Visioni

L’antirisorsa del Sud

Alfonso Pascale

A cento tredici anni di distanza, le cause del terremoto e dello tsunami che il 28 dicembre 1908 colpirono le coste dello Stretto di Messina causando 100 mila morti e distruggendo intere città sono ancora ignote o fortemente dibattute.
Molti studiosi hanno finora ritenuto che la causa dello tsunami di Messina fosse il terremoto stesso, ovvero lo spostamento che il fondale marino subì lungo la faglia che produsse il sisma. Malgrado tale faglia sia sostanzialmente ancora sconosciuta, è noto che dovrebbe essere ubicata nello Stretto, non lontano dalla città. Ma se è ragionevole pensare che tale area sia quella da cui originò il terremoto, lo stessa cosa non si può dire per lo tsunami.
L’onda di tsunami, infatti, raggiunse la città di Messina circa 8-10 minuti dopo il terremoto: un tempo, questo, troppo lungo per ipotizzare nei pressi della città la sorgente dello tsunami, la cui velocità difficilmente poteva essere inferiore a 100 km orari.
La soluzione di questo dilemma è stata trovata da un gruppo di geologi dell’Università Roma Tre e di geofisici dell’Università di Messina, che hanno analizzato in modo integrato i risultati delle ricerche più recenti sul terremoto del 1908 e rielaborato – attraverso una tecnica di tracciamento delle onde di maremoto – i dati riportati in un libro del 1910 del geografo Mario Baratta (La catastrofe sismica calabro-messinese), rintracciando in una frana sottomarina presso Taormina la causa più plausibile per lo tsunami del 1908.
Le incertezze sulle cause di quell’evento dimostrano che vi è ancora nel nostro Paese una scarsa attività di ricerca e di informazione sui fenomeni sismici.
Quando parliamo del Mezzogiorno, spesso facciamo riferimento a quella grande risorsa costituita dai suoi caratteri ambientali, ma ci dimentichiamo che, all’interno di quel particolare ambiente, esiste un’antirisorsa costituita dai terremoti, di cui vi è ancora una debole consapevolezza.
Benché i disastri sismici dell’Italia meridionale abbiano da secoli distrutto vite umane e abitazioni, reti di scambi e di produzione, patrimoni architettonici e artistici, in modo ben più grave rispetto a quanto sia avvenuto nel resto del Paese, non sono ancora chiaramente individuabili gli atteggiamenti di risposta a questo problema.
Certo, non saranno i caratteri sismici a modificarsi perché, nella scala del tempo scandita dalla storia umana in anni e secoli, tali caratteri possono essere assunti come “stabili”, appartenendo a una scala geologica, i cui mutamenti si misurano in milioni di anni. Potrà dunque cambiare solo l’approccio umano a questo problema ambientale. E questo mutamento culturale e di mentalità, per scogliere l’ipoteca sismica, costituisce un’ulteriore sfida del Sud nei prossimi decenni, una sfida che va incidere nei suoi caratteri più profondi.

Adattarsi ai terremoti

Un forte terremoto diventa un disastro non solo quando va oltre la media dei valori misurati in quel sistema geofisico, ma anche quando supera la capacità degli uomini di assorbirlo. Infatti, una società può avere storicamente sviluppato strategie finalizzate a ridurre l’impatto di un terremoto distruttivo. Ma può anche non aver elaborato alcuna difesa, o averla coltivata in modo inadeguato. Quale che sia la risposta che una società ha elaborato per difendersi dai terremoti, c’è prima o poi un terremoto che “collauda” quelle scelte. Solo osservando nel lungo periodo tale risposta in senso edilizio, culturale ed economico, si può rilevarne l’efficacia. Ci si adatta ai terremoti distruttivi con azioni molto concrete: qualità della riparazione dei danni nelle fasi di ricostruzione, efficacia della macchina amministrativa che deve intervenire, costruzione di un sapere diffuso in grado di razionalizzare il terremoto e di stimolare forme di adattamento.
La risposta ai futuri terremoti è quindi formata da un complesso di elementi che determinano il livello di sicurezza che una società è in grado di darsi per garantire la propria incolumità.
La ricostruzione delle abitazioni distrutte da un sisma costituisce un problema di rilevante portata amministrativa, economica e sociale. Un tema generalmente sottovalutato dalla cultura del nostro paese e trascurato dalla ricerca storiografica.
Anche per il terremoto di Messina si è approfondito come esso si verificò, le modalità con cui avvennero i soccorsi, ma non si sono studiati a fondo i problemi della ricostruzione. Gli stessi mezzi d’informazione se ne occupano solo quando si manifestano in modo eclatante gestioni irregolari o illegali. Altrimenti si tace.

La sindrome del terremotato

In tutte le regioni meridionali vi sono paesi abbandonati. L’antropologo Vito Teti ne ha individuati una trentina solo in Calabria e ce li descrive in un bellissimo taccuino di viaggio, dal titolo Il senso dei luoghi. Gli spostamenti di intere popolazioni da un luogo ad un altro ha modificato non solo la toponomastica, ma anche il paesaggio culturale, la viabilità, gli assi economici locali.
La storia dei terremoti non è solo storia di costi economici e di reti insediative rimodellate. Essa contiene anche gli altissimi costi umani sostenuti dalle popolazioni colpite. E non si tratta solo di perdita di vite umane, ma anche di consuetudini quotidiane e di identità culturali, oltre ai disagi sociali e psicologici dovuti allo sradicamento, alla dispersione di affetti, ai legami interrotti. Si può dire che intere generazioni dell’Italia meridionale abbiano dovuto convivere con patrimoni edilizi inagibili, precari, o in via di demolizione o in via di lentissime e quasi sempre inadeguate ricostruzioni.

Allora vi è da porsi una domanda

Può una storia sociale così particolare non avere inciso sull’abito mentale di una popolazione?
In altre parole, quel certo disorientamento progettuale che sembra caratterizzare la società meridionale può avere a che fare con la lunga precarietà abitativa causata dai disastri sismici? Anche quel tipico paesaggio culturale, fatto di ruderi, rovine e abbandoni, ma anche di ricostruzioni mancate o parziali, quella crescita urbanistica disordinata di paesi e città, sempre in attesa di piani regolatori e di interventi pubblici, quel senso di “brutto” che ti prende allo stomaco soprattutto quando attraversi i luoghi che ami di più, sembrano i segni della difficoltà a portare a termine progetti invischiati in conflitti di competenze e di potere, in quel tormentato rapporto tra interessi privati, risorse disponibili e bene pubblico che pervade in modo permanente e drammatico la storia del Mezzogiorno d’Italia.

Centralismo e perdita di saperi costruttivi

Eppure la lunga sequenza di terremoti distruttivi ha fatto sì che nel tempo si delineassero anche delle risposte costruttive in relazione alle culture abitative preesistenti. Si tratta di quei saperi costruttivi non scritti, che mancano nei trattati e nelle accademie, ma sono evidenti nell’edilizia storica minore. Già questa è una risorsa che andrebbe valorizzata ed utilizzata, andando a ricercare all’interno di quegli antichi linguaggi costruttivi la “regola” che ne garantiva la sicurezza.

Ma dove sono ora quegli antichi saperi?

La spinta alla ricostruzione diretta e centralistica da parte dello Stato, dalla prima legislazione speciale varata a seguito del terremoto di Messina fino ai giorni nostri, si è espressa in normative che hanno completamente ignorato l’esistenza dei saperi costruttivi locali, accumulati in secoli di convivenza coi terremoti, ed hanno imposto regole di intervento uniformi e basate solo sul cemento armato.
Il risultato è stato quello di sfiduciare i mestieri edilizi delle popolazioni locali, che utilizzavano tecniche e materiali tradizionali, come pietre, murature e legno. In questi decenni, la pubblica amministrazione, spesso praticando anche forme deleterie di assistenzialismo, non solo si è fatta carico, come era giusto, di rendere disponibili le risorse finanziarie e di prevedere il controllo sul loro uso, ma si è assunta addirittura l’onere della progettazione e della realizzazione delle ricostruzioni pubbliche e private.
I risultati sono stati costosi e deludenti: si pensi al Belice, ma dopo anche alla Basilicata e all’Irpinia.
Quante “cattedrali nel deserto” e quanto paesaggio culturale perduto? Non c’è una sola masseria o casa colonica ricostruita nelle campagne meridionali che conservi i caratteri storici di quella distrutta. Per non parlare dei paesi e di quelle aree industriali rimaste vuote.

La responsabilità individuale

Bisognerà tornare alla responsabilità delle singole persone e delle popolazioni locali se si vorranno utilizzare meglio le risorse pubbliche e garantire una più efficace tutela degli edifici, delle infrastrutture e del patrimonio storico.
La sempre più ridotta disponibilità di risorse statali pone anche un altro problema: il livello di conservazione e di manutenzione della proprietà edilizia privata non potrà più essere addebitato interamente alla comunità nazionale.
Come regolare costantemente i controlli sulla sicurezza?
Come puntare sulla responsabilità individuale come motore delle decisioni?
Come liberare il patrimonio edilizio dall’abusivismo?
Come incentivare il sistema delle assicurazioni?
Come favorire il recupero e l’accumulo dei saperi costruttivi locali, mediante la ricerca e la formazione?
Sono tutte domande a cui la società meridionale deve rispondere adesso se vuole sciogliere l’ipoteca sismica che oggi pesa sulla propria economia. Senza attendere fatalisticamente una nuova emergenza.

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