura avevano votato insieme ai partiti che sostenevano von der Leyen per l’87 per cento delle votazioni relative alla denuncia degli abusi dello stato di diritto nella Russia di Putin e al sostegno dell’Ucraina. Nel gennaio scorso, c’era stata addirittura una dichiarazione congiunta sottoscritta da Popolari, Socialisti, Liberali, Verdi e Conservatori europei per rafforzare il sostegno militare all’Ucraina.

Perché Meloni ha dunque preso questa decisione così grave da sospingere il nostro paese ai margini del nuovo equilibrio politico che si è creato nell’Unione europea?

È prevalso l’interesse del suo partito a rafforzarsi nella competizione elettorale con la destra nazionalista di Matteo Salvini. Mostrando ai propri interlocutori di avere a cuore prima il suo partito e poi lo Stato che rappresenta, la nostra premier si è ritagliata un ruolo del tutto eccentrico nel Consiglio europeo.

Non regge affatto la scusa che nel suo discorso programmatico, la candidata non aveva accolto la richiesta di abbandonare il Green Deal.

Von der Leyen ha confermato solo gli obiettivi della transizione ecologica per il 2030 e il 2050. Ma poi ha chiarito, con dovizia di argomentazioni, che nella legislatura che si è aperta cambierà profondamente l’approccio implementativo per raggiungerli. Un approccio che sarà basato su ingenti finanziamenti pubblici e privati e limitate regolamentazioni. Che era la forte richiesta avanzata da tutti i settori produttivi alla vigilia delle elezioni europee. Ci saranno il “Clean Industrial Deal”, l’”European Savings and Investiments Union”, l”European Competitiveness Fund”. Strumenti che permetteranno di “conciliare – come ha detto von der Leyen – la protezione del clima con un’economia prospera”. Davvero Meloni pensa che la crisi climatica si possa affrontare mantenendo lo “status quo”?

Certo, la candidata non ha precisato l’entità delle risorse necessarie e le modalità per acquisirle. Ma non si poteva pretendere una indicazione così puntuale e dettagliata di proposte in un discorso di candidatura alla presidenza della Commissione. Si tratta, infatti, di elementi che dovranno scaturire necessariamente dalla dialettica politica tra le diverse istituzioni unionali nei prossimi mesi.

Quello che è certo è che i Verdi, con il voto favorevole a von der Leyen, si sono collocati nella maggioranza e potranno così influenzare le future scelte. Mentre i Conservatori europei hanno scelto di allinearsi con una destra nazionalista che non entra nel merito delle politiche, ma contrasta tutto ciò che può rafforzare l’integrazione europea.

Peccato. Il partito di Meloni aveva l’opportunità di collocarsi definitivamente nello schieramento europeista e cimentarsi nel merito delle politiche necessarie per raggiungere gli obiettivi dell’Unione.

Per un paese come l’Italia che ha un pesante debito pubblico, la strada obbligata sarebbe quella di creare un debito europeo per rendere socialmente sostenibile una transizione ecologica che ha bisogno di ingenti risorse. E i Conservatori potrebbero legittimamente e coerentemente puntare ad ottenere un meccanismo simile a quello creato per Next Generation EU, anziché quello proposto dai Liberali: superare la distribuzione di risorse tra gli Stati membri e prevedere che una parte cospicua di risorse siano gestite direttamente da Bruxelles.

Per portare a compimento il programma enunciato dalla rieletta presidente della Commissione sarà inevitabile affrontare il grande tema della riforma dei trattati. Cosa farà Meloni? L’opposizione preconcetta ad ogni proposta che verrà avanzata o, com’è auspicabile, avvierà la discussione nel suo partito e nella sua famiglia politica europea di un proprio disegno di revisione istituzionale dell’Unione?

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