I governi di Ungheria e Polonia hanno minacciato il veto sul Recovery fund convinti che sia inaccettabile legare al rispetto dello stato di diritto (regolato dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea) l’erogazione dei fondi previsti dal piano Next Generation Eu. In molti, in Europa e in Italia, hanno seguito questa vicenda mostrando grande preoccupazione per il possibile rallentamento del Recovery plan, ma in pochi hanno invece mostrato allarme rispetto alla gravità rappresentata dalle affermazioni dei due governi europei.
Vediamo brevemente di cosa si tratta. L’eurodeputato Juan Fernando López Aguilar è relatore sullo stato di diritto in Polonia per il Parlamento Europeo e presidente della Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni. Al suo impegno si deve il risultato storico conseguito l’11 e 12 novembre a Bruxelles, nella seduta plenaria del Parlamento Europeo: l’inserimento all’interno del Recovery plan, di un’efficace condizionalità per proteggere il bilancio UE nel momento in cui lo stato di diritto viene violato. In altre parole, l’accesso ai fondi dell’UE è collegato al rigoroso rispetto dei requisiti dello stato di diritto, della democrazia e dei diritti fondamentali sanciti dall’articolo 2 (valori comuni dell’UE) del Trattato sull’UE. E questa condizionalità si ottiene in modo tassativo: il Consiglio si vede costretto a decidere entro un periodo limitato (massimo sei mesi) senza poter procrastinare senza decidere; allo stesso tempo è rispettato il diritto dei beneficiari finali (persone, aziende, enti) a ricevere gli aiuti europei.
Lo scorso 16 gennaio, il Parlamento Europeo ha votato a stragrande maggioranza – 446 voti favorevoli, 178 contrari e 41 astenuti – una risoluzione in cui viene sottolineato come, anche stando alle relazioni e alle dichiarazioni di Onu, Ocse e Consiglio d’Europa, “la situazione sia in Polonia che in Ungheria si è deteriorata sin dall’attivazione dell’articolo 7, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea”.
Il dossier presentato da López Aguilar è devastante ed è un’istantanea dettagliata su come lo stato di diritto, la democrazia e i diritti fondamentali siano stati sistematicamente compromessi e feriti in Polonia a partire dal 2015. “Dopo essere riuscito a politicizzare la Corte costituzionale e il Consiglio nazionale della magistratura, il governo polacco ha proseguito nell’operazione di smantellamento della Corte suprema e ha portato avanti una campagna d’intimidazione a scapito dei giudici che hanno mosso critiche a questi cambiamenti del sistema giudiziario. Ciò di cui siamo stati testimoni in Polonia non è solo un episodio, ma una serie di diverse azioni e riforme legislative intraprese dalla maggioranza PiS (partito nazionalista Diritto e Giustizia) che, viste nel complesso, rappresentano una grave, reiterata e sistemica violazione dello stato di diritto”. Diritti come la libertà di espressione. Diritti come il pluralismo. Diritti come la libertà di stampa, quella accademica, di associazione e manifestazione.
Vale per la Polonia ma vale anche per l’Ungheria. Lo scorso 30 settembre, la Commissione europea ha pubblicato il suo primo rapporto sullo stato di diritto nell’UE, ed è sufficiente leggere i capitoli dedicati a Polonia e Ungheria per capire di cosa stiamo parlando. Per quanto riguarda la Polonia, i punti critici sono tendenzialmente tre. Riforme giudiziarie, “che hanno ripercussioni sul Tribunale costituzionale, sulla Corte suprema, sui tribunali ordinari, sul Consiglio nazionale della magistratura e sulla procura, e che hanno aumentato l’influenza del potere esecutivo e del potere legislativo sul sistema giudiziario e hanno quindi indebolito l’indipendenza della magistratura”. Queste riforme hanno indotto “la Commissione ad avviare nel 2017 la procedura di cui all’articolo 7, paragrafo 1”, hanno portato nel 2019 e nel 2020 la Commissione ad avviare “due nuove procedure di infrazione per salvaguardare l’indipendenza della magistratura” e hanno portato “la Corte di giustizia dell’Ue a emettere provvedimenti provvisori per sospendere i poteri della sezione disciplinare della Corte suprema per quanto riguarda i procedimenti disciplinari nei confronti dei giudici”.
Il secondo punto riguarda la presenza, documentata, di “preoccupazioni circa l’indipendenza delle principali istituzioni responsabili della prevenzione e della lotta alla corruzione, in particolare se si considera che l’Ufficio centrale anticorruzione è subordinato all’esecutivo e che il ministro della Giustizia svolge contemporaneamente le funzioni di procuratore generale”.
Il terzo punto riguarda invece, nello specifico, “il quadro giuridico polacco in materia di pluralismo dei media che si basa sia sulle garanzie costituzionali che sulla legislazione settoriale”, con un rilievo specifico relativo a una norma che rende possibile, per i giornalisti, “la criminalizzazione dell’oltraggio a pubblico ufficiale”.
Quanto all’Ungheria, il quadro è ancora più tetro. “Nel corso degli ultimi anni – si legge nel dossier – le istituzioni dell’UE hanno spesso sollevato con preoccupazione il problema dell’indipendenza della magistratura ungherese, anche nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7, paragrafo 1, avviata dal Parlamento Europeo. L’invito a rafforzare tale indipendenza, formulato nel contesto del semestre europeo, è rimasto lettera morta”. In particolare, “il Consiglio nazionale della magistratura, organo indipendente, è in difficoltà nel controbilanciare i poteri del presidente dell’Ufficio giudiziario nazionale competente per l’amministrazione degli organi giurisdizionali. Preoccupano anche gli sviluppi relativi alla Corte suprema (Kúria) e in particolare la sua decisione di dichiarare illegittima una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’UE. Alcune norme recentemente approvate, oltre a consentire la nomina alla Corte suprema di membri della Corte costituzionale, eletti dal Parlamento al di fuori della normale procedura, abbassano i criteri di eleggibilità del presidente della Corte suprema”.
Continua la Commissione: “Il quadro istituzionale anticorruzione è suddiviso tra vari organi. Le carenze dei meccanismi di controllo indipendenti e le strette interconnessioni tra il potere politico e alcune imprese nazionali favoriscono la corruzione. Mancano sistematicamente interventi decisi nelle indagini e nelle azioni penali in caso di accuse gravi di corruzione nei confronti di funzionari di alto livello o della loro cerchia immediata. Questo problema è stato sollevato nell’ambito del semestre europeo e dal Greco (il Group of States against Corruption), in considerazione della mancanza di impegno nel rispettare le raccomandazioni”. Infine, “la Corte di giustizia ha ritenuto non compatibile con il diritto dell’UE la legislazione sulla trasparenza delle organizzazioni della società civile finanziate con fondi stranieri”.
Lo scontro tra l’Europa e il duo di Visegrád formato da Polonia e Ungheria non è dunque solo uno scontro sul futuro del Recovery plan, ma è prima di tutto uno scontro sul futuro dell’Europa e sui valori non negoziabili di una democrazia liberale. È la prima volta da quando, 40 anni fa, il Parlamento Europeo è rappresentato direttamente dai cittadini europei, che questa istituzione fa valere con forza le proprie prerogative di co-legislatore nel confronto-scontro con l’altro co-legislatore, il Consiglio. I cittadini polacchi e ungheresi avvertono finalmente che il loro voto alle elezioni europee del 2019 è davvero servito a tutelare i loro diritti messi seriamente in discussione dai loro governi.
È probabile che alla fine il veto dei due paesi venga evitato con qualche marchingegno giuridico che la Commissione ha già predisposto. Gli altri 25 possono sempre fare un Recovery fund senza Ungheria e Polonia. Tuttavia, non è possibile far finta di non aver visto lo spettacolo raccapricciante offerto, in Italia e in Europa, dall’estrema destra di governo desiderosa così tanto di combattere l’Europa della solidarietà al punto da aver difeso due paesi che hanno scelto di fare della violazione sistematica dello stato di diritto europeo un proprio punto d’orgoglio.
A Orbán e Morawiecki va ricordato che l’Unione non è una prigione. L’articolo 50 del TUE è abbastanza esplicito: “Ogni Stato membro puo’ decidere di recedere dall’Unione, conformemente alle proprie norme costituzionali”. Ebbene, si accomodino fuori se non condividono i valori della democrazia liberale. L’eurodeputata Sophie in ’t Veld (del gruppo Renew Europe) ha sintetizzato efficacemente il senso politico dello scontro: “Se non si rispettano le regole dell’UE, non si vuole farne parte. In tal modo non è possibile rimanere membri dell’Unione con tutti i benefici, compresi i fondi UE”.
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