Per la prima volta, dopo venticinque secoli, il destino dell’Europa non è nelle mani degli europei. Questa è la tragica fase che stiamo vivendo. La globalizzazione ha prodotto una forte riduzione delle diseguaglianze nei Paesi emergenti. Ma non è avvenuta la stessa cosa nei Paesi sviluppati, dove il capitalismo globalizzato ha svuotato la sovranità della politica nazionale e ha penalizzato non solo le fasce deboli della popolazione, bensì anche i ceti medi, impoverendoli. Questi ceti sociali che nel secolo scorso costituivano il nerbo delle forze a sostegno delle democrazie, oggi, in preda alla rabbia e alla protesta, inseguono sul piano elettorale i populismi di ogni genere. L’Europa subisce così la crisi degli Stati nazionali e lo svuotamento della democrazia rappresentativa. E la sua civiltà millenaria viene colpita a morte.
Dopo sessantun’anni dai Trattati di Roma, assistiamo impietriti e afasici alla disgregazione dell’Ue. La cosa ci turba enormemente. Ed è per questo che giriamo lo sguardo altrove: ci ritroviamo sprovvisti di un lessico e di una grammatica per analizzare quanto sta accadendo. Usiamo parole che sono diventate equivoche. E non ci comprendiamo. Parlare d’Europa crea disagio, conflitti, sentimenti ambivalenti. Preferiamo allora tacere, rassegnati all’idea che ormai non ci sia alternativa al progressivo disfarsi del tessuto creato in questi decenni.
Macron ha proposto di riformare profondamente le istituzioni europee, a partire dalla creazione di un bilancio dell’Eurozona e di un ministro europeo delle Finanze. Egli ha preso le distanze dall’europeismo attendista secondo il quale “non è mai maturo” il tempo per discutere le finalità del processo di integrazione. Quando il sogno europeo diventa una routine burocratica – ha detto il presidente francese – allora non ci si può stupire che siano i nazionalisti a definire l’agenda del dibattito politico. Macron è il primo leader politico, da almeno una generazione, che sfida la cultura del galleggiamento.
Si tratta di costruire un’Europa a diverse finalità (e non a due velocità). Ciò con l’obiettivo di edificare un’Europa plurale costituita di due distinte organizzazioni, con distinte basi legali, con distinti assetti istituzionali e distinte competenze di policy. L’esistenza di un’unione federale, più piccola dell’attuale Ue ma più coesa, costituisce una condizione per stabilizzare politicamente l’Europa e il suo mercato unico, mostrando ai populismi e nazionalismi che si può costruire un’unione sovrana (in alcune politiche) di Stati sovrani (in altre politiche).
Solo in questo modo si potranno mettere in campo politiche efficaci per rispondere alla protesta e alla rabbia che, negli ultimi mesi, si sono manifestate in modo plateale nelle elezioni politiche di diversi Paesi e che alimentano le forze anti-europeiste.
C’è, dunque, una possibilità perché i cittadini europei diventino protagonisti del proprio destino. Ma dobbiamo farlo reinventando una parte dell’eredità culturale europea, a partire dai concetti di cittadinanza, di democrazia rappresentativa, di stato nazionale, di stato del benessere, di sussidiarietà e di un nuovo rapporto tra società aperta e comunità territoriali inclusive. È questo il grande compito della politica democratica hic et nunc.
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