Visioni

Non sempre la voce del popolo

Sante Ambrosi

In questi ultimi mesi sento in continuazione usare l’espressione di popolo quale portatore e voce di valori irrinunciabili ed eterni, sia da un punto di vista sociale come da un punto di vista religioso e culturale.

Di fronte a un uso tanto enfatizzato e generalizzato in modo del tutto acritico mi è venuta la voglia di fare alcune importanti precisazioni su questo tema, per scongiurare facili fraintendimenti e confusioni pericolose.

Vediamo in sintesi come è nata l’idea: voce del popolo come voce di Dio.

Il primo che ha usato il motto “volontà del popolo come volontà di Dio” è stato Giuseppe Mazzini. E aveva, diciamo noi, tutte le ragioni perché voleva e doveva convincere il popolo Italiano, e non solo quello, che i loro desideri di libertà e di autonomia da regimi ormai insopportabili (e non entriamo nel merito) erano sacrosanti e giusti. Teniamo presente che l’autorità, anche quella politica, e in pieno Ottocento, era sentita dal popolo come espressione della volontà divina. Al punto che il popolino quando passava il re lo toccava per avere un beneficio salutare, addirittura qualche guarigione.

Questo principio servì a Mazzini e a tutti i patrioti del tempo come motore di una riscossa forte e che ha portato in seguito al nostro Risorgimento.

Il principio ”Voce del popolo come voce di Dio”, divenne più o meno anche un assioma di buona parte della cultura di tutto il Risorgimento e dello stesso romanticismo, almeno nelle linee fondamentali (stiamo schematizzando in modo brutale!).

Ma ci si accorse abbastanza presto che l’equazione mazziniana poteva portare a pericolosi errori su diversi piani della vita sociale. Sarebbe interessante visitare ampiamente quella vasta corrente di pensatori e scrittori già fortemente presente nell’ottocento che criticarono con varie motivazioni l’equazione mazziniana. Ci fermiamo solo su due nomi di quel periodo.

Leopardi nel famoso canto ”Alla Ginestra“ critica l’idea di progresso sostenuta da un sentire comune e diffuso a livello popolare. Il progresso per il poeta Leopardi non si identifica con i progetti molto spesso miopi di una cultura dominante e da aspettative il più delle volte solo emotive.

Ma è soprattutto Manzoni che, nel suo romanzo I Promessi Sposi, da’ molto spazio alla critica del principio: voce del popolo come voce di Dio.

Il popolo descritto nel suo grande romanzo è un popolo che certamente ha subito gravi ingiustizie, ma anche un popolo assetato di una giustizia completamente sbagliata e fondata su sentimenti totalmente soggettivi e senza progetti capaci di risolvere i problemi sociali.

Da popolo oppresso si trasforma così in popolo che distrugge i forni, si infuria contro gli untori, e lo stesso Renzo fatica a svincolarsi dalla furia popolare che lo crede un pericoloso untore. Sempre nel suo romanzo, Manzoni lascia intendere che lo stesso cardinale, soggiogato dal furore popolare, accetta una processione dannosissima per la salute. Manzoni è chiaro: l’equazione voce del popolo voce di Dio è falsa e pericolosa.

Purtroppo la confusione descritta da Manzoni nella società del suo tempo è diventata ancora più grave nel secolo appena passato, il Novecento, con l’avvento di nazismo e fascismo.

Sotto questi regimi si è concretizzato al massimo livello il dramma causato da un tale fraintendimento della voce del popolo come fonte della verità. E tutti noi conosciamo le conseguenze che ne sono derivate.

Purtroppo anche qui i pochi intellettuali che si sono opposti, ebrei e non, hanno dovuto emigrare per salvarsi la vita. Tra i tanti voglio ricordarne uno, di grandezza riconosciuta da tutti: Thomas Mann.

Thomas Mann è forse il più grande scrittore tedesco del 1900, i suoi romanzi sono capolavori di indiscutibile grandezza letteraria. Nel 1929, dopo i primi grandi romanzi come I Buddenbrook, Montagna Incantata, per ricordare solo i principali, ottiene il più grande riconoscimento ufficiale con il premio Nobel per la letteratura.

Ma si oppose al regime nazista e alla cultura che lo sosteneva e pur essendo tedesco e luterano di formazione culturale e religiosa dovette lasciare la sua Germania e dagli Stati Uniti assistette alla tragedia della sua patria e del suo mondo culturale. Dall’esilio, e vivendo con immenso dolore la fine della sua patria e la distruzione di tutto il suo mondo, nacque il grande romanzo Doctor Faustus.

Il Doctor Faustusè un romanzo non facile da leggere e meno ancora facile da comprendere, ma che possiamo dire semplicemente così: Thomas Mann racconta la tragedia della sua Germania e del frantumarsi di quei grandi valori di filosofia, di arte e teologia di tutta la cultura che sembrava trionfare in tutto l’occidente.

La Germania viene descritta come una patria raffinata in tutto il sapere, dalla filosofia alla teologia, dalla scienza alla musica. Ma tutto si sgretolò e si infranse per quella maledetta equazione: volontà del popolo e volontà di Dio (declinato in molteplici modalità e sensi).

Non a caso il protagonista del romanzo Adrian Leverkuhn è dapprima uno studente di teologia e poi un cultore dell’arte del linguaggio musicale. Diventerà un grande compositore di sinfonie e, diventato pazzo, finirà tragicamente, dopo essere riuscito a comporre l’ultima sinfonia tremendamente significativa: Lamentatio Doctoris Fausti.

Non c’è bisogno di tradurre per capire che si tratta di un infinito lamento di Thomas Mann per la tragedia della sua Germania, troppo sicura delle sue capacità e troppo sicura di essere in possesso della Verità e di Dio.

Dio e la Verità non si identificano mai con i nostri progetti, spesso troppo umani.

Per nostra fortuna: DIO NON E COSì! (J. Robinson).

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