Nella Biblioteca Nazionale di Napoli è conservato un ritaglio di carta lungo e sottile su cui Giacomo Leopardi, con scrittura minuta e precisa, chiara ed elegante, stese una lista di quarantanove piatti realizzati con mano sapiente nella città partenopea, dove il poeta era giunto nell’autunno del 1833 insieme all’amico Antonio Ranieri. A predisporre le pietanze ci pensava Pasquale Ignarra, cuoco rivoluzionario, esule politico dopo la breve stagione della Repubblica Partenopea del 1799. Egli seguì il poeta nelle case napoletane e a villa Ferrigni, posta alle pendici del Vesuvio, poi nota come “villa delle Ginestre”, e si dedicò a lui con attenta sollecitudine preparando cibi che erano il frutto di uno scambio intenso tra i due amici, fatto di riflessioni filosofiche e di antichi saperi culinari attinti nei luoghi natii.
Fiori di zucca fritti, bigné di patate, polpettone, cacio cotto: frammenti di una squisita eredità leopardiana che non ha destato scarso interesse. Un lascito che equivale ad un viatico se riflettiamo sul fatto che egli compila l’elenco negli ultimi anni della sua vita. Un viatico per cosa? Forse per quel compito della fatale ragione che, alimentandosi nella sana consapevolezza del piacere, si può manifestare in modo ragionevole?
La scrittura elegante e pulita che ci ha tramandato versi zuppi di classicità e grondanti amarezza, slanci morali e un certo distacco, se non disprezzo, per ciò che è materiale, sciorina un elenco di prelibatezze del tutto terrene. Ogni piatto indicato da Leopardi e realizzato da Ignarra potrebbe riflettere una teoria del gusto e rispondere ad una esigenza sociale, rivelando così una precisa linea di percorso nella storia della cucina italiana.
È questa l’ipotesi su cui Domenico Pasquariello, meglio conosciuto come Dègo, pittore romano che vive prevalentemente a Parigi, costruisce con Antonio Tubelli, cuoco apprezzatissimo a Napoli, il bel volume Leopardi a tavola (Logo Fausto Lupetti Editore, 2008), frutto dell’intreccio di una base storica documentata e di un andare fantastico così armonioso da farci rivivere quegli anni, ripercorrendo una città, Napoli, densa di profumi, di odori, ricca di passato.
L’idea di Nazione che emerge dal pensiero politico di Leopardi e le competenze gastronomiche che gli derivano dalla sua educazione familiare fanno sì che dai dialoghi con il maestro-cuoco Ignarra scaturisca una vera e propria reinvenzione del gusto che supera i regionalismi e porta ad un’unità l’arte culinaria italiana. Anticipando di mezzo secolo l’Artusi in tale impresa.
Gli autori fanno ricorso a stralci di testi leopardiani che, nel descrivere il suo rapporto con il cibo, attestano una concezione galeniana dell’alimentazione da parte del poeta di Recanati: mangiare per star bene, nell’armonia perfetta di cibo, ambiente, situazione. In alcune lettere ai parenti e agli amici, per esempio, menziona la nostalgia di certi alimenti, specialmente dolci (il “gelato di latte e di miele”), assaggiati durante le feste paesane.
Il poeta del “Passero solitario” e de “L’infinito”, convertito all’edonismo gastronomico, si dilunga così in minuziose descrizioni di ingredienti, procedimenti, dettagli degni del più raffinato ed esigente buongustaio.
A mano a mano che l’amenità dei luoghi e la cordialità delle persone diventano inimitabili certezze, si afferma in Leopardi il convincimento che le ragioni del piacere si traducono solo nel cibo. E così si può capire perché in lui, come per un calcolo o come per una tenacissima volontà, in certi istanti gli accadono fatti piacevoli anticipati solo dalla consumazione di una pietanza.
Anche quando arriva la prima volta nella villa di Torre del Greco, quella che avrebbe ispirato “La ginestra” o “Il fiore del deserto” e trova sotto una vivace pergola di uva fragola comodissime poltrone di bambù con in mezzo un grande tavolo circolare ricoperto da una primaverile tovaglia sulla quale risalta una artistica cornucopia che riversa frutta e verdura di stagione, ha una forte sensazione di piacevolezza. Presto sono serviti biscotti e taralli, dolci e salati, accompagnati da bevande rinfrescanti e da un delicato rosolio. E a Leopardi pare di ricevere soavi carezze dai profumi dei primi fiori al felice richiamo del garrito delle rondini e sotto lo sguardo attento del Vesuvio, che se ne sta imperioso nel largo cielo.
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