Per comprendere alcuni tratti significativi del Sessantotto italiano – rimasti per lo più trascurati dal caleidoscopio di saggi e dibattiti in occasione del cinquantenario – occorre succintamente ricostruire la transizione dall’antica alla nuova ruralità, così come si è manifestata nell’evoluzione della società italiana dagli anni Cinquanta ai nostri giorni. Si potrà così scorgere la faglia che si creò durante la fase di modernizzazione dell’agricoltura e che impedì di affrontare positivamente il nodo storico del dualismo Nord-Sud dell’Italia.
Una frattura nell’osmosi che si era realizzata tra la cultura tecnico-agronomica ed economico-agraria e la sapienza esperienziale dei contadini e dei proprietari terrieri – a partire dal Rinascimento e strutturatasi dalla seconda metà dell’Ottocento in una efficiente organizzazione pubblica della conoscenza agricola – e che aveva accompagnato l’antica aspirazione delle campagne a trasformarsi attraverso i ritrovati della scienza e della tecnica.
La rottura cognitiva ebbe un impatto sociale ed ecologico devastante perché travolse anche le forme di collaborazione e integrazione che si erano avviate tra i tecnici, gli ingegneri e gli economisti agrari (coinvolti nel primo periodo di attuazione della riforma agraria e del programma di interventi della Cassa del Mezzogiorno), da una parte, e il mondo degli operatori sociali, dell’istruzione e dell’educazione, dall’altra.
L’abbandono dell’idea dello sviluppo mediante lo studio di comunità e l’accompagnamento dell’innovazione tecnologica fu l’esito della scelta trasversale – compiuta dai governi, dai partiti e dai sindacati – dell’industrializzazione forzata dall’alto in una logica fordista, che metteva ai margini la dimensione territoriale dei processi economici e la considerazione della conoscenza – che aveva acquisito, nel frattempo, con la rivoluzione scientifico-tecnologica il ruolo di fattore immediatamente produttivo – come bene comune da socializzare.
Il disagio profondo provocato da quella faglia, che metteva in discussione antichi assetti senza predisporre nuovi rapporti sociali e comunitari è una delle cause dei movimenti del Sessantotto. Ma in pochissimi lo compresero, mentre quei moti si svolgevano. E l’incapacità di leggere correttamente quella vicenda ha impedito finora di ricomporre quella frattura, condannando il Mezzogiorno e l’agricoltura a un destino assistenzialistico e periferico.
Nonostante tutto, una nuova ruralità si è andata a formare spontaneamente. E oggi costituisce, nella molteplicità dei suoi volti e delle sue motivazioni e idealità, uno degli ambiti più innovativi della nostra economia. Un ambito che potrebbe sprigionare tutte le sue potenzialità ed estendersi in tutti i territori del Paese, se si creassero le condizioni per mobilitare le istituzioni della conoscenza e accompagnare, con nuove politiche e percorsi partecipativi, l’innovazione sociale e, al tempo stesso, tecnologica.
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