La Coldiretti è stata costituita il 30 ottobre 1944. È difficile stabilire se oggi questa organizzazione sia una struttura di rappresentanza, una lobby o una semplice agenzia di servizi. Quello che appare è che ci troviamo dinanzi a un prodotto ibrido della società cibercentrica. L’evoluzione dell’agricoltura italiana – coi suoi punti di forza, ma anche con le sue profonde debolezze – è stata fortemente condizionata dalla presenza di questa organizzazione. E siccome la società odierna ha nel proprio Dna i tratti del precedente mondo rurale, è l’intero Paese a risultare fortemente influenzato, nelle sue abitudini più consolidate e nella sua mentalità più diffusa, dal modo di essere della Coldiretti. È forse per questo che si preferisce non parlarne e lasciare tutto marcire sotto il tappeto.
Ma c’è da chiedersi: se il sistema agricolo nazionale è alle prese con una crisi senza precedenti e con difficoltà che appaiono insormontabili nel cogliere le opportunità della globalizzazione, c’è qualche correlazione tra siffatto stato di cose e questa organizzazione? L’esplosione del mito bucolico della decrescita felice, l’atteggiamento antiscientifico e antitecnologico dilagante, il ripiego nel localismo egoistico e nel nazionalismo autarchico hanno a che fare con la mutazione genetica che la Coldiretti ha subito negli ultimi 25 anni? Essa, dunque, continua ad essere una palla al piede della modernizzazione dell’agricoltura o ha perduto ogni incidenza nell’evoluzione del settore?
L’antefatto
La Coldiretti nasce da una scissione della FIDA – Federazione italiana degli agricoltori, sorta, durante la lotta di Liberazione, dalle ceneri della vecchia Confederazione fascista dell’agricoltura. Una scissione condotta cinicamente a freddo dalla Dc e dalla Chiesa di papa Pacelli. Mentre le agricolture nazionali dei principali Paesi europei si fregiano di grandi e pressoché uniche organizzazioni professionali nazionali, in Italia le due principali culture politiche (cattolico-democratica e social-comunista) scelgono esclusivamente l’azienda contadina come proprio riferimento sociale nella costruzione del moderno partito di massa nelle aree rurali. Gli esponenti della tradizione social-comunista inseguono De Gasperi e Pio XII sullo stesso terreno, giungendo con molto ritardo – per difficoltà ideologiche – alla costituzione di una analoga struttura di rappresentanza dei contadini di sinistra. Si tratta di una scelta che sicuramente garantisce il radicamento delle due culture politiche, ma non giova affatto allo sviluppo economico e sociale del Paese.
Quando si riforma la Federconsorzi, il ministro dell’Agricoltura Segni conserva la norma fascista che consente l’iscrizione ai consorzi agrari versando appena cento lire. E così la Coldiretti s’appropria del colosso economico dell’agricoltura. Da quel momento, il rapporto con la Dc non è più solo gestione del potere, e quindi di raccolta dei voti e di rappresentanza parlamentare, ma diventa anche un rapporto finanziario.
Lo scandalo della Federconsorzi
Si va avanti così per quarant’anni. Agli inizi degli anni Novanta, il ministro dell’Agricoltura Goria firma il decreto di commissariamento della Federconsorzi. Le inchieste giudiziarie sul concordato preventivo portano alla luce un indebitamento per 6 mila miliardi di lire nei confronti del sistema bancario e dei fornitori. La procedura fallimentare adottata conduce alla dispersione della holding e dello storico patrimonio della rete dei servizi nelle campagne, cresciuta attorno ai consorzi agrari. Ma nessuno paga per quella immane appropriazione di ricchezza pubblica. Rinviati a giudizio, i responsabili della procedura fallimentare sono assolti, mentre gli amministratori e i sindaci, dopo quasi trent’anni, attendono ancora un verdetto.
La svolta indolore
Uno dei due alti funzionari della Coldiretti che, al momento del commissariamento della Federconsorzi, si trovavano nel collegio dei sindaci revisori a tutelare la regolarità dei bilanci, Gesmundo, diventa il capo dell’organizzazione agricola con l’incarico di segretario generale. A lui si deve la definizione della mission e del look con cui oggi la Coldiretti si presenta. La metamorfosi da vecchia struttura politico-burocratica che raccoglieva voti nelle aree rurali e finanziava le campagne elettorali della Dc, utilizzando i soldi della Federconsorzi, a contenitore pluriforme che non solo fornisce servizi fiscali, di patronato e per l’erogazione di pagamenti diretti agli agricoltori, ma realizza anche programmi promozionali, finanziati con risorse pubbliche, per rafforzare il proprio brand, s’inserisce nella recente evoluzione dell’idea di marketing verso quella di socialing sotto la spinta della rivoluzione digitale.
La Coldiretti collabora intensamente con società di sondaggisti. L’esito di ogni sondaggio sui temi più svariati che riguardano la vita quotidiana e, quasi sempre, privi di alcun aggancio con l’agricoltura, si trasforma in una velina che la Coldiretti sforna sia in occasione di eventi, sia quando non ha nulla da dire e desidera comunque occupare le prime pagine dei giornali. E così i più grandi quotidiani nazionali rilanciano le veline così come arrivano, senza verificare la scientificità dei dati che contengono. Basta il brand in capo alla pagina ad assicurare che le affermazioni siano incontrovertibilmente “vere”. E alla Coldiretti interessa che i media promuovano il proprio brand per fidelizzare i clienti dei propri servizi ormai diffusi non solo nelle aree rurali ma anche nei quartieri delle grandi città. Un meccanismo di convenienze reciproche che si autoalimenta all’infinito.
Le spighe di grano nella pala del logo e il giallo della bandiera della Coldiretti hanno simboleggiato per decenni il triplice mito “Religione Patria e Famiglia” dell’Italia contadina. Oggi cosa raffigurano? La trasmutazione è innanzitutto nel mito sintetizzato nello slogan: “Coldiretti forza amica del paese”. In continuità con il passato c’è solo la parolina magica “forza”. Ma senza avere più nei ranghi gli 85 deputati e 29 senatori che nel 1968 formavano ancora il cosiddetto “Gruppo parlamentare Coltivatori diretti”. Il sito internet istituzionale proclama in modo enfatico: “La Coldiretti con un milione e mezzo di associati è la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo”. Peccato che le imprese agricole in senso lato sono in Italia 410 mila, come viene sostenuto in uno studio di due stimati professori dell’Università politecnica delle Marche, Sotte e Arzeni. Uno studio paradossalmente commissionato dalla stessa Coldiretti.
Attenuatasi notevolmente la “forza” dei grandi numeri di una volta, nella magia attuale prende forma un nuovo termine: “amica”. Un vocabolo rassicurante con quella “emme” di mamma che racchiude i valori antichi. “Emme” come “mulino bianco” che ci avvolge in un mondo bucolico, mite, accogliente, pulito. E crea con l’idea di “forza” un ossimoro potente, che vuole dirci: “Non temete, ci siamo noi a preservarvi dai nuovi rischi del mondo globale”. Negli ultimi vent’anni l’organizzazione ristruttura le sue attività intorno a questi nuovi significati. Il tutto gestito in silenzio, sottotraccia. L’impressione è che si è voluta una svolta indolore. Per non fare i conti con il passato. E lasciar cadere nell’oblio molti scheletri tenuti nell’armadio.
L’azienda Coldiretti e la metamorfosi dei miti
Tra le parole magiche utilizzate si trovano “rigenerazione”, “campagna amica”, “patto coi consumatori”. Nella letteratura anglosassone sullo sviluppo delle aree rurali, il termine “rigenerazione” sta a indicare i processi innovativi che si alimentano con la conservazione delle risorse immateriali della cultura locale tradizionale. La Coldiretti lo riprende per alludere al suo nuovo percorso organizzativo. E lo associa a “campagna amica”: lo slogan che dovrebbe raccontare l’apporto della cultura agricola e dei valori rurali nel creare benessere diffuso nella società. Coadiuvano la Coldiretti in tale percorso due personaggi che provengono dalla sinistra: Petrini, che da gran patron di Slow Food finisce per diventare presidente della Fondazione “Campagna Amica”, e l’ex ministro dell’Agricoltura Pecoraro Scanio, che dopo aver avviato la distruzione di un pezzo importante della rete delle istituzioni di ricerca e sperimentazione in agricoltura ora svolge la funzione di coordinatore del comitato scientifico della stessa Fondazione. Incarichi che suggellano alleanze consolidate in campagne contro gli Ogm finanziate del pubblico erario ed estese anche ad altri soggetti, come la Fondazione Symbola di Realacci e la Fondazione dei Diritti Genetici di Capanna.
La Coldiretti ha, dunque, i caratteri di una vera e propria azienda, restando solo formalmente organismo di rappresentanza di una distinta forza sociale. Un’agenzia di servizi a tutto tondo. E gli associati sono di fatto declassati a semplici stakeholder come tanti altri. Senza più distinguere tra l’agricoltore e ogni altro cittadino: tutti trattati, alla pari, come semplici clienti della propria azienda. Una mutazione genetica, attuata in modo soft senza dichiararla, avvolta in una comunicazione semplificata e mitizzata, che produce messaggi confusi e contraddittori, dannosi perfino.
Il ritorno alla terra tra mito e realtà
Nel 2015 una notizia sensazionale campeggia per mesi nei media, alimentata dalla Coldiretti: 20 mila nuovi occupati giovani in agricoltura. Ma poi si comprende che è una fake news: l’aumento è legato alle richieste del premio comunitario di primo insediamento che spesso cela solo un subentro nominalistico di un giovane nella titolarità dell’impresa per poter accedere al finanziamento europeo.
Il controesodo dalle città verso la campagna non è, infatti, un fenomeno recente: quello che stiamo vivendo è iniziato negli anni Settanta senza mai avere impennate. Pochissimi lo hanno studiato e raccontato. E quelli che lo hanno fatto si sono accorti che queste realtà sono molto diverse tra loro a seconda del contesto territoriale e delle motivazioni dei protagonisti. Ogni generalizzazione rischia di semplificarne e banalizzarne il senso. Oggi emerge in chi lo scopre un approccio strabico, dettato più dalla voglia di fare sensazionalismo che informazione seria, più dall’interesse a farne un uso strumentale che conoscenza delle modificazioni sociali. Ma questo modo distorto di informare sui temi dell’agricoltura crea attese illusorie nei giovani, indotti a immaginare impieghi bucolici e nostalgici “ritorni al passato” e a ignorare che le prospettive di un’agricoltura sostenibile sono comunque connesse alla rivoluzione tecnologica in atto.
La Coldiretti è scarsamente presente nei social: il profilo Twitter ha 25 mila follower; quello Instagram ha racimolato 10.700 follower; la pagina Facebook ha totalizzato appena 1665 “mi piace”. Da questi dati si evince una remora a mettersi in mostra in modo trasparente e completo. La preferenza per Twitter è significativa: permette di “parlare dall’alto”. Andare su Facebook significa entrare nella mischia, confrontarsi senza piedistallo, combattere a mani nude, confrontarsi con le emozioni più basiche. Ma è inesorabile per promuoversi nell’era dei social. E quando accadrà, forse finalmente sapremo cos’è diventata la Coldiretti.
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