In una delle iniziative che hanno accompagnato il G7 dei ministri dell’agricoltura – svoltosi a Bergamo il 14 e 15 ottobre nel solco del vertice di Taormina e nella più ampia cornice “Fame zero” dell’Onu – è stata evocata una delle crisi umanitarie più gravi di questa estate: la fuga in Bangladesh di centinaia di migliaia di persone di etnia rohingya dallo stato birmano di Rakhine.
Ne aveva parlato il premier francese, Emmanuel Macron, all’Assemblea dell’Onu, accusando esplicitamente il governo birmano di operare una vera e propria “pulizia etnica”. Ma nessuno si aspettava che a sollevare la questione a Bergamo fosse il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, intervenuto nella conferenza pubblica “Obiettivo: fame zero”.
Interrompendo per un istante la sua relazione, il prelato ha aggiunto a braccio quella che ha definito una “devastante contraddizione”. “Mentre parliamo – riporta testualmente Avvenire – continua la cacciata dei contadini rohingya dai loro terreni. Sapete perché? Perché tutti i loro terreni devono essere coltivati a riso, che arriva in Italia a dazio zero: noi lo importiamo e lo paghiamo meno, ma è riso coltivato a spese di questa gente condannata ad andare in città dove morirà di fame. Seconda conseguenza: penalizziamo i nostri coltivatori. Di questo chi si interessa? Chi prende le difese dei poveri? Nessuno, perché interessa solo andare al mercato e comprare il cibo a qualche centesimo in meno…”.
Mons. Galantino aveva appena incontrato, in una piazza di Bergamo, gli agricoltori della Coldiretti che manifestavano contro il trattamento agevolato all’importazione di riso dal Myanmar con cui l’Unione europea ha sottoscritto un accordo bilaterale che prevede dal 2009 l’eliminazione totale del dazio. A giudizio di questa associazione, l’agevolazione penalizzerebbe i nostri produttori che subirebbero la concorrenza del riso importato dall’Asia. Ma finora nessuna delle organizzazioni non governative, mobilitate nel richiedere l’intervento dell’Onu, ha mai posto un nesso diretto tra la fuga della popolazione rohingya e l’incremento della produzione risicola. I due fatti non sembrano per nulla collegati. Ma certamente fa presa sull’opinione pubblica italiana la “notizia” che il riso birmano arriverebbe sulle nostre tavole “macchiato” delle violenze nei confronti di una minoranza etnica. Un pretesto “buono”, “umanitario”, non c’è che dire, per rivendicare il ripristino della misura protezionistica.
Le dichiarazioni del segretario della Cei sono state diffuse da Avvenire, ma non sono state riprese da L’Osservatore romano. E il motivo è semplice: dal 27 al 30 novembre è previsto il viaggio apostolico di papa Francesco in Myanmar, preparato meticolosamente dalla chiesa locale. Il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ha dichiarato alla stampa occidentale che la visita non è strettamente legata alla vicenda dei rohingya. “La Chiesa – ha affermato Bo – sostiene i diritti fondamentali di tutti, inclusi quelli dei rohingya e degli altri gruppi etnici minoritari di religione cristiana (come kachin, kayah e karen) che continuano ad essere in conflitto con l’esercito e a soffrire”. E ha continuato: “Esiste oggi una fobia verso i musulmani creata nel paese dal linguaggio dell’odio e dai social media. Attraverso i social media, i discorsi di odio si diffondono velocemente e le notizie false assumono ben presto rango di verità. Inoltre il popolo del Myanmar è molto influenzato da ciò che accade altrove nel mondo. Questo clima non aiuta alla soluzione della crisi con i rohingya. Stiamo lavorando per portare una certa comprensione tra i vari attori, a livello sociale, politico e religioso”.
Un linguaggio molto più vicino a quello del nostro ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina. Il quale, nel suo ruolo di promotore del vertice, ha reagito con garbo, ma risoluto, alle pretese della Coldiretti, incautamente spalleggiata da Galantino. “Cavalcando il malcontento – ha detto Martina – sarebbe semplice alzare muri, mettere barriere e imporre dazi, ma io preferisco continuare a lavorare sul terreno della cooperazione, del rapporto tra i popoli, della vicinanza, degli scambi e del dialogo. Ben sapendo che fare questo lavoro è faticosissimo, perché la contraddizione che è stata portata del riso è il paradigma del problema. Si immagina di sviluppare nuova cooperazione con il dazio zero verso i Paesi meno avanzati e si scopre che quella politica produce poco come efficacia nel sostegno ai produttori asiatici e crea un problema ai nostri. Ma la risposta di uno come me, che non accetta la logica dei dazi, è più difficile di quella di chi vuol rialzare i muri. Io non posso accettare questa prospettiva, dobbiamo costruire regole nuove per mercati aperti”.
Non si può che concordare con questa visione laica e lungimirante del ministro. Alla tentazione di assecondare il malcontento con risposte semplicistiche, bisogna reagire, tutti, con razionalità e ragionevolezza, sforzandoci, laicamente, di comprendere fino in fondo come stanno i fatti e trovare ulteriori regole che tengano insieme apertura, libertà e giustizia.
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