Visioni

La sagra dei soliloqui sul cibo

Alfonso Pascale

La XV edizione dei Dialoghi di Pistoia, che si svolta dal 24 al 26 maggio, è dedicata al cibo.
Alcuni relatori hanno anticipato il contenuto dei loro interventi sulle colonne di giornali nazionali.
Lo storico Massimo Montanari (su “Domenica” del “Sole 24 Ore” del 19 maggio 2024) affronta il tema del vegetarianismo. Una scelta dietetica derivante da motivazioni culturali. Sono tali – afferma lo studioso – anche quando i cultori di tale stile alimentare amano definire “naturali” o “originarie” le motivazioni che li hanno spinti ad adottarlo.
Montanari ricorda che “certi monaci o asceti medievali rappresentavano la dieta vegetariana come una sorta di ritorno al Paradiso terrestre, quando gli uomini, ancora puri e incorrotti, vivevano di sole erbe e frutti”. È un mito che si trova non solo nella Bibbia ma anche nella mitologia classica dell’Età dell’oro, quando gli uomini erano felicemente vegetariani e non conoscevano la violenza.
“Alla base della scelta vegetariana – afferma lo storico – c’è il rifiuto della violenza”. Ma il legame tra vegetarianismo e rifiuto della violenza “presuppone un’idea della vita che tenga insieme gli esseri viventi senza gerarchie”. Le tradizioni di pensiero che presuppongono una barriera, una distanza invalicabile fra uomini e animali non favoriscono la scelta vegetariana. L’imbarazzo, il disagio (che comunque esiste) del mettere a morte un essere vivente in tal caso si risolve in modo diverso. “Tutte le culture antiche dell’area mediterranea – racconta Montanari – sacralizzarono l’uccisione dell’animale attraverso il rito del sacrificio, che de-colpevolizza la violenza del gesto”. E continua: “In un mondo in cui il pensiero dominante dava per scontato che la vita degli animali non vale quanto la vita degli uomini – su questo concordavano Aristotele e la Bibbia – la scelta vegetariana era fuori corrente, decisamente eccentrica”.
Sono soprattutto le filosofie e religioni orientali a legare la scelta vegetariana all’opzione animalista, fondata sul rispetto della vita universale. Spesso si fa leva sul principio della metempsicosi, il fluire della vita da un essere all’altro, uomini e altri animali indifferentemente.
In ambito cristiano l’animalismo non è ammesso. Agostino spiega che il comandamento divino di “non uccidere” riguarda solo gli umani. E la scelta di non mangiare carne si giustifica con considerazioni diverse, focalizzate sul soggetto e non sull’oggetto, sul mangiante e non sul mangiato. Rinunciare alla carne è un modo per fare penitenza, mortificare il corpo rinunciando al piacere del cibo. I monaci, che alla carne rinunciano con maggiore sistematicità, elaborano anche l’idea che, in fin dei conti, la dieta vegetale sia più salubre per il corpo.
Il tema della salute trova particolare enfasi in età moderna. Più recentemente ha dato vita a un vero boom salutista, con relativo business. Ma oggi è l’ambientalismo a costituire la motivazione principale del vegetarianismo. L’idea che prediligere il cibo vegetale sia un modo per contribuire alla difesa o al recupero degli equilibri territoriali e climatici si è fatta strada parallelamente alla consapevolezza che l’azione dell’uomo è decisiva per il futuro del pianeta. “E così il pensiero vegetariano – conclude Montanari – è uscito dalla dimensione eccentrica, che per secoli lo aveva caratterizzato, e ha assunto una posizione culturalmente centrale”.
L’antropologo Marino Niola (su “Robinson” di “Repubblica” del 19 maggio 2024) presenta invece una rassegna degli integralismi che accompagnano le scelte alimentari della contemporaneità. Ad essere demonizzati dai “vegetariani, vegani, lattofobi, crudisti, no gluten, fruttariani” non sono solo i cibi ma anche le persone che li mangiano. Dice lo studioso che tali persone diventano – agli occhi degli integralisti alimentari – corpi estranei, veri e propri nemici che attentano l’integrità fisica e morale di chi sceglie di cibarsi in un certo modo.
Si tratterebbe – secondo l’antropologo – di un processo più generale di “pericolosissima tribalizzazione del corpo sociale, di cui quella alimentare è solo la parte affiorante dell’iceberg”. Ma l’integralismo del cibo – dice Niola – “è uno dei sintomi più inquietanti di quell’intolleranza che sta erodendo poco a poco il fondamento comunitario della nostra civiltà”.
“La ricerca del modello alimentare virtuoso – afferma lo studioso – è diventata la nuova religione globale. Che, come tutte le confessioni nascenti, produce continue contrapposizioni, scismi, eresie, sette, abiure. Ciascun credo dietologico si ritiene l’unica via verso la salvezza. E verso l’immortalità. O almeno quel suo succedaneo che chiamiamo longevità. E che oggi è diventata il sogno e l’incubo di un Occidente ormai sazio e ansioso di pentirsi dei suoi peccati di gola. Così anticipiamo il giorno del giudizio e facciamo del dietologo una sorta di Dio giudice. O di Dio una sorta di dietologo celeste, che premia i magri e castiga i grassi. Ecco perché siamo costantemente alla ricerca dell’alimento che ci liberi dal male. E scacci il demonio annidato nell’adipe. Vogliamo tutti l’Esorcibo”.
L’antropologo Vito Teti (sul “Manifesto” del 23 maggio 2024) parte dalle abitudini alimentari che abbiamo acquisito negli anni successivi al Covid 19. Un periodo in cui “tutto diventava inquietante, perturbante, spaesante perché in realtà continuavamo a vivere, in maniera diversa, nella casa e nel luogo di prima, con i familiari e le persone di sempre, che improvvisamente ci apparivano altri, diversi”. Un’esperienza che, secondo lo studioso, ci ha segnati. “Sperimentando comportamenti diversi – dice Teti – abbiamo imparato cosa significhi mangiare da soli o in compagnia, cosa comporti avere fame o sete in una situazione sospesa o precaria”. Una sensazione che si può accostare a quella che si prova nelle aree interne dell’Italia colpite dalla crisi demografica.
“Il vuoto spaziale, produttivo, antropologico – afferma lo studioso – potrebbe essere riempito con pratiche di buona produzione e di buona cucina, da una ‘restanza’ (legame rispettoso e con la Terra e con il pianeta) in cui gli ‘avanzi’ non vengano buttati, ma ‘riusati’, mescolati in maniera sapiente, con fantasia, recuperando o inventando il valore di un mangiare parco, frugale, salutare, riconoscibile, che mantenga l’attenzione per gli ultimi del mondo, per quanti non hanno da mangiare e da bere”.
Nel programma della rassegna di Pistoia manca del tutto la scienza, la filosofia e la politica. Se non ci nutriamo anche di questo cibo, non lamentiamoci se poi “siamo quello che mangiamo”.

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