Visioni

Quando la rivoluzione segna il ritorno al punto originario

Alfonso Pascale

L’etimo del termine “rivoluzione” è astronomico. “Revolutio” in latino vuol dire il ritorno del pianeta nell’orbita alla posizione iniziale. Quando Copernico scrive il De revolutionibus, si presenta come il restauratore della purezza dell’astronomia classica, pur sapendo benissimo che avrebbe introdotto una rottura “distruttiva” nella costellazione delle credenze stabilite.

Una rivoluzione è dunque il ritorno ad un punto originario, il ripristino delle condizioni preesistenti. Ma non si tratta di “conservazione”, bensì di “restaurazione”.

Dall’astronomia alla politica il percorso si compie quando si intende il presente come espressione degenerata a partire da un passato “mitico” che bisogna recuperare.

Nel caso della Rivoluzione francese, i rivoluzionari pensavano di tornare alle condizioni dell’antica Roma repubblicana. Anche con Lutero (ma già coi valdesi, gli ussiti e i seguaci di Savonarola) si trattava di ritornare al cristianesimo del messaggio evangelico contro la degenerazione della Chiesa romana. E nel “restauro” si introducono le novità, le “riforme”: quelle che guardano al futuro e non più al passato.

Tutti i veri innovatori sembrano volgere lo sguardo all’indietro, ma lo fanno solo per legittimare un futuro diverso. Non è un espediente o una finzione. È la necessità di creare una teoria razionale della tradizione. In questo modo anche il cambiamento delle idee diventa l’esito di una sorta di lotta per la vita. Non diversamente da quel che accade nella descrizione darwiniana degli organismi viventi. E così la libertà di cambiare in modo da vivere meglio innesca un processo di ripensamento e reinvenzione della realtà.

Oggi la democrazia ha bisogno di essere ripensata e reinventata. Per questo dobbiamo tornare a riflettere sulle sue origini, che si collocano all’incirca duemilacinquecento anni fa. Insieme alla democrazia nasceva anche la politica. Fu la democrazia a tenere a battesimo la politica. “Politeia” significa, letteralmente, cittadinanza. E prese forma nel Mediterraneo, sulla costa egea della Turchia, colonizzata dai Greci, con la seconda nascita della città. La prima era avvenuta nel Vicino Oriente sui territori dei grandi fiumi con la rivoluzione agricola, ottomila anni prima, come concentrazioni di sudditi sottoposti alla volontà di un unico re. La seconda volta, città, democrazia e politica diventano elementi che si legano strettamente. Ed è la tecnologia disponibile in quella fase della rivoluzione agricola a dare forma alla democrazia. Secondo un remoto adagio, le dimensioni di una città (compreso il suo contado) che avesse scelto di reggersi democraticamente dovevano essere tali da consentire a ogni cittadino di muoversi da casa non prima dell’alba, prender parte all’assemblea e tornare alla sua residenza non oltre il tramonto.

La democrazia rappresentativa, che noi oggi conosciamo, nasce agli albori della rivoluzione industriale. L’espressione fu usata per la prima volta da Hamilton nel 1777 a proposito della Costituzione americana. Contiene un ossimoro e contraddice gravemente se stessa: se è democrazia – cioè sovranità del popolo (come dicono i moderni) – non può essere esercitata attraverso rappresentanti, ma solo direttamente da chi la detiene. A cambiare la storia del mondo è, dunque, l’intreccio fra rappresentanza e sovranità popolare – impianto liberale e vocazione democratica. E a fare da giuntura è il suffragio universale. Dietro agiscono le nuove soggettività di massa dell’organizzazione capitalistica matura – operai, donne, aggressive borghesie di professioni e di impresa, con la loro cultura e le loro passioni. Un equilibrio fortemente instabile che con il tempo si è rotto.

Oggi siamo avviati sulla strada della rivoluzione digitale. E la democrazia rappresentativa, così come ha preso forma in questi ultimi due secoli, ha concluso il suo percorso. Bisognerà costruire una teoria di questa tradizione. Ma un profondo cambiamento ci attende, prima di tutto culturale. E sarà il contesto tecnologico, ancora una volta, a fornirci le coordinate delle nuove forme della democrazia contemporanea. Dovremo attingere sia alla teoria della tradizione democratica degli antichi, sia a quella dei moderni, da elaborare oggi a ciclo concluso. E solo da un profondo ripensamento potremo reinventare la democrazia del futuro. Ci vuole un riformismo costituzionale che pensi alla democrazia oltre lo Stato e alla democrazia che combini autogoverno e rappresentanza per fare in modo che la cittadinanza diventi di nuovo la condizione della convivenza e del benessere.

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