Visioni

La differenza tra contadini e luigini

Alfonso Pascale

Ecco il mio intervento all’evento promosso dal quotidiano il Foglio in collaborazione con il Banco BPM, venerdì 22 novembre a Milano, sul tema “Terreni fertili. L’Italia del futuro raccontata attraverso le sue eccellenze agricole”.
Cercherò in pochi minuti di rispondere a queste due domande:
COME SI SONO TRASFORMATE LE CAMPAGNE?
COME I CONTADINI SONO DIVENTATI IMPRENDITORI AGRICOLI?
Sono lucano. Amo appassionatamente l’agricoltura. Non sono nato in una famiglia contadina ma i miei nonni sì.
Avevano conosciuto la miseria.
Sapevano cos’era la fatica che caratterizzava il lavoro agricolo.
Ricordo il loro senso di ospitalità e la sacralità dell’aiuto reciproco.
I contadini meridionali amavano vivere nei centri abitati.
Da lì raggiungevano i dispersi piccoli appezzamenti di terra che possedevano in proprietà o conducevano in affitto o in compartecipazione.
Da secoli, quei sistemi agricoli si riproducevano sempre uguali a se stessi.
E segnavano la condizione di emarginazione, in cui i contadini erano tenuti da quelli che Carlo Levi chiamava “luigini”.
Nel romanzo Cristo si è fermato ad Eboli (1945), “don Luigino” è il podestà.
E nel romanzo L’orologio (1950), Carlo Levi spiega la differenza tra “contadini” e “luigini”.
I “contadini” non sono soltanto quelli che lavorano la terra ma “quelli che creano le cose”.
I “luigini” sono tutti gli altri che, per vivere, succhiano e si nutrono dell’opera dei contadini.
I “luigini” hanno “le parole”.
I “contadini” “sono una grande forza che non si esprime, non parla”.
Per questo, il poeta Rocco Scotellaro volle farsi interprete di quel mondo senza voce.
Con la democrazia repubblicana, si era formata, tra i contadini, una rete di capipopolo.
I capipolo avevano insegnato ad altri contadini la lezione di Giuseppe Di Vittorio sulla “coppola”.
«Vi dovete togliere il vizio della coppola!» dicevano.
Nel linguaggio popolare lucano, il termine “vizio” è sinonimo di “abitudine”.
I contadini si levavano la coppola, sia come gesto di cortesia, sia in segno di sottomissione.
I capipopolo avevano spiegato loro la differenza tra subalternità e buona educazione.
I contadini si erano tolto il “vizio della coppola”. E, con il senso di sé, avevano preso la parola.
Così avevano conquistato la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno.
Si erano create le condizioni perché i contadini diventassero imprenditori, cioè “innovatori”.
Con la “Rivoluzione verde” ci fu un impiego diffuso di mezzi meccanici, fitofarmaci e fertilizzanti e uno sviluppo della genetica.
In pochi anni, la nostra agricoltura si sviluppò e si aprì ai mercati internazionali.
In tal modo, il nostro Paese diventò la settima potenza industriale del mondo.
Ma è proprio allora che si verifica un fatto non ancora studiato a sufficienza.
Dalla metà dell’800 lo stato aveva investito molto in istruzione agraria, ricerca e assistenza tecnica.
Si era così creato un ceto professionale di agronomi, economisti agrari e ingegneri idraulici.
Essi si erano caricati della funzione di espandere il progresso tecnico nelle campagne.
Ma quell’investimento dello stato iniziò a calare proprio quando era necessario.
E così gran parte dei tecnici venivano assunti, in misura maggiore rispetto al passato, dalle industrie produttrici di mezzi tecnici.
Venivano adibiti ad attività private di divulgazione agli acquirenti.
In tal modo, gli agricoltori diventarono destinatari passivi di tecnologie.
Non si giovavano più di strutture pubbliche capaci di fare da filtro nel rapporto tra gli imprenditori agricoli e le industrie produttrici di mezzi tecnici.
Parte da lì la rottura ecologica? Chissà. Andrebbe approfondito.
Negli anni ‘70, il ministro dell’Agricoltura, Giovanni Marcora, comprese che c’era un problema ambientale da affrontare.
Non istituì solo nuovi parchi.
Ma rinforzò la ricerca pubblica in agricoltura.
E conquistò a Bruxelles il “pacchetto Mediterraneo”.
Così formammo una leva di divulgatori.
Collegati con le Università e le istituzioni di ricerca, questi invasero le campagne per promuovere innovazione e sviluppo.
Ma negli anni ‘90, la Pac si trasformò in “aiuti diretti al reddito”.
Combinammo in tal modo due guai.
Disincentivammo gli agricoltori ad innovare.
E trasformammo i divulgatori in burocrati.
Oggi chi sono gli agricoltori?
Le aziende agricole censite dall’Istat nel 2020 sono un milione e 100 mila.
Di queste, 800-900 mila sono aziende part-time e per l’autoconsumo.
Le imprese agricole sono, dunque, 200-300 mila.
Di queste, 65 mila sono imprese multifunzionali.
Producono energia rinnovabile. Svolgono attività agrituristiche. Sono fattorie sociali.
Ci vorrebbero politiche distinte.
La Pac dovrebbe essere destinata solo a chi produce per il mercato e a chi organizza servizi.
Gli aiuti diretti al reddito dovrebbero essere una competenza degli stati per sostenere le aree interne.
Manca un’idea condivisa di agricoltura del futuro.
Gli agricoltori sembrano tornati ad essere i “contadini” di Carlo Levi.
Tante debolezze individuali prive di voce e di rappresentanza.
E alla mercé di nuovi “luigini”: ambientalisti ideologici, editorialisti complottisti, scrittori nostalgici, qualche organizzazione agricola che ha smarrito il senso di sé.
Tutti pretendono di imporre la loro idea di agricoltura.
Altro che ritorno alla terra, pare esserci un ritorno al “vizio della coppola”.
Con le proteste, i “trattori” hanno detto che gli agricoltori non vogliono tornare all’agricoltura di una volta.
Forse ci vogliono “reti di capipopolo” di nuovo tipo.
Per tenere insieme produttività, innovazione e sostenibilità.
Per far collaborare imprese e organizzazioni dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi; Università e centri di ricerca.
Ci sono già delle buone pratiche.
Ad esempio c’è la rete di divulgazione scientifica SETA – Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura, la progettualità della Rete SPAC a Foggia e quella della Rete Fattorie Sociali.
Eventi come questo di oggi servono a promuoverne altre: reti di capipopolo per l’innovazione.

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