Visioni

La Coldiretti perde il pelo ma non il vizio

Alfonso Pascale

Sì, la Coldiretti perde il pelo ma non il vizio. Domenica 19 febbraio la Coldiretti ha occupato abusivamente i giardini dell’Auditorium del Parco della Musica a Roma, per istallarvi i banchi e gli stand di Campagna Amica. Una risposta all’insegna dell’illegalità e della prepotenza alla giusta decisione del Campidoglio di negare la proroga della concessione – elargita dal sindaco Alemanno nel 2012 – dello spazio pubblico di S. Teodoro.

L’assessore Adriano Meloni ha annunciato un avviso pubblico per l’assegnazione dello spazio del Circo Massimo. Ma alla Coldiretti non sta bene questa decisione e ieri si è appropriata di un altro bene comune della città per svolgere i propri affari.
Del resto, si comporta in questo modo da quando è nata. Nel dopoguerra, la Federconsorzi fu conquistata da Bonomi con l’astuzia. Egli non era un agricoltore. Comprò un pezzetto di terra in provincia di Viterbo e divenne così socio del locale consorzio agrario. Quando i rappresentanti dei consorzi provinciali si riunirono a Roma, nella sede del ministero dell’Agricoltura, egli si fece eleggere presidente della Federconsorzi. Che quella operazione fosse una sorta di “golpe” lo prova l’indignata reazione di don Sturzo, il quale commenta la vicenda sul “Tempo” del 31 luglio 1949 con queste parole: “Si sono fatti entrare frettolosamente nella Federconsorzi un numero notevole di nuovi soci col pagamento di 100 lire di quota, meno di un pacchetto di sigarette; e per di più le quote sono state pagate dagli Enti nazionali dell’agricoltura. (…) C’è un sistema che somiglia all’omertà organizzata e che supera ogni immaginazione. Gli amministratori sono uomini politici, associati a funzionari o funzionari associati a uomini politici”.

Con tali comportamenti spregiudicati, la Coldiretti ha portato al collasso la più grande organizzazione economica che l’agricoltura italiana abbia avuto dalla fine dell’Ottocento ad oggi. Oggi, corriamo il rischio che una bella intuizione, quella del farmer’s market, nata nei decenni scorsi in diverse realtà, non solo italiane, ma europee e statunitensi, sia banalizzata con una modalità che non ha nulla a che vedere con il significato vero di questa reinvenzione innovativa di una tradizione.
E’ per questo che all’amministrazione capitolina raccomandiamo di non limitarsi alla trasparenza. Essa è fondamentale ma non è sufficiente per creare un servizio che sia davvero nell’interesse della collettività e non di pochi privilegiati. La vicenda del mercatino di Circo Massimo dovrebbe essere l’occasione per voltare pagina nella gestione dei farmer’s market a Roma.

Il Comune di Roma ha creato nel 2012 un albo degli imprenditori agricoli accreditati come operatori del farmer’s market. Sono essi e i cittadini che frequentano il mercato contadino i protagonisti di questa modalità innovativa di vendita dei prodotti agricoli. E’ la loro relazione personalizzata e “intima”, culturale, ancorché economica, a caratterizzare il farmer’s market del terzo millennio.

L’assegnazione dello spazio non dovrebbe essere incentrato sulla selezione dell’ente gestore ma sulla migliore modalità volta ad esaltare la relazione tra produttore e cittadino-consumatore.
Per conservare lo spirito originario di questa innovazione, l’Amministrazione comunale dovrebbe sperimentare la co-progettazione del farmer’s market. Essa dovrebbe, dapprima, pubblicare un avviso pubblico per invitare gli enti interessati, che abbiano i requisiti di legge, a manifestare l’interesse a gestire il farmer’s market, E, successivamente, coi produttori, le associazioni dei consumatori e gli enti gestori interessati, dovrebbe aprire un tavolo di co-progettazione condivisa che riguardi non solo lo spazio di S. Teodoro, ma anche altri spazi della città, per una gestione collaborativa ed efficiente del servizio.

In tal modo, i produttori di Roma potranno essere protagonisti senza necessariamente indossare la maglietta di un’organizzazione di categoria e si potrà differenziare l’offerta, prendendo in considerazione non soltanto i prodotti tradizionali e tipici e quelli biologici, ma anche i prodotti dell’agricoltura sociale (fattorie sociali, agricoltura carceraria, prodotti delle terre confiscate, prodotti derivanti dall’interazione culturale tra migranti e produttori locali, ecc.).
Intorno all’attività di vendita, negli spazi vanno organizzate iniziative culturali sui temi del cibo. Il farmer’s market non è semplicemente una bottega, è un centro di cultura che ha bisogno di una visione e di una reale partecipazione delle comunità locali.

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